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sabato 21 aprile 2018

Elogio all'abito monastico


Popolarmente corre il detto che “l'abito non fa il monaco”. Io sono un fermo assertore del contrario. Non entro in discussioni già fatte altrove e reiterate soprattutto dinnanzi all'allergia di certo clero moderno verso i segni del sacro. Tali discussioni hanno elementi da me ampiamente condivisi ma che, solitamente, si mantengono sulla superficie delle cose come il dovere di distinguere il sacerdote, di indicare un segno religioso in una società sempre più avulsa dalla fede, ecc.
Ciò che mi preme sottolineare è qualcosa di più profondo: l'abito non è solo il segno di una scelta personale ma una protezione e, di più, una casa. Chi veste un abito religioso è un po' come se vivesse custodito in una casa.
Nel caso dell'abito monastico occidentale, questa valenza è decisamente più forte. Il monaco anticamente era l'abitante delle caverne, quando faceva una scelta eremitica. Se viveva in forma cenobitica, ossia con altri confratelli, la sua caverna, il suo luogo di protezione, era la cella.
Il monaco non deve fuggire dalla sua cella e vagare ovunque come un'anima persa ma la deve abitare più frequentemente possibile, vi deve “marcire dentro” come diceva san Paisios del Monte Athos.
Questo perché la cella aiuta il monaco ad entrare nel luogo del suo cuore, ad interiorizzare la sua vita di preghiera e la sua vita stessa.
Quando, per doveri di stato, il monaco esce dalla sua cella o, se eremita, deve uscire dalla sua caverna, il luogo della sua protezione diviene l'abito, la coccolla, il cappuccio.
Ognuno di noi può capirlo, soprattutto nel periodo invernale, quando si indossano quei giubbotti che hanno cucito un ampio cappuccio contro il freddo e il vento. Il cappuccio protegge la testa e la immerge in un luogo piuttosto appartato, diviene la “piccola caverna” dove ognuno vive un po' intimamente.
Questo spiega perché, in certi momenti della preghiera corale, i monaci occidentali sollevavano il cappuccio quando stavano in coro. La funzione pratica antica era quella di interiorizzare la preghiera servendosi di tale mezzo.
Per lo stesso motivo i monaci più progrediti vivevano un periodo di eremitismo in una caverna che li isolava dai rumori esterni.
Si tratta, per dirla con linguaggio esicasta, di far scendere la preghiera nel cuore per darle forza e farla divenire vera.
Chi non capisce tutto ciò o vede la cosa romanticamente (che gran guaio il romanticismo in religione!) o pensa che “isolarsi dagli altri sia semplicemente indice di una malattia”, come ho letto, ahimé, in un discorso papale attuale.
Ma questi insegnamenti sono totalmente errati, è veleno allo stato puro!
Un monaco benedettino, Tommaso Leccisotti (1895-1982), amava dire che l'abito monastico detto coccolla, deriva a sua volta dal termine casula e quest'ultima significherebbe “piccola casa”. Il monaco, dunque, abita in una piccola casa.
Sulla scorta di idee simili perfino il Poverello di Assisi raccomandava ai suoi fratelli di vivere come se fossero in cella anche quando il dovere li chiamava a percorrere le vie del mondo. Ed è così che il beato Francesco assieme a frate Leone percorrevano le piazze delle città umilmente, con lo sguardo a terra e il cappuccio sollevato sulla testa.
Il monaco e, per extenso, il cristiano, devono proteggersi, essere nel mondo ma non del mondo e lo fanno con semplici mezzi a loro disposizione. Il fine è quello di mantenere il contatto con il Sorpannaturale il più possibile perché nel momento in cui giunge l'oblio ci si è chiusi al Cielo. Da quel momento in poi si avrà una logica avversione per lo stesso abito fino a dismetterlo completamente. E questa è, lo sappiamo!, storia dei nostri giorni.

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