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sabato 22 ottobre 2011

Immagine del tempio e mistica cristiana




 
Le generalizzazioni con le quali si valutano i fenomeni storici, sono sempre imprecise. Se noi dovessimo dire che tutte le chiese cattoliche sono come quella illustrata nella foto a sinistra, evidentemente ci sbaglieremo. Ugualmente, se dovessimo dire che tutte le chiese ortodosse rispecchiano l'ordine e l'armonia di quella illustrata nella foto a destra.

La realtà, spesso, è una commistione di elementi. Ciononostate, a volte è utile fare un discorso tranciante perché aiuta a focalizzare alcuni elementi-base che hanno generalmente orientato gli spiriti.

Il discorso che riporto di seguito dev'essere letto in questo senso, non tanto in modo polemico o rivendicativo di una parte contro un'altra. E' interessante l'accenno tra la mistica vissuta e immagine esteriore del tempio. Quello che conta in quest'analisi è individuare le cause di un fenomeno ed, eventualmente, riequilibrare personalmente certi atteggiamenti religiosi. D'altronde, queste parole aiutano a spiegare perché certe architetture ecclesiastiche moderne sono fin troppo fredde.


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Tanto in Oriente come in Occidente esiste una mistica ecclesiale ufficiale, abbiamo una mistica ortodossa e una mistica cattolica. Ed è appunto la differente struttura dell'esperienza mistica che viene adotta a spiegare della diversità che caratterizza le vie seguite nel corso della storia dall'oriente ortodosso e dall'occidente cattolico.

C'è in effetti una profonda differenza nell'atteggiamento originario con cui ci si pone di fronte a Dio e al Cristo.

Per l'occidente cattolico, Cristo è un oggetto che si trova al di fuori dell'anima dell'uomo, è il termine cui tendono certe nostre aspirazioni e, in quanto tale, viene fatto oggetto d'amore e d'imitazione. E' appunto per questo che l'esperienza religiosa cattolica si caratterizza come una tensione dell'uomo verso l'alto, verso Dio. L'anima cattolica è gotica. La passionalità e la capacità d'infiammarsi si accompagna costantemente in essa con una sensazione di freddezza. L'immagine concreta ed evangelica del Cristo e della sua passione è intimamente vicina all'anima cattolica. L'anima cattolica è appassionatamente innamorata del Cristo e imita la sua passione, fino al punto di ricevere nel proprio corpo le sue stigmate. La mistica cattolica è totalmente legata ai sensi, in essa v'è una sorta di tormento e di languore, e la sua via è quella dell'immaginazione sensibile. L'elemento antropologico naturale raggiunge in essa il suo punto di massima tensione. L'anima cattolica grida: Gesù, Gesù mio, mio diletto, amato mio.

Nel tempio cattolico come nell'anima cattolica del resto, si avverte una sensazione di freddo: è come se Dio stesso non scendesse e non entrasse in questo tempio e in quest'anima. E l'anima allora, nella sua passione e nel suo tormento, vuole essere lei a salire e a raggiungere il proprio oggetto, l'oggetto del proprio amore. La  mistica cattolica è romantica, è tutta pervasa da un tormento romantico. La mistica cattolica è una mistica della fame che non conosce la sazietà, sa perfettamente cos'è la passione amorosa ma non conosce il matrimonio. L'atteggiamento cattolico nei confronti di Dio inteso come un oggetto, come il termine di un'aspirazione, è ciò che determina la dinamicità esteriore del cattolicesimo. E l'esperienza cattolica crea una cultura che porta evidentemente impressi i segni di questo amore per Dio e di questo tormento per Lui. Nel cattolicesimo, l'energia si riversa tutta nelle vie dell'azione storica, non resta chiusa nell'interiorità perché Dio non entra nell'interiorità del cuore, e il cuore cerca di raggiungere Dio seguendo le vie del mondo e del suo dinamismo. L'esperienza cattolica genera la bellezza partendo dalla fame spirituale e da una passione religiosa inappagata.

Per l'oriente ortodosso, invece, Cristo è un soggetto, egli si situa all'interno dell'anima umana, e l'anima accoglie Cristo dentro di sé, nelle profondità del suo cuore. Nella mistica ortodossa è impossibile ogni sorta di passione amorosa per Cristo, così come è impossibile l'idea di una sua imitazione. Nell'esperienza ortodossa, più che un tendere a Dio, ci si prostra davanti a Lui. Il tempio ortodosso, come l'anima, del resto, è tutto il contrario del gotico. Nell'ortodossia non c'è né freddo né passione. Nell'ortodossia c'è una sorta di tempore, c'è persino troppo caldo. Per la mistica ortodossa, l'immagine concreta ed evangelica del Cristo non è poi così vicina. La mistica ortodossa non è legata ai sensi e anzi ritiene la sensibilità un "inganno", arrivando fino a negare del tutto l'immaginazione, che viene considerata una via nettamente sbagliata. Nell'ortodossia non si può dire: "Gesù mio, mio diletto, amato mio. Cristo discende nel tempio ortodosso e nell'anima ortodossa e la riscalda. E nella mistica ortodossa non v'è alcuna passione tormentosa. L'ortodossia non è romantica, è realista e sobria. La sobreità e la temperanza è appunto la via mistica dell'ortodossia. L'ortodossia è sazia, spiritualmente appagata. L'esperienza mistica ortodossa è quella del matrimonio e non quella della passione amorosa. L'atteggiamento ortodosso di fronte a Dio è quello di chi si pone davanti ad un soggetto che viene accolto nelle profondità del proprio cuore; la spiritualità interiore di quest'atteggiamento non produce un dinamismo verso l'esterno, è totalmente rivolta ad una comunione interiore con Dio. L'esperienza mistica ortodossa non favorisce la cultura, non crea la bellezza. Nell'esperienza mistica ortodossa c'è una sorta d'incapacità di parlare al mondo esterno, una mancanza d'incarnazione. L'energia ortodossa non si riversa sulle vie della storia. La sazietà dell'esperienza ortodossa non agisce all'esterno, l'uomo non tende le proprie forze e semplicemente non tende a nulla.

In questa differenza delle due vie dell'esperienza religiosa si cela un grande mistero. [...]

Esiste una mistica ortodossa ufficiale e ne esiste una cattolica ufficiale, ma la natura della mistica è sovraconfessionale. La mistica si situa sempre su un piano più profondo di quello delle discordie e delle contrapposizioni tra le varie confessioni ecclesiali. Ma le diversità tra le varie forme di esperienza mistica possono generare delle divisioni ecclesiali.
D'altra parte è solo immergendosi sempre più profondamente nella mistica che si può rivitalizzare la vita ecclesiale e che ci si può contrapporre alla sclerotizzazione della Chiesa visibile.
Le radici vive della Chiesa sono nella mistica.

Nikolaj Berdjaev, Il senso della creazione, Milano 1994, pp. 367-370.




lunedì 5 settembre 2011

La liturgia come teofania e figura del Cielo




di Mons. Klaus Gamber e Chr. Schaffer




Mostraci la Tua magnificenza o Signore!


Fa parte della tragedia della nostra esistenza umana vedere le opere di Dio nella Creazione, esse ci fanno intuire la grandezza e la bellezza divine, ma la contemplazione di Dio ci manca. Sem­bra talvolta che la nostra preghiera si perda nel vuoto. Non viene una rispo­sta e, ad ogni modo non viene come la desideriamo.

Così tutto ci appare difficile. Eppure sentiamo che Dio ci è vicino quasi che ci tocca, che Dio c'è, che c'è per noi e che dispone della nostra vita.

L'uomo religioso fa l'esperienza di Mosè sul Sinai. Per molti giorni Mosè aveva parlato con Dio e ricevuto dalla Sua mano le tavole della Legge; ed ora supplica: "Mostrami la Tua magnifi­cenza!". Ma l'uomo mortale non può vedere questa magnificenza senza morire. Dio deve coprirgli gli occhi colla Sua mano, quando gli passa vicino, vi­cinissimo. I tre discepoli prescelti ve­dranno il Figlio nella Trasfigurazione del Tabor, e cadranno a terra, non sopportandone lo splendore.

Marx chiama la religione "il sospiro della creatura angustiata" nella sua "Critica della Filosofia hegeliana", e an­cora, "E' l'oppio del popolo". Le sue parole sulla religione si citano quasi sempre incomplete. Ma egli credeva di poterne fare a meno. Quel che dice in senso generale, vale soprattutto per il culto, che è il cuore di ogni religione. L'esperimentiamo da 70 anni nell'U­nione Sovietica, dove la Fede continua ad esistere, in grandissima parte grazie alla bellezza del culto.

Potrebbe succedere col nostro culto attuale, se ci trovassimo un giorno nel­l'identica situazione? Molta gente chiama il nostro culto attuale vuoto e noioso. Ci va perché è prescritto, ma anche perché aspetta qualche cosa. E poi la­menta che è rimasta insoddisfatta.

Molte persone esperimentano il no­stro culto come un'assemblea profana, soprattutto caratterizzata da un gran parlare. Difetta la bellezza, il Gemut, la solennità che attira l'anima e la rende felice. In breve: manca l'incontro col trascendentale, colla teofania — una mancanza resa più amara dal mondo unilateralmente tecnicizzato che ci cir­conda.

Il pensiero che ossessiona gran parte di teologi, che il culto diventi attrat­tivo introducendovi le cose di grande attualità, non sa comprendere la miseria del nostro tempo. Otterranno in tal modo un incontro fra gli uomini che si perde in un puro orizzontalismo. Il cul­to è più di un'esperienza orizzontale e non basta certo per rendere la vita più sopportabile, per quanto possa essere utile.

Ma come rimediarvi oggi?

Oggi ci s'insegna a portare la vita di tutti i giorni in chiesa. Invece occorre­rebbe fare il contrario! Ci vorrebbe la santa esperienza del culto nella vita quotidiana. Il fascino emanato dallo splendore della vicinanza di Dio nella liturgia dovrebbe rischiarare la noia di ogni giorno, colmarne il vuoto, e anche troppo spesso la sua miseria e la sua di­sperazione.

Se cerchiamo quel che è essenziale nel culto, il mistero, dobbiamo tornare indietro nel tempo, fino a scoprire l'an­tica Chiesa, non ancora scissa, la cri­stianità intera ancora compatta. Il culto tuttora accettato in Russia si ce­lebra da 1000 anni e più, e non v'è sta­ta una "riforrna". Le Chiese orientali ortodosse sono più attaccate alla Tradi­zione di noi e conoscono il valore dell'eredità a noi affidata, secondo la parola di San Paolo, perché la conserviamo. (II Tim. 1, 14).
[…]
Mostrami la Tua magnificenza! — Co­me può essere esaudita la preghiera di Mosè, come può realizzarsi un vero in­contro con Dio, una teofania nel culto? Come può svelarsi il "mistero di Cristo", come s'esprimono i Padri del Concilio?

Non possiamo vedere Iddio, e non di meno sperimentiamo la sua presenza il fascinosum del divino. Possiamo sentire le energie della grazia emananti dalla Divinità, purché si sappia farle sentire ai singoli.

l culto non è in primo luogo l'opera del sacerdote o della comunità, ma l'irruenza di realtà celesti tramite i segni sacramentali che pone. Vale anche qui la promes­sa di Gesù: "Vedrete il cielo aperto, e gli Angeli di Dio scendere e salire al di sopra del Figlio dell'uomo" (Giov. I, 51).

Questo è il senso ed è il compito del culto con i suoi riti diversi — non ce­rimonie magiche che soggiogano gli dei, ma segni visibili di un fatto invisibile, un fatto reale e nondimeno al di sopra dei sensi.

I segni servono a parlare ai sensi dell'uomo, intanto agli occhi e alle orec­chie, insomma a ciò che rende possibile la comunicazione anche fra gli uomini. Ma non vanno trascurati neppure gli al­tri sensi. Nei riti delle Chiese orientali non manca mai il profumo dell'incenso, e durante le lunghissime vigilie, il prete consacra una specie di pane dolce e lo distribuisce ai fedeli, al fine che anche gli altri sensi non vengano trascurati. La natura del culto è tale che si rivolge attraverso i segni rituali all'uomo, fatto di anima e di corpo. Non basta la dichia­razione lapidaria: "Cristo è in mezzo a noi". L'uomo intero deve sentire, con tutti i suoi sensi, la realtà di questa presenza. I discorsi toccano il solo in­telletto. Il freddo del puro razionale non riesce mai a sciogliere il ghiaccio di un cuore affranto.

Evidentemente possiamo sentire la presenza divina anche a mezzo di un'e­sperienza personale, fino a giungere a riconoscere verità che prima ci rimane­vano nascoste. Ma sono eccezioni, Al solito l'incontro col divino si realizza nel culto.

Nella liturgia di San Giacomo, l'an­tichissimo rito gerosolomitano, il coro canta durante il solenne ingresso del sa­cerdote che porta i doni del sacrificio:

"Taccia ormai ogni carne umana! Stia tremante e nel timore! S'avvicina il Re dei re, Cristo nostro Dio, per essere im­molato e dato in cibo ai fedeli! Lo pre­cedono i cori degli Angeli nella forza della loro potestà, i Cherubini dai molti occhi ed i Serafini dalle sei ali. Si copro­no il volto e cantano ad alta voce il canto della vittoria: Alleluja, alleluja, alleluja!".

Davvero! E' il Cristo che s'avanza in mez­zo a noi "per essere immolato e dato in cibo ai fedeli". E' questo il punto deci­sivo: il mistico Sacrificio di Nostro-Si­gnore, e la Sua unione con noi nella santa Eucarestia. Questo fatto manca nella preghiera privata — o quando le­viamo l'anima a Dio in mezzo alla bel­lezza della natura.

Osserviamo che pur al passaggio dei soli doni che vengono portati all'altare, i fedeli s'inginocchiano profondamente, sapendo bene che s'avvicina, non visto, il Cristo per compiere, eterno sacerdote, il sacrificio liturgico. Egli è il vero Liturgo. Egli offre il mistico Sacrificio come una volta nel Cenacolo, spezzando il pane annunciando la Sua morte violenta, e donando il Suo sangue — raccolto nel calice — agli Apostoli, come l'avrebbe sparso sulla croce, il giorno appresso. Il sacerdote che prega ed agisce davanti all'altare, non è che il Suo rap­presentante, la Grazia e il Potere sono Suoi, sono del Signore.

Mostraci la Tua magnificenza! — Non siamo in grado di vedere Dio. Ma Dio si è rivelato a noi, nell'Uomo-Dio. Egli è "l'immagine del Padre" (Col. 1, 15). Egli "è il riflesso della Sua magnificen­za" (Ebr. 1, 13). In Lui vediamo Dio (vedi Giov. XIV, 9); in Lui sono apparse la bontà e l'umanità di Dio" (Tit III, 4).

Perciò, per indicare la presenza del­l'Uomo-Dio in mezzo a noi, nelle antiche nostre chiese (ndr. come nel bel San Marco a Venezia) si vede l'immagine di Cristo in trono raffigurata nell'abside — o sotto la cupola maggiore, la "Majestas Domini".


Questa raffigurazione ricorda anche la fine dei giorni, quando il "Figlio dell'uomo" apparirà in mezzo agli Angeli (vedi Mc. XVI, 27), per giudicare il mondo e raccogliere i Suoi e condurli "nel regno preparato per loro dall'ini­zio del Mondo" (Mt. XXV, 34).

E si comprende così che l'abside eretta verso oriente doveva servire a ravvivare il ricordo del Figlio dell'Uo­mo, e che tutti coloro che prendevano parte al culto, incluso il celebrante, pre­gavano rivolti all'oriente, come dice Giovanni Damasceno (+ 749): "Siccome l'aspettiamo, adoriamo rivolti verso l'oriente". Si tratta qui dell'antichissima convinzione cristiana che Cristo è asce­so al cielo in tale direzione, e che di là ritornerà. Egli stesso ha detto: "Come la folgore esce dall'oriente, e riluce fino all'occidente, così sarà la venuta del Figlio dell'Uomo" (Mt. XXIV, 27).

E' Cristo, il Signore di ogni cosa, che "è nella gloria del Padre" (Fil. II, 11), che i fedeli pregano radunati per il Sacrificio; essi intuiscono la Sua pre­senza, contemplano la Sua immagine, e attendono il Suo ritorno nella potenza, secondo la parola che i due Angeli ri­volsero ai discepoli: "Verrà così come l'avete visto salire in cielo" (Ap. 1, 14).

Taccia ormai ogni carne umana!

Si unisce al fascinosum della pre­senza divina il tremendum che ci riem­pie di terrore. Pochi testi, così come l'in­no dell'introitus della liturgia di San Giacomo, sanno inculcarci la riverenza col canto. "Taccia ogni carne umana; stia tremante e nel timore: s'avvicina il Re dei re... i cori degli Angeli... si copro­no il volto".

Strappato alla vita profana, l'uomo risente, nell'incontro con Dio la vicinan­za santa, e tutta la propria miseria. Rico­nosce di essere indegno di avvicinare Dio nel mistero. Inorridisce comprendendo quanto è grande il bisogno della miseri­cordia divina verso di lui.

Questo atteggiamento al cospetto di così immensa santità echeggia anche nel monito del sacerdote nelle antiche litur­gie, prima che ci accostiamo a ricevere l'Eucarestia. "Il Santo ai santi! " Il "San­to", vale a dire le specie consacrate, ai santificati nel battesimo, chiamati dun­que a vivere santamente (vedi Rom. I, 7).

Santi si chiamavano nell'antica Chiesa tutti i battezzati. Comprendiamo che sol­tanto chi si è santificato nel battesimo e non ricadde nel peccato, merita di essere designato con tale verbo. Nella Didachè, l'antichissimo Ordo che la Chiesa si è dato, l'invito del prete suona: "Chi è santo acceda! Chi non lo è, faccia peni­tenza!".

Se la regola vuole che il Sacrificio eucaristico si celebri ordinariamente sol­tanto nel santuario delle chiese, e non all'aperto, nell'ambiente "profano" (profa­no, cioè fuori del fanum, o tempio), si tratta anche qui del riverente timore di­nanzi al mistero, al sacro. Purtroppo ta­le massima viene sempre meno osservata.

Un mistero svelato non è più miste­ro. E' una contraddizione in sé. Non si perde solo il fascinosum, ma anche il senso del tremendum, senza di cui man­ca la condizione necessaria per un incon­tro con Dio.

L'uomo in cerca di Dio, ma ancora tenuto prigioniero dalle cose della terra, non può fare a meno di un ambiente sacrale, la "spirituale immagine di quel che è dietro alla cupola del cielo" come lo chiama lo storico della Chiesa Eu­sebio (verso il 325), se vuole mettersi all'unisono con l'azione sacrale che si compie davanti al suo sguardo, al fine di sentire l'inaudita realtà del mistero: "poiché s'avvicina il Re dei re per essere immolato e dato in cibo ai fedeli".


La nuova Gerusalemme scende dal cielo

Il cantico di nome Sonum dell'an­tico rito gallicano ci rivela un'altra va­riante della fede liturgica della primitiva cristianità, una forma della celebrazione della Messa in uso fino ai tempi di Carlomagno. Questo rito mette soprattut­to in rilievo l'aspetto escatologico del culto. Il Sonum cantato all'ingresso dei diaconi con i doni sacrificali al princi­pio della celebrazione eucaristica, quan­do aprono i veli per permettere di vede­re l'altare con i dipinti o mosaici dell'ab­side, col Re magnifico in trono diceva:

"Guardate! E' aperto il tempio colla tenda della testimonianza (vedi Ap. XI, 19), e la nuova Gerusalemme scende dal cielo. Qui è il trono di Dio e dell'Agnel­lo. I Suoi servi gli portano doni e dicono: Santo, santo, santo, a Dio il Signore di tutto, che era, che è e che sarà! (Ap. IV, 8). Vedete in mezzo al trono della sua magnificenza l'Agnello e si sente una vo­ce che si alza dinanzi a Lui: Ha vinto il Leone di Giuda, della stirpe di Davide (Ap. V, 5). Ed i quattro animali dicono senza tregua davanti al trono: Santo, santo, santo, il Signore, Iddio il Signore di tutto che era, che è e che sarà" (Ap. IV, 8).

"Guardate! E' aperto il tempio!" — Qual'è il significato dei i veli, chiusi du­rante le lezioni e la predica, per nascon­dere lo spazio che contiene l'altare agli sguardi dei fedeli, e che vengono ritirati all'inizio del sacrificio eucaristico?

Si vuole mostrare così in un modo che colpisce i sensi che inizia qualche cosa che è al di là del mondo terrestre. L'azione della celebrazione sull'altare terrestre si unisce in questo istante col­la realtà che è la liturgia celeste. E' si­gnificativo che il canto del tre volte santo, è fatto risuonare nel canto dell'introito, tanto dalla voce dei chierici che portano i doni all'altare, quanto dai quattro animali, in rappresentanza del creato, ai piedi del trono di Dio.

Teodo­ro di Mopsuestia (+ 428) dice in tale senso, parlando appunto di un`imma­gine di cose celestiali": "Ogni volta, quando compiamo questo tremendo sa­crificio... dobbiamo tenere presente che siamo per modo di dire in cielo. La fede ci dà la visione spirituale della realtà del cielo ".

Similmente Gregorio di Nazianzo (+ 390) insegna in una predica pasquale: "Immoliamo a Dio il sacrificio di lode sull'altare del cielo, insieme con i cantori celesti! Entriamo dietro al pri­mo velo, avviciniamoci al secondo e guardiamo nel Santo de' Santi".

Gregorio ricorda i due veli nel tempio di Geru­salemme. Un velo chiudeva il "Santo" coll'altare dell'incenso, dei pani da proposizione e col candelabro. Un secondo nascondeva il "Santo de' Santi" coll'arca dell'alleanza sotto i cherubini. L'ingres­so nel primo era riservato ai soli sacer­doti e nel secondo unicamente al Grande Sacerdote, e non più di una volta all'an­no (vedi Ebr. IX, 7).

Nei riti antichi e ancora ai nostri giorni nei riti delle Chiese orientali, il luogo dell'altare non è sempre visibile ai fedeli. Inoltre il rito bizantino ha l'iconostasi che si è sviluppata dalle ba­laustre che una volta servivano da bar­riere. Il luogo dell'altare era sempre ri­servato ai soli chierici, ai consacrati al servizio di Dio. La designazione pre­sbiterio ne dà testimonianza.

Anche l'occidente aveva l'uso di veli davanti al luogo dell'altare. Duran­do (nel XIII secolo) nel Rationale divinorum officiorum (I 2, 35) distin­gue due veli, il grande velo davanti al luogo dell'altare, e l'altro più piccolo tra le colonne che reggevano il baldac­chino sopra l'altare. Egli menziona pure il terzo che copriva i doni sacrificali. E noi ricordiamo benissimo questo velo che copriva il calice e la patena coll'o­stia che il sacerdote reggeva nelle mani incamminandosi verso l'altare per cele­brare la Messa. Sant'Ambrogio racco­mandò: "abscondita teneamus mysteria!” (Portiamo nascosti i misteri).

"Vedi, è aperto il tempio! Alla mor­te di Gesù, il velo che nascondeva il San­to de' Santi si spezzò dall'alto in basso, in due parti", come tramandano gli E­vangelisti. Da sempre, lo si crede un se­gno della fine dell'antica Alleanza. L'in­gresso al santuario ormai stava aperto per tutti i credenti, in virtù della morte d'espiazione di Gesù; era aperto il cielo, dove Gesù ha preceduto i Suoi seguaci.

Il veggente di Patmos vide quindi, co­me "il tempio di Dio in cielo si apriva scoprendo allo sguardo l'arca del testa­mento nel tempio. Vide la celeste Geru­salemme scendere dal cielo, magnifica come una sposa, ornata per il suo Sposo" (Ap. XI, 19 e XXI, 2).

Il pensiero di una Liturgia cosmica (Urs von Balthasar) si ripete in tutta l'Apocalisse di San Giovanni. Davanti al trono di Dio, egli vede l'Agnello "come immolato", vede come i quattro animali ed i ventiquattro seniori si prostrano davanti all'Agnello e li sente cantare...

"Sei stato immolato e ci hai riscattati col tuo sangue da tutte le tribù e lingue, popoli e nazioni, e dinanzi al nostro Dio ci hai fatti re e sacerdoti". (Ibid. V, 6 - 10).

Di nuovo s'interrompe sempre la de­scrizione della lotta con le potenze del male nel mondo contro il Cristo e con­tro i Suoi fedeli, e del giudizio severo finale, per dare posto alla celeste liturgia. Il canto d'innumerevoli Angeli si unisce alla lode che sale da tutte le crea­ture "in cielo, sulla terra e sotto la ter­ra e nel mare". Tutto il creato canta "A colui che siede sul trono e all'Agnel­lo sia lode e onore e potere per tutta l'eternità!

Così le liturgie terrestri e celesti si uniscono a formare un unico culto: il culto della Chiesa cristiana, subentrato al culto mosaico.


Il sacerdote che offriva ogni sera il sacrificio dell'incenso nel Tempio di Gerusalemme, faceva lo stesso che ai nostri giorni quando il liturgo cristiano offre l'incenso durante i Vespri solenni, secondo l'esempio dato dall'Angelo, il quale sta coll'incensorio d'oro davanti all'altare del cielo per offrire al trono di Dio le preghiere dei Santi (Ap. VIII, 4).

Le dimensioni di luogo e di tempo spariscono. Così pensa San Giovanni Crisostomo, allorché scrive nel Libro sul Sacerdozio: "se tu miri, come il Signore giace immolato e come il sacerdote sta davanti all'altare e prega e tutti sono santificati con la porpora del preziosis­simo Sangue: credi ancora di essere in mezzo agli uomini e sulla terra? Non getti lungi da te ogni pensiero carnale e contempli le cose celesti con cuor puro e con mente pura?"

E' vero, noi vediamo ora le cose del cielo soltanto "come in uno specchio, non ancora faccia a faccia". (I Cor. XIII, 12). Eppure, festeggiando la liturgia in compagnia dei santi Angeli, l'uomo diventa un altro. L'incontro col mondo di là, ha più forza di ogni imperativo morale. L'esperienza delle cose sante santifica, mentre la sola legge non vi riesce.

Perciò la Chiesa siriaca prega alla fine del culto: "Concedici, o Signore che le orecchie che hanno sentito la Tua lode, si chiudano per la voce dei litigi e delle guerre! Che gli occhi che hanno mi­rato il tuo immenso amore, vedano an­che la beata speranza! Che le lingue che hanno cantato la Tua lode, diano d'ora in poi testimonianza alla verità! Che i piedi entrati nel Tuo atrio camminino nel futuro per le vie della luce! A Te ren­diamo grazie per la Tua indicibile Gra­zia”.

Solo se celebriamo il sacro culto con simili sentimenti, il desiderio di Mosè e degli uomini credenti può avverarsi: "Mostraci, o Signore, la Tua magni­ficenza! ".

Tratto da Notizie, 123 (1987).

giovedì 11 agosto 2011

L'inumanazione della grazia


Una reliquia del monaco Amphilokios Makris (Monastero dell'Annunciazione, Patmos)

Chissà perché, ma quando si parla di sacro, liturgia, "riforma" della liturgia, in Italia si evita o è molto difficile parlare di spiritualità, mistica e, soprattutto, d' "inumanazione della grazia".

Quest'ultima definizione, poi, lascia la maggioranza dei cristiani allibiti, come se si parlasse di ... marziani!

Non è un segno positivo, significa l'esistenza d'ignoranza su come funziona la "meccanica" della salvezza divina. Un'ignoranza di tal genere significa, poi, che si è di fatto molto lontani dall'essenziale, quell'essenziale che, in ultima analisi, fonda la liturgia stessa e ne dovrebbe motivare pure un'eventuale "riforma".

L'inumanazione della grazia, è una definizione un poco aulica ma significa una semplice cosa: vivere la grazia divina.

Questo discorso non rientra nell' "edificazione", nella "morale", nel tentativo di commuovere pie vecchiette (tanto, oramai, pure loro non ci sono quasi più).

Rientra, semmai, nell'essenza del mistero cristiano.

Sant'Atanasio lo ricorda con una frase divenuta celebre e che suona pressapoco così: Cristo diventa uomo perché l'uomo diventi Cristo. La cosa ha enormi conseguenze, pure in campo liturgico.

La grazia si può definire come una "forza" divina.

Chiunque sa di Catechismo, conosce che essa è riferibile ed attingibile nei sacramenti.
Ma se la grazia è attingibile nei sacramenti, vuol dire che colui che ne attinge ne viene riempito.
Se ne viene realmente progressivamente riempito, non è più quello di prima, dal momento che la grazia non è una realtà inefficace (se la si lascia lavorare).

Lutero ha negato questo principio logico e ontologico. Per Lutero, l'uomo rimane comunque e sempre peccatore, viene solo giustificato, non ha alcun essenziale cambiamento. Di fatto, Dio non si può "sporcare le mani" con lui e rimane chiuso nel suo bel paradiso. Gli dice solo: "Qualcunque cosa farai ti giustifico se hai fede in me". Poi torna tra i suoi angeli che lo onorano lasciando all'uomo le Scritture da interpretare liberamente. Nel frattempo, l'uomo sente di avere carta bianca per divenire pure... ateo!

Purtroppo quest'idea è entrata in gran parte del mondo cattolico ma è una deviazione rispetto la fede antica.
Ne consegue che, se si parla a protestanti o a critpo-protestanti d' "inumanazione della grazia", significa quasi bestemmiare. Certamente si appare ingenui o ridicoli quando, invece, tale prospettiva è ampiamente riscontrabile nella letteratura patristica.

Gli stessi Padri sono convinti che la grazia assunta nei sacramenti, provoca qualcosa in chi l'assume, altrimenti se ne deve negare l'esistenza.
Detto diversamente, se si vive di questa grazia, inevitabilmente s'irradia qualcosa, se ne lascia il segno: si diventa, in qualche modo, noi stessi un sacramento.

Un'assemblea cristiana che vive il mistero della grazia, lascia in un ambiente, in una chiesa, un'atmosfera che non è come quella dell'osteria del paese, di una biblioteca o di un tempio non cristiano.

Questo riguarda anche le reliquie di un uomo vissuto santamente: irradiano attorno a loro una realtà indefinibile che dona una sensazione particolare, una sensazione di "presenza vivente".

In un ambiente di questo genere, ha poco senso se la preghiera è detta in latino o greco-bizantino, in spagnolo o in swahili. Quello che ha senso, è la percezione di questa realtà che, una volta avvertita, fa immediatamente capire cosa significhi il termine sacro o il termine Dio.

Questa realtà viene descitta da santa Maria Egiziaca come delle "mani" che la respinsero mentre stava entrando in una chiesa, sospingendola nel deserto per praticare la conversione.

E' solo di questo che ha bisgno la liturgia cristiana, non di ulteriori affaticanti e, forse, vuote chiacchiere.

Isola di Patmos (Grecia)
Una volta mi trovavo a Patmos, la famosa isola nella quale la tradizione vuole che san Giovanni abbia scritto l'Apocalisse.
Visitai il grande monastero maschile, in cima alla collina, ma non mi attrasse particolarmente: lo sentii vuoto di spirito.

Per giunta, trovai l'isola molto commercializzata al punto che i negozianti vendevano di tutto, pur di far soldi con i turisti.

Un bel giorno, affittando una mountain-bike, raggiunsi un monastero di monache, abbastanza lontano dai centri abitati e dalle vie turistiche.

Monastero greco-ortodosso dell'Annunciazione
Appena disceso, sentii subito un'atmosfera diversa, un silenzio che ricordava vagamente quello atonita. Mano mano che entravo nel monastero, questo silenzio s'infittiva ma donava, pure, una sensazione profonda molto difficile da descrivere: una sensazione "magnetica". Ad un certo punto, questa sensazione fu molto forte. Mi guardai attorno e vidi, in un contenitore d'argento, una parte di cranio di un monaco vissuto santamente, morto nel 1970: Amphilokios Makris. 

Tale sensazione "magnetica" è, precisamente, quello che caratterizza un ambiente sacro. Non è solo data dalla fatica delle preghiere e da cuori amanti. Ha qualcosa di "non umano" che potremo definire, appunto, grazia di Dio, la quale può  "inzuppare" un uomo e le sue reliquie.

Immagino che un tempo pure La Verna di Francesco d'Assisi donasse sensazioni del genere. Molte cose me lo fanno supporre. Purtroppo oggi pure quel luogo è "vuoto di spirito" ma, in compenso, pieno del fragore di turisti schiamazzanti e per nulla rispettosi del posto: essi si comportano come se fossero nella piazza del loro villaggio.

Un ambiente si "riempie di spirito" quando gli uomini s' "inzuppano" di grazia che, come abbiamo visto, si avverte.

Questa è una fase importantissima, nella cosiddetta "salvezza cristiana". Se la prima fase è quella sacramentale, l'assunzione dei sacramenti, quella immediatamente seguente è l' "inumanazione della grazia", il far proprio la forza sacramentale.

Se questa seconda fase non avviene, anche se i sacramenti celebrati sono validi, finiscono per risultare inefficaci, quindi inservibili.
San Simeone il Nuovo Teologo (XI sec.) aveva profonda coscienza di ciò, al punto da mettere in dubbio la reale efficacia di alcuni sacramenti in casi particolari e quindi l'alterazione della Chiesa stessa in determinati contesti decaduti.

Una comunità cristiana in cui né il sacerdote, né i cristiani vivono la grazia, finisce per essere un' "altra cosa". Si finisce veramente per alterare l'essenziale ma lasciando la realtà esteriore materialmente ... inalterata.

Quelle chiese sono spiritualmente "vuote di Dio" perché Dio,  per manifestarsi, ha bisogno della carne umana, nel modo che è stato solennemente riconosciuto nel quarto concilio ecumenico, quello di Calcedonia (451).

Chi è "vuoto di Dio" ma pieno d'idee rellgiose personali, entra inevitabilmente in false prospettive e falsi problemi; intravvede false soluzioni. Una è, appunto, quella per cui, per avvicinare le persone al Cristianesimo, è necessario tradurre una liturgia nell'italiano dell'ultima generazione o in dialetto (non cessando mai di fare continue traduzioni e adattamenti), abolire segni ritenuti oramai arcaici, inventarsi cose "simpatiche", spettacolarizzare il culto, ecc.

In realtà i Padri direbbero che, in una condizione del genere, si potrebbe avere smarrito l'esperienza della grazia o, semplicemente, non la si potrebbe mai aver avuta!

domenica 10 luglio 2011

Il tempio, luogo di Dio e la venerazione verso Oriente in san Giovanni Damasceno

"In realtà Dio pervade tutte le cose senza mescolarsi, e partecipa a tutte la sua operosità secondo l'attitudine e la potenza accoglitrice di ciascuna [...]. Perciò è detto luogo di Dio quello che partecipa maggiormente della sua operosità e della sua Grazia. Per questo il cielo è detto suo trono [...] e la terra [è detta] sgabello dei suoi piedi (infatti in questa egli ha vissuto fra gli uomini attraverso la carne): e, in contrasto, piede di Dio è chiamata la sua santa carne. Anche la chiesa è detta luogo di Dio: infatti lo abbiamo delimitato per la sua glorificazione, come un recinto sacro nel quale facciamo a lui le nostre suppliche". (Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, 1, 13).

"Noi non prestiamo venerazione [volgendoci] verso Oriente superficialmente o a caso. Ma poiché siamo composti di natura visibile e invisibile, ossia intellettuale e sensibile, presentiamo al Creatore anche una duplice venerazione: così come cantiamo con la mente e con le labbra, siamo battezzati con l'acqua e con lo Spirito, e siamo uniti al Cristo in modo duplice partecipando ai sacramenti e alla grazia dello Spirito.
Quindi, poiché 'Dio è luce' intellettuale e poiché Cristo è chiamato nelle Scritture 'sole di giustizia' e 'Oriente', occorre dedicargli l'Oriente per la venerazione. Infatti bisogna dedicare ogni cosa bella a Dio, dal quale ogni cosa è resa buona. Anche il divino Davide dice: 'Cieli della terra, cantate a Dio, cantate inni al Signore, che cavalca sul cielo dei cieli, ad Oriente'. E ancora la Scrittura dice: 'Dio piantò un giardino in Eden, ad Oriente, e vi collocò l'uomo che aveva plasmato'; ma poi lo cacciò dopo che aveva trasgredito, e 'lo fece abitare di fronte al giardino delle delizie', cioè ad Occidente.
Perciò noi veneriamo Dio desiderando l'antica patria e volgendo gli occhi ad essa. E la tenda di Mosé aveva il velo e il propiziatorio ad Oriente. La tribù di Giuda, come più onorevole, si accampava ad Oriente. Nel famoso tempio di Salomone la porta del Signore era posta ad Oriente. Invece il Signore, quando era in croce, guardava verso Occidente e così noi prestiamo venerazione volgendo lo sguardo verso di lui. Mentre era assunto in alto fu portato verso Oriente, e così gli apostoli lo venerarono: e così egli verrà nel modo con cui fu visto andare in cielo, come il Signore stesso disse: 'Come la folgore viene da oriente e brilla fino ad occidente, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo'. Quindi noi apsettandolo prestiamo venerazione verso Oriente.
Questa è la tradizione non scritta degli apostoli: infatti molte cose essi ci hanno tramandato senza scriverle". (Ibid., 4, 12).