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venerdì 21 novembre 2014

Una teologia di parte, ossia come la teologia si secolarizza seguendo le mode attuali (seconda parte)



Due teologi ortodossi, Christos Yannaras e Giovanni Zizioulas, presentati nell'articolo precendente, ci paiono, qui, estremamente vicini a certi teologi cattolici. Come mai? Si tratta, infatti, di una vicinanza (o, in qualche caso, identità) derivata dall'aver in comune una identica o una simile filosofia moderna e dall'aver voltato le spalle (in modo evidente o mascherato) all'insieme del pensiero patristico che rappresenta (sia per l'Occidente che per l'Oriente cristiano) la base della comune fede. Leggendo queste righe vergate da Jean-Claude Larchet (il cui libro è citato nell'articolo precedente), si avrà ben modo di stupirsi e ci si chiederà come mai queste persone, nonostante pesanti errori, siano così importanti e famose (qui gli errori esaminati riguardano i sacramenti). È la stessa e identica sorte di alcuni teologi cattolici: famosissimi per quanto discutibilissimi! 
Ma c'è una differenza importante: Larchet ha modo di contrastare le affermazioni anti tradizionali di questi teologi servendosi di una tradizione ancora vivente (la patristica è ancora molto importante in Oriente) e di testi liturgici tutt'ora in vigore e che nessuno pensa di abolire. Se, viceversa, si ritiene morta e defunta la tradizione patristica e si ritiene i testi liturgici tradizionali relegati al passato è ben ovvio che non esiste possibilità di risalita. In questo senso c'è da tremare, pensando all'Occidente cristiano...

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Conseguenze erronee per la vita spirituale

a) Per Yannaras e Zizioulas, conformemente al loro concetto puramente relazionale di vita personale, la Chiesa è prima di tutto una sinassi, una riunione di fedeli che permette loro di condurre un modo d’esistenza personale, ossia di vivere liberamente in comunione (e non sotto il regime dell’individualità, determinata dalle leggi naturali e caratterizzata dall’esclusivismo biologico o sociale) (1).
Questa riunione si compie essenzialmente – e pure esclusivamente – nella liturgia eucaristica la quale è essa stessa centrata sulla comunione eucaristica (2), anche se Zizioulas può affermare che “La Chiesa stessa, nella sua essenza, è un avvenimento di comunione” (3).
I nostri due autori insistono intensamente sulla comunione che si stabilisce nella Chiesa tra le persone umane (i fedeli) e hanno ragione di farlo. Si può tuttavia loro rimproverare di privilegiare nettamente la dimensione orizzontale della comunione (4) a scapito della dimensione verticale, che riguarda la relazione con Dio sia della comunità nel suo insieme sia di ciascun fedele in particolare. La relazione personale (nel senso classico) di ciascun fedele con Dio è, d’altronde, fortemente ed esplicitamente svalorizzata da Zizoulas, che vi vede un’attitudine individualista e la qualifica volentieri come moralista, pietista ossia psicologica (5) e considera in modo molto fantasioso una probabile origine platonica che, attraverso Origene e gli Alessandrini, avrebbe influito sulla spiritualità ortodossa (6).
Si può per altro constatare che il “comunionale” si trova sovente ridotto, presso Zioulas, nel “relazionale”. Il metropolita di Pergamo giunge così a questo tipo d’affermazioni riguardo la Chiesa: “Tutte le cose sono nella Chiesa e la Chiesa stessa è perché vive in relazione” (7); “L’identità della Chiesa è relazionale” (8); “La Chiesa è un’entità relazionale” (9); Il relazionale stesso pare sovente costituire un ideale e un valore a se stante (10) a tal punto che all’autore pare inutile precisarne il contenuto, le modalità e la qualità della relazione.
La riunione che, secondo Zizoulas, costituisce essenzialmente la Chiesa è quasi sempre ridotta da lui alla sinassi eucaristica. Il metropolita di Pergamo non menziona mai altri momenti liturgici se non la Liturgia eucaristica e le attività ecclesiali inerenti ad essa.
Zizioulas non concepisce altre fonti di grazia per i fedeli se non la stessa comunione eucaristica (11) (considerata soprattutto nella dimensione relazionale orizzontale), alla quale riferisce abusivamente tutti gli altri sacramenti (12) (l’ “eucaristocentrismo” e l’ episcopocentrismo sono i due fondamenti della sua ecclesiologia).
La natura dei sacramenti e la vita sacramentale sono ridotti da Yannaras e da Zizioulas alle loro categorie esistenzialiste e personaliste.
Per Yannaras i misteri o sacramenti sono prima di tutto “sette possibilità concrete che la vita individuale ha per ordinare organicamente o per tornare dinamicamente alla vita ecclesiale, sette possibilità che l’uomo ha di partecipare personalmente al modo di esistenza del corpo della Chiesa” secondo il quale si distacca dall’individualità autonoma per esistere in relazione (13). L’idea che i sacramenti potrebbero trasformare il modo d’esistenza della sua natura per la persona che li riceve, che donano alla persona che vi partecipa di ricevere la grazia che la sostiene, la trasforma, la salva, la santifica, la deifica è esclusa dai nostri autori poiché corrisponderebbe ad un concetto individualista e pietista.
Zizoulas esclude una ricezione individuale (o personale in senso classico) della grazia sacramentale e rifiuta il concetto secondo il quale questa avrebbe efficacia e permetterebbe il progresso spirituale dell’individuo/persona; in ciò non vi vede che un’esperienza psicologica illusoria. Considera che la partecipazione ai sacramenti è un’integrazione alla comunità il cui significato e portata sono esclusivamente relazionali (14).
I nostri due autori considerano il battesimo quale liberazione dalla necessità biologica, naturale, ed essenzialmente come il passaggio da un modo d’esistenza individuale (che corrisponde, secondo Zizioulas, all’ “ipostasi biologica”) a un modo d’esistenza personale (al quale Zizoulas da il nome d’ “ipostasi ecclesiale”) (15) o alla vera alterità (quanto in uno degli ultimi interventi di Zizoulas è oggetto d’una particolare insistenza) (16).
Per loro, questo modo d’esistenza è identico a quello che Cristo, come Figlio, ha con il Padre e il battezzato è generato come persona dal “l’identificazione della sua ipostasi a quella del Figlio” (17). Abbiamo già parlato sui problemi che pone un tal concetto d’identificazione tra una persona umana e quella del Figlio e sulla riproduzione, attraverso essa, della relazione tra Figlio e Padre. Qui notiamo solo che le funzioni abitualmente riconosciute dai padri al battesimo, particolarmente quelle della purificazione e dell’illuminazione, sono ignorate dai nostri due autori. Notiamo pure che questo concetto di battesimo centrato su Cristo, considerato sul piano puramente ipostatico in quanto Figlio, fa passare in secondo ordine e fa pure dimenticare il ruolo essenziale dello Spirito Santo.
Per Yannaras, la crismazione significa la relazione della persona unta con il corpo ecclesiale, e il sigillo apposto su tutte le membra del corpo è quello di una relazione personale e unica con la Santa Trinità (18). Se si rilegge il testo del rituale della crismazione si vedrà che questa connotazione relazionale che Yannaras considera come essenziale è assente e che il significato è, contrariamente, il ricevimento dei doni dello Spirito Santo che gli permettono di attivare per Dio le sue differenti facoltà facendo dei suoi sensi dei “sensi spirituali” atti ad accorgersi del mondo spirituale.
Il sacramento della Penitenza ha il suo valore, secondo Yannaras, nel ristabilimento della relazione con Dio e non riguarda il peccato se non nella misura in cui questo è un fallimento in rapporto a una tale relazione (19). Si è particolarmente stupiti dall’affermazione di Yannaras per cui “la relazione del peccatore con Dio nel sacramento della penitenza è la stessa relazione che ha Cristo crocefisso con il Padre” (20) poiché questo implica l’idea dogmaticamente errata che Cristo sarebbe un peccatore.
Riguardo questo stesso sacramento della Penitenza, Zizoulas gli attribuisce esclusivamente una funzione di riconciliazione con il prossimo e di restaurazione della comunione tra gli esseri umani (21).
L’eucarestia piuttosto che essere recepita come la ricezione del corpo e del sangue di Cristo che assimila il fedele a lui, lo cristifica e lo deifica, è piuttosto un atto con il quale “l’uomo cessa d’essere un individuo per divenire una persona” (22). È considerata come un mezzo con cui i battezzati, avendo acquisito un modo d’esistenza personale, realizzano il carattere relazionale della loro personalità nella comunione.
La comunione eucaristica è considerata soprattutto sul piano orizzontale della collettività o della comunità ecclesiale (23). È essenzialmente definita da Zizioulas come una sinassi (24), un raduno (25) che costituisce “una rete relazionale” (26).
Zizioulas in un modo assai sfocato gli assegna il fine e l’effetto di un mutuo riconoscimento esistenziale: “l’eucarestia implica e rivela al di sopra di tutto l’accettazione riconoscente dell’esistenza dell’Altro e della nostra esistenza come un dono per l’altro. L’essenza dell’ ethos eucaristico, dunque, è l’affermazione dell’Altro e di ogni altro come un dono che dev’essere apprezzato e suscitare gratitudine” (27).
Yannaras, da parte sua, insiste sull’unità che l’Eucarestia stabilisce: “mangiare la carne e bere il sangue di Cristo – egli scrive – trasforma gli individui in membra del corpo unico” (28). Essa è quanto fa passare l’uomo dall’individualità alla personeità considerata come modo d’esistenza relazionale “in comunione”. Egli scrive ancora: “È l’atto di bere e mangiare trasformato in mutevole scambio di vita nell’amore, nel rinunciare e rivoltarsi contro l’esistenza autonoma” (29).
Ogni concetto di comunione eucaristica considerato come comunione personale (nel senso corrente) del fedele con Cristo è svalorizzato in quanto individuale (ossia in senso personalista, individualista) e il fatto di considerare l’Eucarestia come una sorgente di grazia per la vita spirituale (altrimenti definita come la vita in Cristo) è rigettato come un’idea pietista (30).
È inutile dire che questo ridotto concetto non è quello del vangelo in cui si vede Cristo stesso dare alla comunione un senso nettamente personale: quello di ununione personale/individuale del fedele con Lui, di cui il fedele riceve personalmente/individualmente un effetto spiritualmente vivificante (“Colui che mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che è vivente, mi ha inviato e come io vivo per il Padre, così colui che mi mangia vivrà pure per me” (Gv 6, 56-57).
Questo concetto non è altro che quello dei padri come emerge, ad esempio, dalle preghiere che il fedele ortodosso dice prima e dopo la comunione – preghiere che sono state composte da san Basilio il Grande, san Giovanni Crisostomo, san Simeone il Metafraste, san Simeone il Nuovo Teologo e san Giovanni Damasceno e che offrono una buona prospettiva del concetto tradizionale della Chiesa ortodossa a tal riguardo – in cui ciascuno chiede a Dio un beneficio spirituale personale/individuale della comunione che sta per ricevere o ha ricevuto (31).
Gli altri sacramenti o misteri sono logicamente considerati dai nostri due autori nella stessa prospettiva personalista come dei mezzi per l’uomo di trascendere la sua individualità o la sua “ipostasi biologica” per divenire una persona.
Secondo Zizioulas, i ministeri non devono essere ritenuti in una prospettiva sacramentale ma “in termini personali ed esistenziali” (32). Per quanto riguardo l’Ordinazione (concepita anch’essa come qualcosa che implica “una trasformazione dell’individuo in persona” (33)), Zizioulas difende l’idea che non si tratta di un sacramento e che il vescovo o il prete ordinato non riceve alcuna grazia individuale (o personale in senso classico) né alcun attributo carismatico legato alla sua persona, ma si trova integrato ad un tessuto di relazioni per prendervi un certo posto e una certa funzione in seno alla comunità ecclesiale (34).
È inutile sottolineare il carattere riduttore d’un tale concetto che, una volta di più, sostituisce la persona e la relazione alla grazia (35) e che nega i caratteri carismatici particolari legati dai padri ai ministeri ordinati come la grazia conferita dall’ordinazione ai ministri (36).

[continua]

Traduzione © Traditio Liturgica


Note

(1) Cfr. C. Yannaras, La liberté de la morale, p. 71; La Foi vivante de l’Église, p. 149, 150; J. Zizioulas, L’Être ecclésial, Introduction, p. 16; «Du personnage à la personne», p. 48-49, 51.
(2) Cfr. J. Zizioulas, L’Église et ses institutions, passim.
(3) Ibid., p. 390.
(4) Vedi su questo punto la critica di Zizoulas fatta da J. Behr, «The Trinitarian Being of the Church», St. Vladimir’s Theological Quarterly, 48, 2003, p. 67-68.
(5) Vedi, ad esempio, «Christologie, pneumatologie et institutions ecclésiales Un point de vue orthodoxe”, in Les Églises après Vatican II, Paris, 1981, ripreso in L’ Église et ses institutions, p. 38.
(6) Vedi «L’identité de l’Église», φημριος, 52, 2003, ripreso in L’ Église et ses institutions, p. 138-143.
(7) «Christologie, pneumatologie et institutions ecclésiales Un point de vue orthodoxe”, in Les Églises après Vatican II, Paris, 1981, ripreso in L’ Église et ses institutions, p. 38.
(8) «L’ Église comme communion», S.O.P., 181, 1993, ripreso in L’ Église et ses institutions, p. 107.
(9) Ibid., p. 118.
(10) Vedi pure supra, la sezione intitolata «Absolutistion et idéalisation de la relation».
(11) Zizioulas che si richiama volentieri a san Massimo il Confessore (ma che lo interpreta sempre molto liberamente a seconda della sua convenienza), dovrebbe rileggere i passi delle Questioni a Thalassios in cui costui evoca le forme della comunione non eucaristica con Cristo, particolarmente attraverso i logoi della creazione e i logoi della Scrittura. In seno alla Liturgia stessa è evocata molte volte un’altra forma di comunione rispetto alla comunione propriamente eucaristica (in particolare la “comunione dello Spirito Santo”), in modo che i fedeli participanti alla Liturgia ma non alla comunione eucaristica si comunica ugualmente, in un certo modo, a Cristo e allo Spirito Santo. Questo non impedisce alla comunione eucaristica d’essere la forma più elevata e più completa di comunione, la comunione per eccellenza.
(12) Vedi «L’ Église comme communion», S.O.P., 181, 1993, ripreso in L’ Église et ses institutions, p. 116.
(13) Cfr. La liberté de la morale, p. 125-126.
(14) Vedi «Christologie, pneumatologie et institutions ecclésiales Un point de vue orthodoxe”, in Les Églises après Vatican II, Paris, 1981, ripreso in L’ Église et ses institutions, p. 37-40, 45.
(15) Cfr. C. Yannaras, La liberté de la morale, p. 127-128; J. Zizioulas, «Du personnage à la personne», in L’Être ecclésial, p. 45-46.
(16) «On Being Other», in Communion and Otherness, p. 80.
(17) Cfr. J. Zizioulas, «Du personnage à la personne», in L’Être ecclésial, p. 48; «Human Capacity and Human Incapacity», p. 438 (= Communion and Otherness, p. 241); «On Being a Person. Towards an Ontology of Personhood», p. 43 (= Communion and Otherness, p. 43); C. Yannaras, La liberté de la morale, p. 131.
(18) Cfr. La Foi vivante de l’Église, p. 159-160; La liberté de la morale, p. 130.
(19) Cfr. La liberté de la morale, p. 133-135.
(20) Cfr. Ibid. p. 135.
(21) «On Being Other», in Communion and Otherness, p. 80-81.
(22) Cfr. J. Zizioulas, «La vision echaristique du monde et l’homme contemporain», Contacts, 19, 1967, ripreso in L’ Église et ses institutions, p. 250; cfr. «L’eucharistie: quelques aspects bibliques», ripreso in L’ Église et ses institutions, p. 306.
(23) Vedi L’ Église et ses institutions, passim.
(24) Vedi L’ Église et ses institutions, p. 308 e passim.
(25) Vedi ibid., p. 244, 245, 252, 277-279.
(26) Cfr. C. Yannaras, La liberté de la morale, p. 71. L’espressione “rete relazionale” è utilizzata da J. Zizioulas, «Du personnage à la personne», in L’Être ecclésial, p. 49-51.
(27) «On Being Other», in Communion and Otherness, p. 90.
(28) La liberté de la morale, p. 71.
(29) La Foi vivante de l’Église, p. 153.
(30) J. Zizioulas, L’Être ecclésial, Introduction, p. 16; «L’identité de l’Église», φημριος, 52, 2003, ripreso in L’ Église et ses institutions, p. 137-143; «La vision eucharistique du monde et l’homme contemporain», Contacts, 19, 1967, ripreso in L’Église et ses institutions, p. 245 in cui Zizioulas scrive in modo brutale sull’eucarestia: “Noi non dobbiamo vedere in essa un mezzo di grazia”. Uno dei discepoli greci di Zizioulas, S. Yankazoglou, riprende su tal punto le idee del suo maestro (attingendole soprattutto nell’articolo “L’identité de l’Église”, ripreso in L’Église et ses institutions, p. 138-141). Egli oppone all’eucarestia, considerata come sorgente e mezzo di grazia dispensata dalla Chiesa (un’idea che egli qualifica come “sacramentalista” e “clericalista” e che attribuisce ad un’influenza della teologia cattolico-romana!), l’eucarestia come “atto pubblico” costitutivo della Chiesa; egli rifiuta il legame tra l’eucarestia e l’ascesi personale considerandolo come “pietista” e “individualista”; più generalmente denuncia “un approccio terapeutico dell’ecclesiologia” che vede nella Chiesa “un luogo terapeutico” («Ecclésiologie eucharistique et spiritualité monastique: rivitalité ou synthèse», in J.-M. Van Cangh (a cura di), L’Ecclésiologie eucharistique, Bruxelles, 2009, p. 80-81, 85). È facile opporgli gli innumerevoli riferimenti patristici che considerano la salvezza come una guarigione dell’uomo malato dal peccato e dalle passioni (vedi lo studio di 850 pagine che abbiamo dedicato a tal soggetto e che riguarda esclusivamente gli insegnamenti dei Padri delle Sacre Scritture e dei testi liturgici: Thérapeutique des maladies spirituelles, V ed., Paris, 2007), e, conseguentemente la Chiesa, luogo in cui si compie la salvezza come luogo di guarigione. Per quanto riguarda l’eucarestia i padri la considerano e la presentano unanimemente come un “medicinale” (vedi ibid, p. 332-333) e le preghiere che la Chiesa chiede ai fedeli da leggere prima e dopo la comunione, per prepararsi e rendere grazie, non cessano d’invocare la “guarigione” da lei procurata. Citiamo a tal proposito anche questa preghiera che si trova nella stessa Liturgia di san Basilio: “ Tu, Sovrano dell’universo, concedi che la comunione al santo Corpo e Sangue del tuo Cristo sia per noi fede che non resta confusa, amore non ipocrita, pienezza di sapienza, guarigione dell’anima e del corpo, fuga di ogni avversario, osservanza dei tuoi comandamenti”.
(31) Citiamo solamente questi estratti delle prime preghiere prima della comunione. Prima pregiera: “Ti ringrazio, o Signore mio Dio, perché non mi hai respinto, benché peccatore, ma mi hai reso degno di comunicarmi con i tuoi santi misteri. Ti ringrazio, perché tu hai voluto che io, benché indegno, fossi partecipe dei tuoi purissimi e celesti doni. Ma tu, Sovrano amico degli uomini, che per noi sei morto e risuscitato e ci hai donato questi tremendi e vivificanti misteri a beneficio e santificazione delle anime e dei corpi, fa’ che essi siano anche per me salute dell’anima e del corpo, vittoria contro ogni avversario, illuminazione agli occhi del mio cuore, pace alle mie potenze spirituali, fede senza rossore, amore sincero, pienezza di sapienza, osservanza dei tuoi comandamenti, aumento della tua divina grazia e possesso del tuo regno. Fa’ che io, da essi conservato nella tua santità, mi ricordi sempre della tua grazia e non viva più per me, ma per te, nostro Sovrano e benefattore. E così, partendo dalla vita presente con la speranza della vita eterna, possa arrivare al riposo senza fine, dove è l’incessante cantico di quanti ti festeggiano e l’infinito godimento di quanti contemplano l’ineffabile bellezza del tuo volto”. Seconda preghiera di san Basilio di Cesarea: “Sovrano, Cristo Dio, Re dei secoli e Creatore di ogni cosa, ti ringrazio per tutti i beni che mi hai elargiti e per la partecipazione ai tuoi purissimi e vivificanti misteri. ti prego dunque, o buono ed amico degli uomini: custodiscimi sotto la tua protezione e sotto l’ombra delle tue ali. Concedimi di partecipare degnamente, con pura coscienza, ai tuoi santi misteri, fino all’ultimo respiro della mia vita, per la remissione dei peccati e la vita eterna. Tu sei infatti il pane della vita, la sorgente della santificazione, il datore di ogni bene”.
Terza preghiera, di san Simeone Metafrasta: “Tu che hai voluto darmi la tua carne come cibo e che sei fuoco che brucia gli indegni, no, non consumarmi, o mio Creatore, ma penetra fino alle giunture delle mie membra, negli arti miei, nei reni e nel cuore. Brucia le spine di tutti i miei peccati, purifica l’anima mia, santifica la mia mente, rafforza i miei piedi insieme con le ossa, illumina i cinque sensi miei, tutto inchiodami con il tuo timore. Custodiscimi sempre, proteggimi e difendimi da ogni opera e parola corruttrice. Purificami, lavami, educami, mondami, dammi intelligenza, illuminami, rendimi dimora del tuo solo Spirito e non più ricettacolo del peccato. Divenuto così tua abitazione con la comunione fuggirà come dal fuoco ogni malvagità e passione. [...] o Cristo mio [...] fa’ di me, tuo servo, un figlio della luce”.
(32) «L’eucharistie: quelques aspects bibliques» in J. Zizioulas, J. - M. R. Tillard, J.-J. Von Allmen, L’Eucharistie, Paris, 1970, ripreso in L’Église et ses institutions, p. 288.
(33) J. Zizioulas, «L’ordination est-elle un sacrement?», Concilium, 74, 1972 ripreso in L’Église et ses institutions, p. 347.
(34) Vedi «Christologie, pneumatologie et institutions ecclésiales Un point de vue orthodoxe”, in Les Églises après Vatican II, Paris, 1981, ripreso in L’ Église et ses institutions, p. 38; «L’eucharistie: quelques aspects bibliques», ripreso in L’ Église et ses institutions, p. 288 (“È importante che la nozione di ʻordine’ e di ministero sia liberata da un sacramentalismo oggettivante che considera il dono di un carisma o l’ordinazione al ministero come dei “sacramenti” essi stessi”); «Les groupes informels dans l’Église. Un point de vue orthodoxe», in R. Metz e J. Schlick (a cura di), Les Groupes informels dans l’Église, Strasbourg, 1971, ripreso in L’ Église et ses institutions, p. 324 (“L’ordinazione fa di ciasciun ministro un’entità relazionale”), p. 324-326 (l’autore scrive particolarmente “l’autorità che accompagna ogni ministero nella Chiesa è essenzialmente condizionata [sottolineato da noi] dalla nozione di comunione. Questo significa che nessuna autorità proviene dallo stesso ministero, come sua conseguenza ontologica […] ma che essa consiste giustamente nella relazione nella quale è posto il ministro attraverso la sua ordinazione nella comunità»); «L’ordination est-elle un sacrement?», Concilium, 74, 1972 ripreso in L’Église et ses institutions, p. 341-347 (p. 347, l’autore scrive che nel quadro della sua concezione “la questione di sapere se l’individuo ordinato differisce dal laico essentia [differenza d’essenza] o semplicemente gradu [differenza di grado] diviene priva d’importanza. Bisognerebbe piuttosto considerare la differenza in termini d’una specificità di relazione all’interno della Chiesa”); «L’évêque selon la doctrine théologique de l’Église orthodoxe», in G Routhier e L. Villemin (a cura di), Nouveaux apprentissages pour l’Église, Paris, 2006, ripreso in L’Église et ses institutions, p. 378 (“L’ordinazione è prima di tutto una realtà relazionale”), 385 (“L’ordinazione significa prima di tutto fare entrare qualcuno in un ordo particolare”).
(35) Cfr. «L’ordination est-elle un sacrement?», Concilium, 74, 1972 ripreso in L’Église et ses institutions, p. 347: “L’ordinazione non è un sacramento. La grazia del mistero di Cristo, ossia l’amore stesso di Dio, ha l’aspetto d’una relazione e, conseguentemente, è decisiva in senso esistenziale”. Questo concetto che proviene da un gergo esistenzialista, è di un’estrema indecenza riguardo a quanto si può leggere, ad esempio, ne La Gerarchia ecclesiastica di Dionigi l’Areopagita e nel trattato Sul sacerdozio di san Giovanni Crisostomo.
(36) Qui Zizioulas è manifestamente meno vicino ad un concetto personalista propriamente detto rispetto che ad un concetto di tipo sociologico strutturalista secondo il quale, in un insieme strutturato, ciascun elemento non ha senso e valore se non per la sua relazione con gli altri elementi e per il suo posto in rapporto a loro.

giovedì 6 novembre 2014

Le qualità del confessore e come deve condurre la confessione




Riporto un altro breve estratto dal medesimo libro citato nel post precedente. In questo caso l'argomento riguarda i confessori e come devono confessare. In un'epoca in cui la confessione è piuttosto trascurata non è raro che lo stesso clero possa non praticarla in modo preciso, come chi non adopera da un certo tempo uno strumento di lavoro. È parso opportuno, dunque, riportare delle linee generali per far presente a sacerdoti e fedeli, quale dev'essere il profilo e lo stile del confessore.


Nella realtà i confessori ideali sono rari.
Ciononostante le opere di riferimento che ne parlano insistono sul fatto che il confessore dev’essere illuminato, virtuoso, con un comportamento irreprensibile ed esemplare per poter confessare correttamente ed istruire realmente coloro che confessa nelle vie della virtù, sia con il suo stile di vita sia con le sue parole.

Il Trebnik [il “benedizionale” slavo ad uso del clero] precisa:

“Chi riceve le confidenze degli uomini dev’essere un modello in tutte le virtù; temperante, umile, beneficiante, praticante la preghiera in tutte le ore per poter dare una parola sapienziale e correggere coloro che lo raggiungono. Innanzitutto, lui stesso deve digiunare i mercoledì e i venerdì di tutto l’anno, come prescrivono i santi canoni, affinché quanto pratica lo possa ordinare ad altri. Poiché se è ignorante, intemperante e voluttuoso, come potrà insegnare le virtù ad altri? E, d’altra parte, quale insensato può ascoltarlo nelle cose che dice se lo vede sregolato e ubriaco, mentre insegna ad altri a non ubriacarsi e a praticare qualche altra virtù da lui trascurata? Infatti lo sguardo è più certo dell’udito, dice la santa Scrittura. Così veglia su te stesso, padre spirituale, che se una delle tue pecore perisce per tua negligenza la si esigerà da te stesso”.

Nel suo Exomologhitarion [manuale greco per la confessione], san Nicodemo l’Aghiorita si rivolge così al futuro confessore:

“Devi aver guarito e vinto le tue passioni, poiché se cerchi inappropriatamente di guarire quelle altrui prima di aver guarito le tue, sentirai queste parole: ‘Medico, cura te stesso’ (Lc 4, 23). Se vuoi veramente illuminare e perfezionare gli altri, devi tu stesso essere stato illuminato e perfezionato […] Alla fine, devi essere modello ed esempio di ogni bene e di ogni virtù agli occhi dei tuoi figli spirituali. […] Nella confessione avrai a che fare con molti argomenti pericolosi. Sentirai molti peccati vergognosi delle persone e molte impurità relative alle loro passioni. Devi essere come una bacinella d’oro o d’argento per lavare e detergere la sporcizia altrui senza che nulla si trattenga a sporcarla. […] San Melezio il Confessore dice: ‘Come un leone non può essere pastore di un agnello, così quanti sono sottomessi alle passioni non possono condurre le anime. […] Devono necessariamente presentarsi a Dio liberi dalle passioni” (1).

Ogni confessore è tenuto, nella stessa pratica della confessione, a rispettare un certo numero di regole fissate dalla Chiesa.
Prima di tutto, un confessore non deve confessare una persona nello stesso peccato nel quale è implicato, né una persona con la quale è in conflitto; non deve neppure confessare la propria sposa né i propri figli, se è un sacerdote sposato, per il fatto che la vita di costoro e le circostanze dei loro peccati sono soventi legati alla propria vita e alla propria persona. In ogni caso, le persone che si confessano se si trovano in una posizione ambigua e dissimmetrica, rischiano di farlo in modo parziale poiché non possono esprimersi apertamente e liberamente e non possono neppure ricevere i consigli e le epitimìe [penitenze] in modo appropriato. Il confessore, allora, deve inviare tali persone da un altro confessore (2).

Il confessore dovrà conservare un segreto assoluto per quanto riguarda quello che gli è stato confidato in confessione, compreso il caso di delitti gravi (3).
Deve mostrarsi accogliente verso tutte le persone che gli giungono ricevendole a braccia aperte come, nella parabola, il padre nell’atto di ricevere il figlio prodigo (4).
Il confessore deve prendere tutto il tempo necessario per la confessione, condurla lentamente, non mostrare alcuna impazienza di fronte a chi gli si confessa né alcuna fretta per quanto sta compiendo. Vi si deve attenere  anche se ci fosse una lunga fila d’attesa. Ciò è necessario, da una parte, perché il penitente abbia tutto il tempo di dire quanto deve nel proprio modo e, dall’altra, perché il confessore abbia il tempo di riflettere e dare i consigli più appropriati. San Nicodemo l’Aghiorita scrive a tal proposito:

“Padre spirituale, devi condurre la tua confessione lentamente, minuziosamente, senza fretta se vuoi che la confessione sia come dev’essere e se vuoi che la correzione dei peccati sia vera e salvifica, pure se ci sono molte persone che attendono di vederti. A tal fine, devi dire ai penitenti di presentarsi sufficientemente in anticipo. Poiché, conducendo lentamente la confessione, avrai tempo di riflettere accuratamente ai medicamenti adeguati richiesti  per ciascun peccatore. Infatti molti confessori che sovente si sono affrettati e che, conseguentemente, non hanno avuto tempo di riflettere correttamente, hanno distrutto molte persone invece di correggerle e, nello stesso tempo, si sono distrutti loro stessi con esse, pentendosi amaramente fino alla loro morte” (5).

Nel tempo in cui la persona si confessa, il confessore è tenuto ad essere totalmente neutrale (ossia, ad esempio, non deve avere sbalzi d’umore, non deve gesticolare o avere mimiche o parole di disapprovazione o che lascino intravvedere un qualsiasi giudizio). San Nicodemo l’Aghiorita consiglia a tal proposito:

“Confessore, devi osservare il silenzio e ascoltare colui che confessa i suoi peccati e, pure se sono grandi e numerosi, devi essere attento e non parere scioccato, non devi sospirare o presentare alcun gesto o segno che mostrerebbe quanto sei disgustato o sconvolto. Infatti come un daino si accovaccia e il minimo movimento di una foglia è capace d’impedirglielo, ugualmente è per il peccatore mentre sta confessando, mentre si sta sforzando di dire i suoi peccati: un minimo gesto può provocargli delle difficoltà e, di conseguenza, impedirgli di accovacciarsi, ossia di confessarsi come sta scritto: ‘I figli sono sul punto di nascere e non c’è forza  che gliene dia  la possibilità’ (Is 37, 3). Piuttosto, incoraggiateli in ogni istante, dicendogli di non aver vergogna e che pure voi, per le cose che state sentendo, siete come lui su ogni punto, un identico peccatore, e dopo essersi confessato tornerà a casa alleggerito e totalmente gioioso perché avrà liberato la sua coscienza dalla bruciatura del peccato” (6).

In linea di principio, il confessore deve evitare di porre domande poiché questo implica il rischio, da parte del penitente, di non confessarsi liberamente e completamente e, come rimarca san Nicodemo l’Aghiorita, si tratterrebbe di un interrogatorio, non più di una confessione (7).
Nonostante ciò, può porre delle domande se vede che la persona non sa confessarsi (è sovente il caso delle prime confessioni) (8) o è ignorante su quanto dev’essere confessato, o si è bloccato per eccesso di vergogna (9); il confessore può pure chiedere delle precisazioni su quanto non gli pare chiaro o gli sembra incompleto (poiché è importante per il penitente che la sua confessione sia chiara e completa). Ma conviene che, se interroga, lo faccia con tatto.
Se il confessore pone delle domande, non dev’essere assolutamente mosso da curiosità ma:

a)     da una parte dev’essere spinto dalla preoccupazione di permettere a chi si confessa d’esporre le sue mancanze senza dissimularle, senza omissioni, senza essere trattenuto dalla vergogna né accecato dall’ignoranza e in modo sufficientemente aperto e chiaro per averne coscienza e una sufficiente “simbolizzazione” del peccato (attraverso l’espressione linguistica) e che la sua confessione sia liberatoria;
b)    dall’altra, dev’essere spinto dalla preoccupazione di comprendere sufficientemente la natura del peccato per poter proporre, nei suoi consigli e nell’eventuale epitimìa da dare, i rimedi adeguati.

In nessun caso il confessore deve indagare sull’identità delle persone con le quali è stato commesso il peccato (10); non deve neppure richiedere dettagli sulle circostanze del peccato, se queste possono dar luogo ad una rappresentazione tale da costituire un nuovo peccato (nei pensieri o nell’immaginazione) per colui che si confessa o per il confessore (nel particolare caso dei peccati sessuali).

Nei consigli dati dopo la confessione (e che deve evitare di dare durante la stessa), il confessore non deve sgridare il penitente se non nella misura in cui costui ne può trarre profitto. San Nicodemo l’Aghiorita consiglia:

“Confessore, non è bene sgridare tutti e neppure nessuno. Colui che è istruito e avvisato sa trarre profitto dal fatto che lo si sgridi (cfr. Pr 19, 25); coloro che si confessano con audacia e ardimento hanno ugualmente bisogno di essere sgridati (cfr. Tit 1,13). In compenso, coloro che non sono istruiti non sono recettivi quando li si sgrida (cfr. Pr 15, 12); né i pusillanimi, che rischiano di cadere nella disperazione o nella paura; né coloro che si confessano con contrizione, poiché essi non hanno bisogno d’essere ripersi ma consolati; né coloro che hanno un’autorità secondo il detto ‘non sgridare un anziano ma trattalo come un padre’ (1 Tm 5, 1) […].
Che ne sia, devi sgridare un po’ per volta, come fa Dio stesso (cfr. Sg 12, 2). In una parola, devi sempre sgridare con dolcezza (cfr. 2 Tm 2, 25)” (11).


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Note

(1) Exomologhitarion, I, 1.
(2) Vedi Nicodemo l’Aghiorita, Exomologhitarion, I, 9, 10.
(3) La conoscenza, attraverso un sacerdote, di quanto gli è stato detto in confessione, è sanzionata da un provvedimento di deposizione. Vedi Nicodemo l’Aghiorita, Exomologhitarion, I, 11, 12 il quale si rivolge così al confessore: “Non deve restare nulla dopo la confessione se non il fatto di conservare segreti i peccati ascoltati e di non riferirli mai con una parola, uno scritto, un gesto del corpo o in ogni altro modo, pure se sei in pericolo di morte, secondo quanto dice la Sapienza di Sirach: “Avete sentito una parola? Che muoia con voi” (Sir 19, 10). […] Poiché se la rivelerai, sarai sospeso, ossia completamente deposto dai canoni ecclesiastici […] e in seguito sarai causa per molti cristiani di non confessarsi nel timore che tu rivela i loro peccati”. Su quest’ultimo punto vedi pure San Giovanni Climaco, Lettera al pastore, 83.
(4) Exomologhitarion, I, 9, 1.
(5) Cfr. Exomologhitarion, I, 9, 18.
(6) Exomologhitarion, I, 9, 4.
(7) Exomologhitarion, I, 9, 3.
(8) Il Grande Eucologio e il Trebnik, nella loro descrizione del rituale, espongono queste domande. […].
(9) Cfr. Nicodemo l’Aghiorita, Exomologhitarion, I, 9, 3.
(10) Cfr. Ibid. , I, 9, 5.
(11) Exomologhitarion, I, 9, 7.