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mercoledì 8 novembre 2017

Il contatto con il Divino e la Sacra Scrittura

Parlando di grazia, come ho fatto nel post precedente, si è determinati a parlare di un vero e proprio contatto con il Divino. La potenza guaritrice (dynamis) che esce da Cristo e sana l'emorroissa non opera una semplice terapia ma stabilisce un contatto immediato, per quanto fugace, tra la realtà umana e quella divina.

Nonostante non possa essere espresso dalla logica, tale contatto è chiaramente avvertito dalla natura umana come qualcosa di totalmente altro e di assolutamente inesprimibile. Il fenomeno avviene in un determinato momento, al punto che la persona guarita si ricorda l'ora e la data dell'avvenimento, ma, scaturendo dalla sfera divina, proviene contemporaneamente da una dimensione atemporale. Il contatto dell'uomo con il Divino testimoniato dai Vangeli si prolunga nella Chiesa ma solo sotto determinate condizioni che già il Vangelo mette in bocca a Cristo: “Credi nel Figlio dell'uomo?” (Gv 9, 35); “Non ti ho detto che se credi, vedrai la gloria di Dio?” (Gv 11, 40). Gli Atti degli Apostoli ribadiscono lo stesso concetto: “Filippo disse: 'Se tu credi con tutto il cuore, è possibile'. L'eunuco rispose: 'Io credo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio'” (At 8, 37). La fede incrollabile in Cristo rende possibile il contatto tra la dimensione eterna e quella temporale, la realtà increata (o divina) e quella creata (o creaturale).

Il fatto è ampiamente evidenziato nella Rivelazione perché lo si possa mettere in dubbio e lo si può testificare in particolari momenti della vita di certi santi.
La fede cristiana non è un bagaglio di concetti intellettuali da conservare e tramandare. Per quanto la si possa esprimere anche in termini discorsivi, la sua vera natura è spirituale: la fede è un atteggiamento dello spirito umano che si appoggia su un “sentire” interiore che viene attivato dalla grazia. In effetti un tempo si diceva popolarmente: “Credere è una grazia di Dio”.

Infatti, ad un ateo potremo parlare fino a domattina dell'esistenza di Dio, magari facendo leva sulle cosiddette prove filosofiche di Tommaso d'Aquino, ma non crederà. Quello di cui l'ateo, e in fondo ognuno di noi, ha bisogno non sono i remata (le parole come puri suoni) ma i logia (le parole che danno vita). Cristo è il Logos per eccellenza: quello che dice immediatamente compie, che sia la maledizione del fico sterile, che sia la resurrezione di Lazzaro.

La grazia, dunque, effettua un contatto dell'umano con il Divino, essendo la grazia medesima “sangue”, se così si può dire, di Dio stesso.

È attraverso questo contatto che gli asceti erano resi sapienti, pur senza aver fatto particolari studi. È per cercare questo contatto che essi vivevano con grandi rinunce: “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo, che un uomo, dopo averlo trovato, nasconde; e, per la gioia che ne ha, va e vende tutto quello che ha, e compra quel campo” (Mt 13, 44).

È attraverso questo contatto che chi ne usufruisce, magari anche un solo istante, comprende il valore della Scrittura e della Tradizione in un modo che non è dato a tutti perché consiste nel vedere le cose “all'interno” di loro stesse.

Fatta questa premessa, si può ora ben capire perché nei primi secoli cristiani era auspicabile l'esperienza monastica, soprattutto per chi avrebbe ricoperto una carica episcopale. Il vescovo, infatti, non deve giudicare con la mentalità del sindaco, in modo legale, esteriore, mondano (come oramai avviene). Il vescovo, come padre della diocesi, deve giudicare con l'occhio di Dio e questo è possibile solo in un'atmosfera autenticamente monastica. Se ciò non avviene, la Tradizione immediatamente si rinsecchisce e diviene un mero elenco di cose da fare “perché si è sempre fatto così” fino al giorno in cui qualcuno ha il coraggio di buttare tutto per aria (come oramai avviene nel Cattolicesimo e come è avvenuto nella Riforma protestante).

A questo formalismo che porta all'iconoclastia e alla desacralizzazione si è poi aggiunta la mentalità illuministica che ha letteralmente imbevuto tutto il nostro Cristianesimo occidentale.

Ad esempio ciò lo vediamo in un'intervista del generale dei gesuiti Arturo Sosa il quale dichiarò che le parole di Gesù non sono state tramandate da un nastro, o disco che sia, per cui noi non sappiamo esattamente ciò che Egli abbia detto.

L'affermazione ha fatto giustamente rizzare i capelli a molti ma chi ha protestato si è limitato a contrapporre a questa dichiarazione, che finisce per relativizzare il valore delle affermazioni di Cristo, l'idea che l'autorità dei Vangeli è sufficiente a fondare se stessa e quindi non dev'essere scalfita: “è così perché è così”.

Da quando la dichiarazione sosiana è stata fatta, lo scorso febbraio, non ho trovato una riflessione, che sia una!, che mi spiegasse le cose in modo alternativo, un po' più profondo. E anche questo, ovviamente, indica come la fede cristiana, almeno in Occidente, si sia fin troppo intellettualizzata.

Detto diversamente: si è alterato quel movimento circolare che i Padri stessi della Chiesa ci mostrano e gli asceti ci confermano. Il movimento circolare è questo: si parte dalla Scrittura, si crede in Cristo, ci si converte a lui, si è toccati dalla grazia, si legge con la grazia la Scrittura nella Chiesa e, nell'esperienza mistica, si ha la prova provata della sua validità. È ovvio che tutto questo non è istantaneo al punto che può richiedere molto tempo, ma è l'unico modo autentico di approcciarsi alla Scrittura che io conosca.



Oggi questo movimento circolare si è da tempo alterato: messa da parte la Chiesa e ritenuto un mito la grazia e la vita spirituale, si legge la Scrittura con il solo intelletto, un intelletto razionale che i Padri definirebbero “pieno di passioni” e quindi portato a cercare, nella lettura, conferma anche alle proprie debolezze. Il movimento circolare tradizionale è dunque stato sostituito con un altro movimento circolare: si parte da se stessi, si arriva alla Scrittura e, attraverso la ragione logica individuale si trae un significato razionale per poi tornare a se stessi, magari con diversi dubbi in più, come mi sembra di capire dalla risposta del gesuita.

Le parole di Gesù in quanto semplice scritto non significano nulla se non diventano vita della Chiesa, una vita in contatto reale (non ideale!) con l'Eternità. Quando ciò non avviene, sia perché richiederebbe un ascetismo ritenuto repellente, sia perché non si è mai creduto davvero, il vangelo diviene campo di esercizio per le opinioni più arbitrarie, tra cui quelle di padre Sosa.

Si comprende bene come qui oramai non possa più esservi spazio per alcun contatto con il Divino poiché non si può imparare veramente nulla di utile, visto che si pongono ragionamenti simili o peggiori di Peppone contro don Camillo.

Il discorso della grazia e del contatto con il Divino non può trovare assolutamente luogo in certi ambienti. Chi vuole continuare a credere si metta l'anima in pace, lasci pure che “i morti seppelliscano i loro morti” (Mt 8, 22), e viva nella Tradizione.

martedì 7 novembre 2017

La Chiesa: una questione di grazia

Se si seguono i dibattiti all'interno delle Chiese nel nostro tempo, si rimane esterrefatti: tutto il mondo cristiano è disperso in mille problematiche e cerca, con ciò, di dare un senso alla propria esistenza.

Non c'è tema attuale nel quale, in un modo o in un altro, le Chiese non siano implicate: temi etici, sociali, economici, ludici, psicologici, psicanalitici, economici, politici ...

Risuonano ancora alle mie orecchie le contestazioni sociali di qualche seminarista cattolico quando gli veniva fatto presente il primato delle realtà spirituali nella Chiesa: “Che se ne fa dei sacramenti un africano che ha fame? Prima bisogna dargli da mangiare!”. Questo tipo di contestazioni hanno uno speciale agnosticismo neppure tanto nascosto: quello che conta, in realtà, è l'immediatezza materiale. Il resto si può fare ma non è così importante come la materialità. Oltretutto qui è rovesciato il primato dello spirituale sul materiale, dell'anima sul corpo, quel primato che Cristo evidenziava con questa domanda retorica: Che giova infatti all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?” (Mc 8, 36).

Da allora questi seminaristi sono divenuti sacerdoti e alcuni tra loro vescovi. Non fa alcuna meraviglia, quindi, se oggi in molte chiese cattoliche non si respira alcuna aria soprannaturale e, anzi, questa è ritenuta una pura affermazione verbale, quando non è semplicemente disprezzata.

Come oramai spesso sottolineo, siamo dinnanzi ad un arianesimo ecclesiale. Quando si crede nella divinità di Cristo si deve essere ben coscienti che, nella pratica, la Chiesa essendo il Suo prolungamento nel tempo, ha caratteristiche umane ma pure divine. Se nella Chiesa non s'intuisce nulla di divino ma è tutto troppo umano, la si è staccata da Cristo e non ci si può confortare con alcuna promessa divina applicata magicamente. Non ho alcun dubbio su tutto ciò!

Nella Chiesa tutto è collegato a tutto: non si può continuare a porre mano su quanto ricevuto per tradizione, cambiarlo e stravolgerlo senza pensare di non subirne qualche contraccolpo. E il primo contraccolpo che si sperimenta è proprio quello di vivere in un'atmosfera troppo umana, “logica”, autoreferenziale. Dio, anche se talora viene nominato, dov'è? Non c'è! Ecco spiegato il dilemma di molte nostre chiese occidentali “vuote di Dio”.

La Chiesa, in realtà, è una questione di grazia e null'altro! Ma cos'è la grazia? Credo che se poniamo questa domanda al clero odierno otterremo ogni volta una risposta diversa: tot capita, tot sententiae!

Andremo dalla definizione intellettuale che ne diede Martin Lutero (la grazia è la giustificazione che Dio ci dona in Cristo, rendendoci giusti anche se rimaniamo peccatori), a definizioni sempre più imprecise. Forse qualcuno non risponderebbe affatto. Rari sarebbero coloro che si rifarebbero alle definizioni dei catechismi di un tempo.

Il fatto è che gran parte di queste risposte non solo non è precisa ma è fuorviante, segno che tutte queste persone non sanno, in realtà, cosa sia la grazia. È un paradosso se pensiamo che questa vacuità ce la trasmettono molti sacerdoti! 
È come essere davanti da un meccanico che ci dicesse che il cacciavite è fatto a U mentre un altro ritenesse che ha una forma circolare e un terzo negasse addirittura l'esistenza dei cacciaviti. 
Che idea ci faremo di costoro? Che non hanno mai visto un cacciavite ma che in qualche modo ne devono parlare perché devono presentarsi come meccanici! 
Così è gran parte del clero attuale perché quello di ieri, fosse anche stato ignorante a livello esperienziale sulla grazia, almeno ripeteva meccanicamente il catechismo e salvava le apparenze.
Tuttavia mentre nessuno farebbe riparare il motore della propria auto ad un meccanico ignorante di cacciaviti, un prete che straparla sulla grazia o che la nega trova sempre qualcuno che gli da credito! Un laico che si affida a tali preti ne uscirà seriamente danneggiato nel “motore della sua anima ma probabilmente non ha la possibilità di esserne cosciente.

Volendo fare un paragone somatico, come fece l'Apostolo, la grazia è nella Chiesa come il sangue è nel corpo. Ma siccome la Chiesa ha caratteristiche anche divine, non solo credute per fede ma sperimentate nella realtà, la grazia è divina tout-court

So benissimo che nel periodo in cui il tomismo dominava la teologia cattolica si è architettato un escamotage con il quale, pur salvando il carattere soprannaturale della grazia, la si dichiarava di natura creata (quindi appartenente al nostro mondo peribile). Quest'affermazione nasceva dall'idea filosofica che Dio non si può mescolare con il mondo altrimenti viene meno come Dio. Una preoccupazione filosofica ha finito, in qualche modo e sicuramente senza volerlo, per appannare il carattere totalmente trascendente della grazia e anche questo ha aiutato ad inclinare il piano con il quale si è scivolati nell'attuale situazione secolarizzata.

Invece, la grazia è divina perché attraverso la forza della grazia è stata guarita l'emorroissa e il Vangelo lo evidenzia nella frase sfuggita a Cristo in quell'occasione: «Qualcuno mi ha toccato, perché ho sentito che una potenza è uscita da me» (Lc 8, 46). Da questo passo, è evidente che la grazia è qualcosa che proviene da Cristo in quanto Dio poiché, come uomo, non potrebbe fare cose del genere, e tale grazia ha effetti pure sul corpo. Il vangelo ci mostra che è qualcosa di estremamente concreto: è una forza (dynamis, in greco) che determina una guarigione. Ma è altrettanto ovvio che se questi passi evangelici sono ritenuti delle invenzioni, delle pie storielle, pure l'idea della grazia ne esce distorta.

Oltre alla grazia in senso generico (come abbiamo appena visto), un tempo si parlava di “grazia sacramentale”: i sacramenti ricevuti nella fede in Cristo sono veicoli di grazia. Questo in effetti è vero ma non in senso puramente ideale, come spesso si ritiene. La grazia è una forza, accende delle potenzialità normalmente dormienti nell'interiorità umana, abilità la persona a riconoscere o meno la volontà divina senza bisogno di intermediari umani (di qui il terribile sospetto e paura istituzionale davanti ai mistici nell'Occidente cristiano!). 

È qualcosa di molto sperimentale e di sperimentabile al punto che gli antichi padri, penso a san Simeone il Nuovo Teologo (XI sec.), non pensavano possibile esserci se la persona non sentiva alcun suo intervento. La grazia è un'arma, una protezione, una bussola, determina a vedere le cose con degli occhi divini, da la sensazione di una catarsi, di un'elevazione, spinge all'umiltà, al nascondimento, alla custodia della propria interiorità, accende l'intelligenza e scalda il cuore.
Per questo la vera comunione delle persone all'interno della Chiesa si fa nell'unica esperienza di questa grazia (questo è l'unico e autentico significato della frase: Cristo porta all'unità), non con escamotage umani, imposizioni, politiche ecumeniche, ecc. La stessa comunione formale con un gerarca (ad es. con il papa nel Cattolicesimo) non vuole dire assolutamente nulla se non è preceduta ed accompagnata dalla comunione nella grazia perché nella Chiesa non si può prescindere mai da Cristo.

Nei primi tempi del Cristianesimo si pensava che abiurare Cristo fosse possibile solo nel caso in cui la grazia non avesse funzionato e ciò significava che il battesimo ricevuto dovesse essere stato per qualche ragione invalido. Oggi, con questo metro e dinnanzi alla pavidità e alla freddezza di molti cristiani, quanti battesimi sarebbero invalidi?

La grazia è così importante per la Chiesa che in essa se ne dovrebbe sempre parlare. Dovrebbe essere veramente una “sacra ossessione”. Invece non se ne parla affatto e questo vuoto di parola indica benissimo il vuoto di una realtà, per di più di una realtà fondamentale. Al più si parla di etica, non si parla di grazia. Per questo i drammi viscerali che emergono da molti siti internet cattolici sulle questioni morali mi infastidiscono (nonostante sia anch'io preoccupato del libertinismo attuale presente nei chierici e nei laici). 

Infatti, ci muoviamo in una prospettiva sempre secolare, orizzontale, troppo umana, seppur animata dalle migliori intenzioni cristiane.

Una spiegazione c'è: la grazia per poter agire in modo anche sperimentale chiede che una persona lavori molto su se stessa. Questo è uno dei significati della parabola del seme nella terra (Lc 8, 4-15). Ci vuole una terra buona, quindi continuamente lavorata e preparata con il sudore della propria fronte, perché il seme gettato da Dio possa fruttificare. Senza questo lavoro che tradizionalmente si concretizza in lunghe veglie di preghiera, nell'astinenza, nel digiuno e in una vita ascetica nella quale si praticano i comandamenti, il seme cade o sulle spine o sui sassi e in quest'ultimo frequentissimo caso non produce nulla. Senza gli effetti reali della grazia tutto è visto umanamente e di conseguenza al più in modo meramente etico.

Se molti in una Chiesa sono in questo stato è la stessa assemblea ecclesiale che è priva di grazia! Che traditio può esserci in un'assemblea in gran parte dis-graziata? Una traditio puramente formale e, alla lunga, una rielaborazione puramente umana della traditio stessa! La mancanza della grazia nella maggioranza porta alla formalità religiosa (ad un ossequio puramente esteriore) e, alla lunga, al cambiamento radicale di una Chiesa. Mi sembra di vedere, in tutto ciò, il travaglio cattolico dell'immediato preconcilio e del postconcilio, tra gli anni '50 e gli anni '70 ma possiamo tranquillamente vederci la Germania prima e dopo la Riforma luterana. Inoltre, per pars condicio, ci vedrei pure qualche ambiente ortodosso dove la tradizione è vissuta in modo puramente formale e la liturgia diventa solo un pretesto per ritrovare la propria Nazione quando si vive nella diaspora. Qui non si sa o non si vuole sapere che si è già nell'anticamera verso la rovina della Chiesa ...


Giustificare le persone, senza imprimere in esse una sana inquietudine spirituale, significa allontanarle da Cristo, rendere inefficace la grazia (anche se si difende lo strano pseudo-diritto alla comunione eucaristica), trasformare la Chiesa in un'associazione di diritti umani, equivocare la rivelazione, in una parola: arianizzare la Chiesa stessa. 

Il Cristianesimo, quello autentico, sta da un'altra parte ed esattamente dove Chiesa e grazia sono intimamente unite e vive, come il corpo e il suo sangue. Ciò chiederà anche fatica, è vero, ma è Cristo stesso che parla di “porta stretta” per il Regno dei Cieli, non di cammini semplici e larghi ma vuoti di grazia.


© Traditio Liturgica

domenica 22 ottobre 2017

La risonanza della Parola


Uno dei temi più ricorrenti nel mondo Cattolico è quello per cui la sacra Scrittura, letta nella Chiesa, ha una sua particolare risonanza.
Questo tema è, di suo, antico e tradizionale tant’è vero che non casualmente la Liturgia è intessuta di espressioni bibliche e riporta passi del Nuovo e dell’Antico Testamento.
Prima dell’invenzione della stampa era normale leggere la sacra Scrittura solo in Chiesa, davanti all’assemblea dei fedeli, poiché era l’unico momento in cui lo si poteva fare.
L’invenzione della stampa è stata una rivoluzione di cui oggi non ci rendiamo perfettamente conto. Sottrasse la sacra Scrittura alla Chiesa consegnandola all’individuo e alla sua libera interpretazione. È l’invenzione della stampa che, in qualche modo, contribuì ad imprimere un vero e proprio slancio alla dottrina luterana.
La libera interpretazione della sacra Scrittura può portare a risultati antitradizionali e, di conseguenza, a risultati distruttivi per la fede e la Chiesa stessa perché eleva la coscienza individuale al di sopra della coscienza ecclesiale <1>. Ben conscia di ciò, la Chiesa all’inizio proibì la lettura della sacra Scrittura in senso individuale poiché essa doveva continuare a risuonare nell’assemblea ecclesiale all’interno della quale si riteneva esistesse ancora la corretta mentalità per poterla interpretare <2>.
In una Liturgia nella quale si è conservato il senso del sacro, nel significato più alto del termine, e una vivida consapevolezza di ciò, la sacra Scrittura risuonerà nel modo più profondo e spirituale, sia essa proclamata nell’idioma correntemente parlato o in un’antica lingua liturgica. In una Liturgia nella quale il senso del sacro è stato infranto con tutte le banalizzazioni che ne conseguono, inevitabilmente ci sarà una ripercussione anche nellinterpretazione biblica.

Citerò un fatto occorsomi ultimamente e che esprime chiaramente quanto sto dicendo.

Duomo di Gemona (Udine). Messa serale accompagnata dal canto degli alpini.
Viene letto un passo di un’epistola apostolica nella quale, tra l’altro, si dice: “Se non amiamo il prossimo che vediamo, come possiamo amare Dio che non vediamo?” (1 Gv 4, 21).
L’interno della chiesa aveva un’atmosfera che mi riportava a quella di un’aula protestante di Berlino, da me visitata un paio di anni fa. Assolutamente tutto mi suggeriva che quel passo biblico dovesse essere inteso solo umanamente: amare il prossimo significava sovvenirlo in senso sociale e, d’altra parte, la stessa preghiera iniziale del sacerdote suggeriva ciò. In quell’aula ecclesiale la Scrittura risuonava, sì, ma con un significato fin troppo umano, così umano che uno non poteva non chiedersi a cosa potesse mai servire la Chiesa.

Solo attraverso le mie frequentazioni monastiche ho potuto capire che il passo di 1 Gv 4, 21 evoca un amore non umano, al quale il cristiano è abilitato con la grazia di Dio perché ordinariamente i preti oggi non ne parlano e forse non lo sospettano nemmeno. Di conseguenza, la “risonanza della Parola” a Gemona non elevava ma abbassava lo spirito umano. Questo è quanto sperimentalmente ho potuto sentire. Al contrario, il fine di tale risonanza è sempre quello di svegliare lo spirito, la nostra sfera più interiore, non di solleticare solo la ragione o la nostra psiche imprigionandoci nella camera a specchi della nostra mente. La risonanza (o catechesi, dal termine greco katecheo) comporta l’elevazione dell’umano nel divino, non l’abbassamento del divino nell’umano!

Non è un caso che nella sacra Scrittura si usino due termini greci per indicare il termine “parola”: logos e rema. Il logos è la parola creativa, appena si pronuncia crea: “Sia la luce e la luce fu” (Gen 1, 3). Cristo fa dei logia, ossia pronuncia delle parole che danno vita e il Logos è, d’altronde, un modo alternativo per denominare Cristo stesso poiché “in Lui era la vita” (Gv 1, 4) <3>. Nella coscienza antica della Chiesa, quando l’uomo è santificato in Cristo, diviene un altro Cristo per grazia ed è in grado, talora, di pronunciare dei logia, ossia delle “parole creative”, altrimenti dette miracoli. I miracoli sono fatti reali, non racconti puramente allegorici. Se fossero pure allegorie Dio sarebbe impotente, non potrebbe operare logia o mirabilia Dei e sarebbe come noi che proferiamo semplici parole umane. Perciò Dio non sarebbe più Dio o, più semplicemente, Dio non esisterebbe!
Le guarigioni e i miracoli compiuti in nome di Cristo indicano che il singolo fa dei logia e il caso evangelico in cui gli apostoli non vi riescano fa indignare Cristo stesso perché mostrano che essi, nonostante la Sua presenza fisica, non sono ancora stati permeati dalla sua grazia a causa della durezza del loro cuore (Mt 17, 14 ss.). Infatti, chi ha fede come un granello di senape, può pure fare cose meravigliose (Lc 17, 6; Mt 17, 20).

Un altro termine scritturistico per indicare “parola” è rema. Rema non è che un flatus vocis, il nostro modo ordinario di parlare, una parola che di suo non crea nulla, anzi, a volte distrugge. È così che l’atto della parola è disgiunto dall’atto creativo e la terra, a causa della disobbedienza adamitica, divorzia dal Cielo.
La “Parola di Dio” non è e non sarà mai rema, parola unicamente umana, ma logos, parola divina. La sacra Bibbia non è di suo una raccolta di logia, poiché contiene solo parole stampate nella loro nuda materialità, ma è una veridica e autorevole testimonianza dei logia divini, dell’esistenza reale di tali atti creativi in tutta la storia della salvezza che perdura nel presente. La Chiesa e l’evangelizzazione non sono questione di remata, parole unicamente umane, ma di logia, parole creative e divine.
Di conseguenza, “se non amiamo il prossimo che vediamo, come possiamo amare Dio che non vediamo?” (1 Gv 4, 21), non potrà mai essere interpretato in senso psicologico e umano ma in senso unicamente elevato, spirituale, divino. La Chiesa è nel mondo per portare lo Spirito di Dio, non per adagiarsi allo spirito secolarizzato o piacere ai vari Scalfari del momento.

Ed ecco perché il luogo per eccellenza in cui si custodisce la sacra Scrittura è il santuario o l’altare, non un luogo qualsiasi: la Rivelazione, infatti, discende da Dio, pur essendo anche parola umana, non da un semplice uomo. Stabilire la chiesa come edificio nell’ordine tradizionale di un tempo, significa obbedire ad un ordine simbolico che ci riporta a queste verità basilari poiché la simbologia parla sempre e in ogni epoca allo spirito umano, anche se la ragione non lo comprende immediatamente. Ecco perché in un edificio ecclesiastico non può non esistere il santuario come spazio normalmente chiuso ai laici <4>.

Inoltre, la distinzione biblica del termine “parola” tra logos e rema, ha forti conseguenze in ambito ecclesiale e liturgico perché mostra chiaramente che il piano divino non potrà mai essere quello umano, per quanto l’uomo possa esserne reso in parte partecipe solo in Cristo. La loro confusione e sovrapposizione indica, alla fine, una profonda confusione nell’intendere la fede e la figura di Cristo.

In un ambito ecclesiale nel quale viene tutto psicologizzato e umanizzato, nel quale “l’amore per il prossimo” significa dargli spettacolarmente da mangiare a san Petronio di Bologna (giusto per fare un solo esempio di cui riportiamo una immagine), la presenza della Grazia per la quale è stata costituita la Chiesa, può venire seriamente oscurata. È pure una indiretta confessione che oggi si è impotenti a operare i logia evangelici, se ancora si crede che un tempo li si operava. Ci si affida, allora, a espedienti unicamente umani. Ma se la via che porta al Cielo è equivocata ed oscurata, quell’ambito ecclesiale in tali condizioni non può che votarsi all’insensatezza e rendersi come il sale non salato: buono solo ad essere calpestato dagli uomini (Mt 5, 13) <5>.

Per principio queste analisi non si muovono con l’intenzione di condannare persone o ambienti ma registrano dei dati di fatto: operate certe scelte ampiamente secolarizzate, un ambito ecclesiale si stacca da solo dal tronco evangelico con la sua linfa vitale. Di conseguenza non potrà che votarsi alla sterilità religiosa e abbassare i logia evangelici a puri remata. La via per l’agnosticismo è, così, ampiamente spianata e, di conseguenza, certe comunità ecclesiali potranno avere sempre meno autentici fedeli e sostituiranno i rimanenti con operatori sociali o atei di fatto ai quali forniranno ogni giustificazione. È questo che significa il fico sterile che, perciò, viene maledetto da Cristo e immediatamente muore (Mt 21, 19). Il vangelo riporta che Cristo può anche maledire e ciò dev’essere sempre ricordato ...
Pur nella sua complessità, tutto è semplice e logico per chi lo sa vedere e ha l’onestà di ammetterlo: l’attuale crisi nel Cristianesimo occidentale nasce da una crisi di fede. Infatti, non solo non si crede più come un tempo ma ormai non si crede affatto.
 

© Traditio Liturgica
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1 L’interpretazione ecclesiale della sacra Scrittura, anche da parte di un singolo, avviene quando si tiene conto delle catechesi patristiche sulla stessa e dell’insieme dell’insegnamento ecclesiale nei secoli. Ma oggi chi si riferisce davvero agli scritti patristici, visto che sono considerati dalla maggioranza dei teologi cattolici come “preistoria” della teologia? La stessa istanza magisteriale della Chiesa cattolica è spesso interpretata in modo molto storicistico per cui gli ultimi pronunciamenti e interpretazioni sostituiscono e si contrappongono senz’altro a quelli passati. Tutto ciò è fortemente problematico e determina inevitabilmente un approccio solo individualistico alla sacra Scrittura.

Si noti come spesso tale proibizione sia stata sommariamente interpretata come un “oscurantismo clericale”.

3 Il Logos è dunque la “parola creatrice” fatta carne in Cristo. Stupisce, sapendo ciò, l'iniziativa di qualche esegeta cattolico, il quale col desiderio di rendere “comprensibile” questo passo, lo ha tradotto: “In principio era la comunicazione”. Questo desiderio di rendere i passi evangelici con i termini della cultura contemporanea finisce per abbassare il significato fino a renderlo totalmente risibile. 

Ho già scritto altrove su questo argomento. Qui mi limito a ricordare che il santuario indica, secondo le mistagogie antiche, la realtà interiore e nascosta del Cristianesimo. La sua normale inaccessibilità ai laici lo sottolinea a livello simbolico. Aver di fatto disprezzato questa simbologia, con il libero accesso nel santuario da parte di tutti o con la sua abolizione in diversi edifici ecclesiastici moderni, non può non avere delle evidenti ripercussioni anche nel modo di intendere la fede che, infatti non casualmente, è interpretata in senso sempre più antropocentrico. D’altronde lo stesso fatto di costruire le chiese in modo antitradizionale indica un modo diverso e spesso opposto di concepire la fede stessa.


A fianco della cattedrale di Gemona, nello stesso istante in cui al suo interno si svolgeva la messa serale, c’era un camion il cui cassone era pieno di ossa e teschi umani. In un primo momento non me ne accorsi. È stato un ragazzo con la sua fidanzata a indicarmelo poiché se ne uscì con una infelicissima frase che faceva tanto hallowen: “Possiamo portarne via qualche pezzo?”. Probabilmente degli operatori comunali avevano scavato nei dintorni rinvenendo questi resi in seguito sommariamente caricati su un camion a bella vista e portata di qualsiasi passante. Considerata la reale vicinanza alla cattedrale non posso non pensare che il clero non ne fosse a conoscenza ma evidentemente ne è rimasto completamente indifferente. A me tutto ciò è suonato come una chiarissima desacralizzazione e banalizzazione e ho reagito pregando brevemente per le persone di cui vedevo i miseri resti. D’altra parte un ambiente ecclesiale che si è quasi totalmente secolarizzato, com’è quello della Chiesa cattolica friulana, come può aiutare i laici ad avere un concetto elevato della vita umana e degli stessi resti umani che, per un battezzato, sono sacri in quanto furono abitati da un uomo che ricevette il battesimo e la grazia di Dio? Qui siamo molto peggio che dinnanzi ad una eresia e i suoi frutti, d’altronde, lo confermano sfacciatamente.

domenica 3 settembre 2017

Ispirazione e liturgia: alle radici della desolazione liturgica occidentale

Togliere alla liturgia il suo aspetto trascendente significa tradirla
Il termine “ispirazione” è spesso collegato alla letteratura biblica: l'agiografo, o compositore, di un libro biblico scrive su ispirazione divina pur mantenendo, nel suo scritto, tutte le caratteristiche di una determinata cultura locale in una precisa epoca.
La liturgia cristiana, i cui elementi essenziali sono rinvenibili nei Vangeli e nelle lettere paoline, risente pure lei di una cultura locale espressa in un certo periodo storico. È il suo lato umano. In tal senso, può essere studiata come si studia qualsiasi testo letterario. Esistono, allora, profondi studi che cercano d'individuare nella liturgia peculiarità con le quali una liturgia copta non è, ad esempio, della stessa famiglia di una liturgia bizantina o, ancora, una liturgia bizantina ha precise differenze strutturali rispetto ad una siriaca.

Questo va bene ma non è affatto sufficiente. Nell'antica tradizione della Chiesa, la liturgia non è mai stata vista solo come un'espressione umana. Impararne la struttura tradizionale, il suo genere letterario, il suo vocabolario essenziale, non significa avere in mano le profonde chiavi della conoscenza liturgica. Sarebbe come cercare di esprimere la vita con espressioni algebriche.

Nell'antica tradizione della Chiesa, passato il momento in cui la redazione dei testi liturgici ha conosciuto una certa fluttuazione, il culto si è fissato rapidamente ed altrettanto rapidamente è stato canonizzato. Uso questo termine perché rende bene quanto voglio esprimere: canonizzare una liturgia significa attribuirle un carisma d'intangibilità (*). L'intangibilità non significa automaticamente che tutte le espressioni cultuali, da un certo momento storico in poi, si ripetono perfettamente identiche, come fotocopie. C'è sempre un mimino spazio per l'adattamento che, però, non significa rifacimento!

La canonizzazione della liturgia avviene quando si attribuisce un determinato testo cultuale ad un santo (san Gregorio Magno, san Giovanni Crisostomo, san Basilio magno, ecc.). Oltre a ciò un chiaro elemento di “canonizzazione liturgica” è l'utilizzo dei termini “sacra e santa” oppure “divina”.

Questi termini, non a caso, sono utilizzati anche per le Sacre Scritture, soprattutto i primi due. 

Detto ciò capiamo immediatamente che si suggerisce una sorta di eguaglianza, con le dovute distinzioni, tra la redazione delle Sacre Scritture e la redazione della liturgia, soprattutto nel caso di quella eucaristica. Alla base di entrambe le redazioni pare dunque esistere una simile esperienza religiosa, una teofania.

Scrivere questo, oggi, può parere quasi assurdo, soprattutto se lo si osserva con la mentalità cristiano-occidentale abituata ad un approccio molto razionale. 

Ci dobbiamo onestamente chiedere: la mentalità razionale cristiana ci avvicina o ci discosta dalle antiche basi cristiane? Nel caso preso in esame temo che ci allontani assai sensibilmente. 

L'evento fondativo del Cristianesimo non è mai stato un concetto astratto ma una persona concreta, Cristo, che ha operato fatti concreti di cui gli apostoli hanno avuto esperienza (primo fra tutti, l'evento della resurrezione di Cristo).

La reale esperienza di Dio è, dunque, alla base di ogni autentica realtà cristiana. Allo stesso modo, non si scrivono le liturgie per gioco letterario, per semplice devozione o perché si ha in mano la conoscenza della loro struttura. Le liturgie sono o dovrebbero normalmente essere scritte in una condizione d'ispirazione nella quale, certamente, non sono estranei gli elementi umani ma soggiacciono in funzione dell'esperienza. 
In tono molto minore e trasposto su un livello psicologico: un pittore traduce su una tela non solo l'immagine di un bel tramonto con tutti i suoi particolari cromatici ma anche la sua emozione dinnanzi a quel tramonto, emozione che lo ha spinto a dipingere, si badi bene!, e cerca di comunicarla a chi osserverà il suo quadro. 
Analogamente, la liturgia nasce da una profonda esperienza religiosa, di tipo spirituale non psicologico!, ed è scritta nelle nervature di quell'esperienza cercando di attrarre e orientare i fedeli in direzione delle nervature medesime!

Questo spiega perché in Oriente non ci si è limitati a chiamare la liturgia eucaristica “santa Messa”, come in Occidente dove recentemente si tende a non usare più l'aggettivo “santa”. La si chiama “Divina Liturgia”, espressione che obbedisce ad un determinato criterio perso il quale la si può credere una pura enfasi bizantina.

Arrivando al nocciolo della questione che mi sta a cuore, in un forum rinvenibile su internet (vedi qui), una persona chiede ad un sacerdote:

D. Perdoni, per favore, la mia ignoranza con cui le pongo questa domanda: la Divina Liturgia è ispirata come la Santa Bibbia? So che noi ortodossi basiamo la nostra fede sulle doppia fondamenta della Sacra Scrittura e della Santa Tradizione; infatti, alcuni dicono che le Sacre Scritture fanno parte della nostra Santa Tradizione anziché essere separate da essa. Dovremmo, allora, vedere la Liturgia come parte della nostra Tradizione e quindi ispirata come le Scritture? Premetto che sono i protestanti a pormi questa domanda. Inoltre, la Liturgia la si deve considerare inerrante e infallibile? Grazie.

R. Sì, la Divina Liturgia è ispirata dallo Spirito Santo di Dio per mezzo di Cristo che l'ha istituita, degli Apostoli che l'hanno stabilita e dei padri della Chiesa che l'hanno perseguita. Ricorda che la maggioranza della Santa Liturgia proviene direttamente dalla Sacra Bibbia.

Non voglio affrontare l'inerranza e l'infallibilità; entrambe le questioni connotano i protestanti e i cattolici romani e tutti sappiamo che alcuni che le utilizzano non osano riprendere gli abusi contro la Sacra Bibbia e le testimonianze del Vangelo [...]. Basta ricordare che la liturgia è definita come la Divina e Santa Liturgia. Questo ci basta.

Alla base di questa riposta c'è la vivida coscienza che l'azione di Dio, rivelata nelle Sacre Scritture, attraverso l'esperienza degli agiografi che le hanno redatte, non si è fermata solo a quel tempo. Essa si manifesta sotto forme teofaniche nel tempo post-apostolico della Chiesa. 
Il Cattolicesimo in linea di principio non nega tutto ciò ma fa una netta distinzione tra rivelazione biblica (spesso presentata in forma puramente concettuale) e rivelazione privata. Nella Bibbia l'agiografo rivela un messaggio e sembra non essere molto importante che la rivelazione da lui avuta comporti un'esperienza trasfigurante (si pensi alla natura umana "divinizzata" di Mosé quando scende dal monte con le tavole della Legge). Nel tempo successivo della Chiesa, l'eventuale manifestazione di Dio è qualcosa di “privato” ed è così denominato per salvaguardare la superiorità della rivelazione biblica. Lo capisco, se si tratta di salvare il primato assoluto della rivelazione biblica, ma, inevitabilmente, quest'affermazione mette totalmente in ombra il resto. 

Infatti: può mai una teofania essere considerata unicamente “privata”? Può mai, una profonda esperienza del divino, non riguardare tutti i credenti? Può mai, tale esperienza, essere ridotta razionalisticamente ad una semplice questione di “messaggi”, come se Dio inviasse e-mail da un PC mentre il primo importante effetto dell'autentica comunicazione diretta con Dio è la trasfigurazione dell'umano??

Il mondo cristiano orientale proprio perciò non ha mai fatto una distinzione netta, tranciante, tra la rivelazione biblica del Dio che si rivela nel periodo biblico, e le teofanie nel tempo della Chiesa.
Quest'ultime, perciò, riguardano in un certo qual modo la stessa redazione della Liturgia, almeno nelle sue linee essenziali come, ad esempio, la redazione delle anafore. Tutto ciò nella nostra epoca e nelle nostre regioni si ha smesso di dirlo da troppo tempo, oramai, e ciò suona come se qualcuno negasse l'autenticità e la venerazione verso tutte le reliquie solo perché si scopre che alcune tra esse sono false ...

Il Canone romano, che inizia con le parole “Te igitur” ha una venerabile antichità. Com'è ricevuto nei tempi moderni, così essenzialmente si è sempre conservato. L'idea d'intervenirvi, seppur con pie intenzioni, era totalmente inconcepibile fino a non pochi decenni fa e sarebbe davvero parsa quasi come l'idea di cambiare qualche frase del vangelo aggiungendovi, magari, qualcosa animati pure dalle migliori intenzioni. 
Papa Giovanni XXIII, devoto a san Giuseppe, fece il primo intervento: inserì nel canone romano, nell'elenco dei santi, il nome dello Sposo della Madre di Dio. Da quanto mi sembra, non ci fu alcuna reazione tolto forse qualche sommesso borbottio accademico. I tempi erano maturi: mostrando che era possibile fare delle inserzioni pure nel testo più sacro della liturgia (allora si usava ancora definirlo così) e che tali inserzioni erano accolte senza problema in tutto il mondo cattolico, si era aperta una breccia. 
I liturgisti più progressisti iniziarono a chiedersi: perché non iniziare a cambiare poco per volta tutta la liturgia cattolica? Tutto iniziò esattamente così. È come se uno togliesse da un muro a secco una pietra e si sentisse di farlo perché, sul momento, non accade nulla. Purtroppo di lì a poco è tutto il muro che è crollato andando in rovina.

Quello che animò la riforma liturgica cattolica, lo si è spesso scritto e lo stesso papa Ratzinger lo ha affermato, fu uno spirito troppo razionalistico. Ma non si aggiunge che tale spirito si è potuto affermare liberamente perché, nel frattempo, era totalmente venuto meno un concetto autenticamente sacrale di liturgia, la liturgia è stata sganciata dall'esperienza teofanica a cui sopra accenno e quest'ultima è stata vista di fatto come una semplice redazione tecnica di testi.

Così lo spirito di pietà che animava almeno Giovanni XXIII ha ceduto il passo ad un altro tipo di spirito, molto razionalizzante, di marca sociale e psicologica. In breve: è stato il trionfo di quell'antropocentrismo oggi ben conosciuto ma che già da tempo premeva alle porte delle chiese cattoliche.

Se si va a ritroso nel tempo non si può non constatare che tutto ciò è potuto avvenire perché, alla radice, mancava spesso un'autentica esperienza religiosa (soprattutto con la decadenza del monachesimo occidentale). L'esperienza del divino e la sua manifestazione (la teofania) sono stati sempre più visti come dei miti, non come delle realtà sempre possibili nel tempo della Chiesa. Ancor meno, la Liturgia che vive, si appoggia e si concepisce su tali esperienze, ne è stata praticamente privata divenendo prevalentemente, nel periodo postridentino, un culto da attribuire "doverosamente" a Dio perché "voluto" dalla Chiesa (concezione legalistica). L'eclissamento della mistica dall'Occidente cristiano ha favorito tutto ciò facendo vivere la liturgia o come dovere legale o come espressione di pura pietà, ma una pietà sganciata dal dogma e dall'antica patristica tradizione fa presto a marcire in un languido e psicologicissimo pietismo.


La prima radice della decadenza liturgica odierna, dunque, dev'essere assolutamente colta nell'allontanamento della Liturgia da ciò che essa sostanzialmente è: ispirata in modo non molto dissimile da come lo sono i libri che compongono la Bibbia. Se si nega ciò o prima o poi le si negheranno i titoli di “sacra”, “santa”, “divina” relegandola in un ambito, di fatto, puramente umano. A quel punto, assieme a composizioni liturgiche di gusto secolare, si potranno anche ristabilire culti antichi, nel Cattolicesimo, ma a nulla serviranno perché il profondo spirito con cui sono stati composti resterà totalmente ignoto.



P.S.
Nell'immagine sopra riportata, fedeli cattolici schitarrano un inno originalmente dedicato alla Madre di Dio ad una divinità indù. È successo in una chiesa di Ceuta (enclave spagnola in Marocco), per onorare la piccola comunità indù lì residente. Il filmato per chi vi si vuol "solazzare" è in questo link.
Oltre ad essere un grave segno di confusione (e almeno implicita apostasia), tutto ciò rivela le estreme conseguenze alle quali si giunge quando si parte da basi sbagliate rispetto a quelle gettate nella rivelazione neotestamentaria. Il vicario generale del posto, responsabile della carnevalata, ha chiesto e ottenuto le dimissioni a seguito della protesta per questo fatto. Il problema, però, non è legato ad una persona ma a tutta una mentalità che continua a rimanere e che non è affatto quella con la quale si scrivevano i primi testi della liturgia cristiana. È questo che non si vuole o non si può più vedere.

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(*) L'intangibilità è nata anche per l'esigenza di non rendere i testi liturgici veicolo di idee che si discostavano dall'ortodossia della fede. Venendo meno l'intangibilità liturgica, nel periodo successivo al Vaticano II, il Cattolicesimo ha visto nuovamente la liturgia divenire campo di espressioni in dissonanza con l'antica fede cristiana.

martedì 20 giugno 2017

La porta del Cielo

Questo post trae spunto da un ottimo commento da me trovato nel web sulle iconografie bizantine (vedi qui). Una signora chiede: “Come mai nelle icone bizantine le persone rappresentate non sorridono mai? Sorridere non è mica un peccato!”. Domanda intelligente ma rivelatoria. 

Chi gli risponde giustamente ricorda che il sorriso non è affatto qualcosa di riprovevole ma le icone non sono immagine della dimensione terrena in cui l’uomo è soggetto alla sua psicologia, ma del Cielo in cui l’uomo è soggetto allo Spirito. Raffigurare l’uomo santificato, “immerso” nello Spirito lo si può fare simbolicamente soltanto privandolo di certe caratteristiche che, nella contingenza terrena, lo rendono fluttuante, tra sorriso e tristezza, dipendente dalla fragilità e dall’instabilità della sua psicologia.

La domanda della signora è anche rivelatoria perché indica che noi tutti assolutizziamo la nostra dimensione terrena e psicologica e la “proiettiamo”, in un certo qual modo, nell’Al di là: come siamo qui, con tutte le caratteristiche delle nostre passioni, pensiamo di esserlo anche nella situazione ultraterrena. Non a caso nell’Olimpo pagano gli dei erano capricciosi e irosi e la cosa attirava la sferzante ironia dei Padri della Chiesa.

Ebbene, la Chiesa è nel mondo con il preciso fine di farci intuire qualcosa dell’Al di là, aiutandoci a non assolutizzare la nostra situazione contingente. Ma se la Chiesa non “funziona” più, nel senso che le persone più qualificate in essa hanno “staccato la spina” di collegamento con la dimensione ultraterrena, allora in essa non è più possibile sperimentare altro che terrenità e, nel peggiore dei casi, passionalità, meschinità e vendette personali.

A volte alcuni credenti si chiedono come può essere possibile che certi sacerdoti siano divenuti più mondani dei laici, nonostante vivano in ambienti ecclesiastici che dovrebbero cambiarli. Purtroppo ciò è possibile perché pure in questi ambienti è entrata l'oscurità, favorita da chi, appunto, ha “staccato la spina”

Gli ambienti da noi frequentati ci aiutano o ci ostacolano a cambiare in meglio e ciò avviene anche in modo non cosciente. Immersi in un ambiente, in qualche modo ne sentiamo le “linee di forza” e la nostra psiche si conforma ad esso. 

Un ambiente mondano e salottiero modellerà la persona in quel modo e di tali ambienti può essere (ed è!) caratterizzata anche la Chiesa. In questa situazione, dunque, si assolutizza se stessi e non si è più in grado di sintonizzarsi con la realtà o con un minimo di oggettività. Se una persona onesta denuncerà a malincuore una malefatta di un sacerdote mondano, quest’ultimo non solo non riconoscerà il male per ripararlo ma si scaglierà ferocemente contro chi lo ha rivelato; ciò che è  importante è apparire! Un sacerdote così diviene facilmente come i mercenari del Vangelo giovanneo, quei mercenari che non s’importano delle pecore e fuggono dinnanzi all’arrivo del lupo (che rappresenta il male o il demonio) (cfr. Gv 10, 11).
Essi non difendono i fedeli dal male perché sono impegnati a difendere loro stessi e i propri interessi mondani (dietro un’apparenza religiosa).

Sono quegli stessi mercenari che il profeta Geremia dipinge come “coloro che si riempiono la pancia per poi fuggire assieme” (Ger 46, 21). Ebbene, ciò è possibile quando un ambiente lo favorisce e questo riguarda, ovviamente, anche i laici perché un laico non potrà mai essere meglio del sacerdote a cui fa riferimento.

Se, viceversa, la Chiesa ha ambienti che sono come “porte del Cielo”, allora il cambiamento avviene in senso contrario: quanto è importante non è se stessi, il proprio orgoglio, la propria individualità ma servire il Signore che è sorgente di pace e di felicità spirituale.

I monasteri, un tempo, erano in Occidente un rifugio e un’oasi in tal senso, un luogo in cui ci si poteva riequilibrare, rinfrancare spiritualmente e vedere il mondo con occhi nuovi, privi di malizia e passioni. Oggi è assai difficile trovarne di buoni e anche in Oriente la situazione sta divenendo difficile.


Il grosso problema dei nostri tempi è proprio qui: gli ambienti che ci sintonizzano verso le Realtà superne sono sempre meno. 

Perciò è possibile l’incremento dell’ateismo e dell’agnosticismo pratico. Per credere in Dio non ha senso filosofizzarci su chiacchierando sull’argomento dalla mattina alla sera. Per credere è necessario cercarlo in ambienti elevanti. In essi saremo plasmati e preparati a sentirne l’esistenza nel cuore, quell’esistenza che ha un’ineffabilità che nessuna parola o filosofia del mondo può comunicare. L’evangelizzazione, infatti, non è chiacchiera, spettacolo, evento abbacinante ma discreto e silenzioso contatto con il Trascendente in ambienti che ancora lo rendono possibile.

lunedì 29 maggio 2017

L'altare medioevale

In Occidente, nelle chiese latine, non esisteva una tipologia unica di altare durante il medioevo. Tuttavia, fino ad un certo periodo storico l'altare latino non era troppo dissimile da quello delle chiese greche. Segnalo, in questo post, il caso di un altare portatile, quindi rimovibile, che appare in una tela quattrocentesca ritraente la predica di san Bernardino da Siena.
Tale tela, conservata nel museo diocesano adiacente alla cattedrale senese, è parte di un dittico che ritrae due momenti diversi di una predica del santo cattolico.
Riporto due foto: una generale e una particolare concentrata sull'altare.
La prima osservazione è che la presenza dell'altare testificava senz'altro una preghiera che veniva fatta prima e dopo la predica, ovviamente rivolti verso l'altare stesso. Quando Martin Lutero "riformerà" il culto riducendo la Messa ad una Cena e facendo fare spesso al posto di quest'ultima un semplice sermone preceduto e seguito da preghiere, avrà avuto assai probabilmente in mente questa consuetudine medioevale.
La seconda osservazione è relativa all'altare: pur essendo un altare rimovibile, dunque dotato solo dell'essenziale, vi si nota la presenza di un'iconografia con santi appoggiata su di esso. L'altare è rivestito con tessuti raffinati il che lo fa emergere agli occhi degli astanti come un oggetto sacro. Le iconografie sembrano fare un corpo unico con l'altare, segno che non sono solo un elemento devozionale ma strettamente liturgico. Rimanderanno probabilmente ai santi a cui l'altare stesso era dedicato. L'iconografia, dunque, non è un elemento accessorio ma pare essere essenziale ed è legata al culto e alla preghiera che si compie dinnanzi all'altare.
Solo successivamente gli altari portatili potranno prescinderne, in un'epoca nella quale le pale d'altare delle chiese, di dimensioni sempre maggiori, diverranno l'occasione per mostrare prevalentemente il virtuosismo dell'artista. Allora il tema religioso suonerà spesso come un puro pretesto per indicare molto altro. Nel XV secolo, periodo in cui è stata fatta questa tela, avviene lentamente la svolta ricordando ancora, però, consuetudini antiche che pian piano si perderanno e di cui nessuno sentirà la mancanza. Il formalismo e l'estetismo tenderanno ad invadere sempre più lo spazio sacro a tutto scapito del valore delle forme simboliche a cui l'iconografia inevitabilmente rimanda. Il problema liturgico, dunque, non è solo questione di questi ultimi decenni ma, seppur in altre forme, ha riguardato anche altre epoche.