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lunedì 5 settembre 2011

La liturgia come teofania e figura del Cielo




di Mons. Klaus Gamber e Chr. Schaffer




Mostraci la Tua magnificenza o Signore!


Fa parte della tragedia della nostra esistenza umana vedere le opere di Dio nella Creazione, esse ci fanno intuire la grandezza e la bellezza divine, ma la contemplazione di Dio ci manca. Sem­bra talvolta che la nostra preghiera si perda nel vuoto. Non viene una rispo­sta e, ad ogni modo non viene come la desideriamo.

Così tutto ci appare difficile. Eppure sentiamo che Dio ci è vicino quasi che ci tocca, che Dio c'è, che c'è per noi e che dispone della nostra vita.

L'uomo religioso fa l'esperienza di Mosè sul Sinai. Per molti giorni Mosè aveva parlato con Dio e ricevuto dalla Sua mano le tavole della Legge; ed ora supplica: "Mostrami la Tua magnifi­cenza!". Ma l'uomo mortale non può vedere questa magnificenza senza morire. Dio deve coprirgli gli occhi colla Sua mano, quando gli passa vicino, vi­cinissimo. I tre discepoli prescelti ve­dranno il Figlio nella Trasfigurazione del Tabor, e cadranno a terra, non sopportandone lo splendore.

Marx chiama la religione "il sospiro della creatura angustiata" nella sua "Critica della Filosofia hegeliana", e an­cora, "E' l'oppio del popolo". Le sue parole sulla religione si citano quasi sempre incomplete. Ma egli credeva di poterne fare a meno. Quel che dice in senso generale, vale soprattutto per il culto, che è il cuore di ogni religione. L'esperimentiamo da 70 anni nell'U­nione Sovietica, dove la Fede continua ad esistere, in grandissima parte grazie alla bellezza del culto.

Potrebbe succedere col nostro culto attuale, se ci trovassimo un giorno nel­l'identica situazione? Molta gente chiama il nostro culto attuale vuoto e noioso. Ci va perché è prescritto, ma anche perché aspetta qualche cosa. E poi la­menta che è rimasta insoddisfatta.

Molte persone esperimentano il no­stro culto come un'assemblea profana, soprattutto caratterizzata da un gran parlare. Difetta la bellezza, il Gemut, la solennità che attira l'anima e la rende felice. In breve: manca l'incontro col trascendentale, colla teofania — una mancanza resa più amara dal mondo unilateralmente tecnicizzato che ci cir­conda.

Il pensiero che ossessiona gran parte di teologi, che il culto diventi attrat­tivo introducendovi le cose di grande attualità, non sa comprendere la miseria del nostro tempo. Otterranno in tal modo un incontro fra gli uomini che si perde in un puro orizzontalismo. Il cul­to è più di un'esperienza orizzontale e non basta certo per rendere la vita più sopportabile, per quanto possa essere utile.

Ma come rimediarvi oggi?

Oggi ci s'insegna a portare la vita di tutti i giorni in chiesa. Invece occorre­rebbe fare il contrario! Ci vorrebbe la santa esperienza del culto nella vita quotidiana. Il fascino emanato dallo splendore della vicinanza di Dio nella liturgia dovrebbe rischiarare la noia di ogni giorno, colmarne il vuoto, e anche troppo spesso la sua miseria e la sua di­sperazione.

Se cerchiamo quel che è essenziale nel culto, il mistero, dobbiamo tornare indietro nel tempo, fino a scoprire l'an­tica Chiesa, non ancora scissa, la cri­stianità intera ancora compatta. Il culto tuttora accettato in Russia si ce­lebra da 1000 anni e più, e non v'è sta­ta una "riforrna". Le Chiese orientali ortodosse sono più attaccate alla Tradi­zione di noi e conoscono il valore dell'eredità a noi affidata, secondo la parola di San Paolo, perché la conserviamo. (II Tim. 1, 14).
[…]
Mostrami la Tua magnificenza! — Co­me può essere esaudita la preghiera di Mosè, come può realizzarsi un vero in­contro con Dio, una teofania nel culto? Come può svelarsi il "mistero di Cristo", come s'esprimono i Padri del Concilio?

Non possiamo vedere Iddio, e non di meno sperimentiamo la sua presenza il fascinosum del divino. Possiamo sentire le energie della grazia emananti dalla Divinità, purché si sappia farle sentire ai singoli.

l culto non è in primo luogo l'opera del sacerdote o della comunità, ma l'irruenza di realtà celesti tramite i segni sacramentali che pone. Vale anche qui la promes­sa di Gesù: "Vedrete il cielo aperto, e gli Angeli di Dio scendere e salire al di sopra del Figlio dell'uomo" (Giov. I, 51).

Questo è il senso ed è il compito del culto con i suoi riti diversi — non ce­rimonie magiche che soggiogano gli dei, ma segni visibili di un fatto invisibile, un fatto reale e nondimeno al di sopra dei sensi.

I segni servono a parlare ai sensi dell'uomo, intanto agli occhi e alle orec­chie, insomma a ciò che rende possibile la comunicazione anche fra gli uomini. Ma non vanno trascurati neppure gli al­tri sensi. Nei riti delle Chiese orientali non manca mai il profumo dell'incenso, e durante le lunghissime vigilie, il prete consacra una specie di pane dolce e lo distribuisce ai fedeli, al fine che anche gli altri sensi non vengano trascurati. La natura del culto è tale che si rivolge attraverso i segni rituali all'uomo, fatto di anima e di corpo. Non basta la dichia­razione lapidaria: "Cristo è in mezzo a noi". L'uomo intero deve sentire, con tutti i suoi sensi, la realtà di questa presenza. I discorsi toccano il solo in­telletto. Il freddo del puro razionale non riesce mai a sciogliere il ghiaccio di un cuore affranto.

Evidentemente possiamo sentire la presenza divina anche a mezzo di un'e­sperienza personale, fino a giungere a riconoscere verità che prima ci rimane­vano nascoste. Ma sono eccezioni, Al solito l'incontro col divino si realizza nel culto.

Nella liturgia di San Giacomo, l'an­tichissimo rito gerosolomitano, il coro canta durante il solenne ingresso del sa­cerdote che porta i doni del sacrificio:

"Taccia ormai ogni carne umana! Stia tremante e nel timore! S'avvicina il Re dei re, Cristo nostro Dio, per essere im­molato e dato in cibo ai fedeli! Lo pre­cedono i cori degli Angeli nella forza della loro potestà, i Cherubini dai molti occhi ed i Serafini dalle sei ali. Si copro­no il volto e cantano ad alta voce il canto della vittoria: Alleluja, alleluja, alleluja!".

Davvero! E' il Cristo che s'avanza in mez­zo a noi "per essere immolato e dato in cibo ai fedeli". E' questo il punto deci­sivo: il mistico Sacrificio di Nostro-Si­gnore, e la Sua unione con noi nella santa Eucarestia. Questo fatto manca nella preghiera privata — o quando le­viamo l'anima a Dio in mezzo alla bel­lezza della natura.

Osserviamo che pur al passaggio dei soli doni che vengono portati all'altare, i fedeli s'inginocchiano profondamente, sapendo bene che s'avvicina, non visto, il Cristo per compiere, eterno sacerdote, il sacrificio liturgico. Egli è il vero Liturgo. Egli offre il mistico Sacrificio come una volta nel Cenacolo, spezzando il pane annunciando la Sua morte violenta, e donando il Suo sangue — raccolto nel calice — agli Apostoli, come l'avrebbe sparso sulla croce, il giorno appresso. Il sacerdote che prega ed agisce davanti all'altare, non è che il Suo rap­presentante, la Grazia e il Potere sono Suoi, sono del Signore.

Mostraci la Tua magnificenza! — Non siamo in grado di vedere Dio. Ma Dio si è rivelato a noi, nell'Uomo-Dio. Egli è "l'immagine del Padre" (Col. 1, 15). Egli "è il riflesso della Sua magnificen­za" (Ebr. 1, 13). In Lui vediamo Dio (vedi Giov. XIV, 9); in Lui sono apparse la bontà e l'umanità di Dio" (Tit III, 4).

Perciò, per indicare la presenza del­l'Uomo-Dio in mezzo a noi, nelle antiche nostre chiese (ndr. come nel bel San Marco a Venezia) si vede l'immagine di Cristo in trono raffigurata nell'abside — o sotto la cupola maggiore, la "Majestas Domini".


Questa raffigurazione ricorda anche la fine dei giorni, quando il "Figlio dell'uomo" apparirà in mezzo agli Angeli (vedi Mc. XVI, 27), per giudicare il mondo e raccogliere i Suoi e condurli "nel regno preparato per loro dall'ini­zio del Mondo" (Mt. XXV, 34).

E si comprende così che l'abside eretta verso oriente doveva servire a ravvivare il ricordo del Figlio dell'Uo­mo, e che tutti coloro che prendevano parte al culto, incluso il celebrante, pre­gavano rivolti all'oriente, come dice Giovanni Damasceno (+ 749): "Siccome l'aspettiamo, adoriamo rivolti verso l'oriente". Si tratta qui dell'antichissima convinzione cristiana che Cristo è asce­so al cielo in tale direzione, e che di là ritornerà. Egli stesso ha detto: "Come la folgore esce dall'oriente, e riluce fino all'occidente, così sarà la venuta del Figlio dell'Uomo" (Mt. XXIV, 27).

E' Cristo, il Signore di ogni cosa, che "è nella gloria del Padre" (Fil. II, 11), che i fedeli pregano radunati per il Sacrificio; essi intuiscono la Sua pre­senza, contemplano la Sua immagine, e attendono il Suo ritorno nella potenza, secondo la parola che i due Angeli ri­volsero ai discepoli: "Verrà così come l'avete visto salire in cielo" (Ap. 1, 14).

Taccia ormai ogni carne umana!

Si unisce al fascinosum della pre­senza divina il tremendum che ci riem­pie di terrore. Pochi testi, così come l'in­no dell'introitus della liturgia di San Giacomo, sanno inculcarci la riverenza col canto. "Taccia ogni carne umana; stia tremante e nel timore: s'avvicina il Re dei re... i cori degli Angeli... si copro­no il volto".

Strappato alla vita profana, l'uomo risente, nell'incontro con Dio la vicinan­za santa, e tutta la propria miseria. Rico­nosce di essere indegno di avvicinare Dio nel mistero. Inorridisce comprendendo quanto è grande il bisogno della miseri­cordia divina verso di lui.

Questo atteggiamento al cospetto di così immensa santità echeggia anche nel monito del sacerdote nelle antiche litur­gie, prima che ci accostiamo a ricevere l'Eucarestia. "Il Santo ai santi! " Il "San­to", vale a dire le specie consacrate, ai santificati nel battesimo, chiamati dun­que a vivere santamente (vedi Rom. I, 7).

Santi si chiamavano nell'antica Chiesa tutti i battezzati. Comprendiamo che sol­tanto chi si è santificato nel battesimo e non ricadde nel peccato, merita di essere designato con tale verbo. Nella Didachè, l'antichissimo Ordo che la Chiesa si è dato, l'invito del prete suona: "Chi è santo acceda! Chi non lo è, faccia peni­tenza!".

Se la regola vuole che il Sacrificio eucaristico si celebri ordinariamente sol­tanto nel santuario delle chiese, e non all'aperto, nell'ambiente "profano" (profa­no, cioè fuori del fanum, o tempio), si tratta anche qui del riverente timore di­nanzi al mistero, al sacro. Purtroppo ta­le massima viene sempre meno osservata.

Un mistero svelato non è più miste­ro. E' una contraddizione in sé. Non si perde solo il fascinosum, ma anche il senso del tremendum, senza di cui man­ca la condizione necessaria per un incon­tro con Dio.

L'uomo in cerca di Dio, ma ancora tenuto prigioniero dalle cose della terra, non può fare a meno di un ambiente sacrale, la "spirituale immagine di quel che è dietro alla cupola del cielo" come lo chiama lo storico della Chiesa Eu­sebio (verso il 325), se vuole mettersi all'unisono con l'azione sacrale che si compie davanti al suo sguardo, al fine di sentire l'inaudita realtà del mistero: "poiché s'avvicina il Re dei re per essere immolato e dato in cibo ai fedeli".


La nuova Gerusalemme scende dal cielo

Il cantico di nome Sonum dell'an­tico rito gallicano ci rivela un'altra va­riante della fede liturgica della primitiva cristianità, una forma della celebrazione della Messa in uso fino ai tempi di Carlomagno. Questo rito mette soprattut­to in rilievo l'aspetto escatologico del culto. Il Sonum cantato all'ingresso dei diaconi con i doni sacrificali al princi­pio della celebrazione eucaristica, quan­do aprono i veli per permettere di vede­re l'altare con i dipinti o mosaici dell'ab­side, col Re magnifico in trono diceva:

"Guardate! E' aperto il tempio colla tenda della testimonianza (vedi Ap. XI, 19), e la nuova Gerusalemme scende dal cielo. Qui è il trono di Dio e dell'Agnel­lo. I Suoi servi gli portano doni e dicono: Santo, santo, santo, a Dio il Signore di tutto, che era, che è e che sarà! (Ap. IV, 8). Vedete in mezzo al trono della sua magnificenza l'Agnello e si sente una vo­ce che si alza dinanzi a Lui: Ha vinto il Leone di Giuda, della stirpe di Davide (Ap. V, 5). Ed i quattro animali dicono senza tregua davanti al trono: Santo, santo, santo, il Signore, Iddio il Signore di tutto che era, che è e che sarà" (Ap. IV, 8).

"Guardate! E' aperto il tempio!" — Qual'è il significato dei i veli, chiusi du­rante le lezioni e la predica, per nascon­dere lo spazio che contiene l'altare agli sguardi dei fedeli, e che vengono ritirati all'inizio del sacrificio eucaristico?

Si vuole mostrare così in un modo che colpisce i sensi che inizia qualche cosa che è al di là del mondo terrestre. L'azione della celebrazione sull'altare terrestre si unisce in questo istante col­la realtà che è la liturgia celeste. E' si­gnificativo che il canto del tre volte santo, è fatto risuonare nel canto dell'introito, tanto dalla voce dei chierici che portano i doni all'altare, quanto dai quattro animali, in rappresentanza del creato, ai piedi del trono di Dio.

Teodo­ro di Mopsuestia (+ 428) dice in tale senso, parlando appunto di un`imma­gine di cose celestiali": "Ogni volta, quando compiamo questo tremendo sa­crificio... dobbiamo tenere presente che siamo per modo di dire in cielo. La fede ci dà la visione spirituale della realtà del cielo ".

Similmente Gregorio di Nazianzo (+ 390) insegna in una predica pasquale: "Immoliamo a Dio il sacrificio di lode sull'altare del cielo, insieme con i cantori celesti! Entriamo dietro al pri­mo velo, avviciniamoci al secondo e guardiamo nel Santo de' Santi".

Gregorio ricorda i due veli nel tempio di Geru­salemme. Un velo chiudeva il "Santo" coll'altare dell'incenso, dei pani da proposizione e col candelabro. Un secondo nascondeva il "Santo de' Santi" coll'arca dell'alleanza sotto i cherubini. L'ingres­so nel primo era riservato ai soli sacer­doti e nel secondo unicamente al Grande Sacerdote, e non più di una volta all'an­no (vedi Ebr. IX, 7).

Nei riti antichi e ancora ai nostri giorni nei riti delle Chiese orientali, il luogo dell'altare non è sempre visibile ai fedeli. Inoltre il rito bizantino ha l'iconostasi che si è sviluppata dalle ba­laustre che una volta servivano da bar­riere. Il luogo dell'altare era sempre ri­servato ai soli chierici, ai consacrati al servizio di Dio. La designazione pre­sbiterio ne dà testimonianza.

Anche l'occidente aveva l'uso di veli davanti al luogo dell'altare. Duran­do (nel XIII secolo) nel Rationale divinorum officiorum (I 2, 35) distin­gue due veli, il grande velo davanti al luogo dell'altare, e l'altro più piccolo tra le colonne che reggevano il baldac­chino sopra l'altare. Egli menziona pure il terzo che copriva i doni sacrificali. E noi ricordiamo benissimo questo velo che copriva il calice e la patena coll'o­stia che il sacerdote reggeva nelle mani incamminandosi verso l'altare per cele­brare la Messa. Sant'Ambrogio racco­mandò: "abscondita teneamus mysteria!” (Portiamo nascosti i misteri).

"Vedi, è aperto il tempio! Alla mor­te di Gesù, il velo che nascondeva il San­to de' Santi si spezzò dall'alto in basso, in due parti", come tramandano gli E­vangelisti. Da sempre, lo si crede un se­gno della fine dell'antica Alleanza. L'in­gresso al santuario ormai stava aperto per tutti i credenti, in virtù della morte d'espiazione di Gesù; era aperto il cielo, dove Gesù ha preceduto i Suoi seguaci.

Il veggente di Patmos vide quindi, co­me "il tempio di Dio in cielo si apriva scoprendo allo sguardo l'arca del testa­mento nel tempio. Vide la celeste Geru­salemme scendere dal cielo, magnifica come una sposa, ornata per il suo Sposo" (Ap. XI, 19 e XXI, 2).

Il pensiero di una Liturgia cosmica (Urs von Balthasar) si ripete in tutta l'Apocalisse di San Giovanni. Davanti al trono di Dio, egli vede l'Agnello "come immolato", vede come i quattro animali ed i ventiquattro seniori si prostrano davanti all'Agnello e li sente cantare...

"Sei stato immolato e ci hai riscattati col tuo sangue da tutte le tribù e lingue, popoli e nazioni, e dinanzi al nostro Dio ci hai fatti re e sacerdoti". (Ibid. V, 6 - 10).

Di nuovo s'interrompe sempre la de­scrizione della lotta con le potenze del male nel mondo contro il Cristo e con­tro i Suoi fedeli, e del giudizio severo finale, per dare posto alla celeste liturgia. Il canto d'innumerevoli Angeli si unisce alla lode che sale da tutte le crea­ture "in cielo, sulla terra e sotto la ter­ra e nel mare". Tutto il creato canta "A colui che siede sul trono e all'Agnel­lo sia lode e onore e potere per tutta l'eternità!

Così le liturgie terrestri e celesti si uniscono a formare un unico culto: il culto della Chiesa cristiana, subentrato al culto mosaico.


Il sacerdote che offriva ogni sera il sacrificio dell'incenso nel Tempio di Gerusalemme, faceva lo stesso che ai nostri giorni quando il liturgo cristiano offre l'incenso durante i Vespri solenni, secondo l'esempio dato dall'Angelo, il quale sta coll'incensorio d'oro davanti all'altare del cielo per offrire al trono di Dio le preghiere dei Santi (Ap. VIII, 4).

Le dimensioni di luogo e di tempo spariscono. Così pensa San Giovanni Crisostomo, allorché scrive nel Libro sul Sacerdozio: "se tu miri, come il Signore giace immolato e come il sacerdote sta davanti all'altare e prega e tutti sono santificati con la porpora del preziosis­simo Sangue: credi ancora di essere in mezzo agli uomini e sulla terra? Non getti lungi da te ogni pensiero carnale e contempli le cose celesti con cuor puro e con mente pura?"

E' vero, noi vediamo ora le cose del cielo soltanto "come in uno specchio, non ancora faccia a faccia". (I Cor. XIII, 12). Eppure, festeggiando la liturgia in compagnia dei santi Angeli, l'uomo diventa un altro. L'incontro col mondo di là, ha più forza di ogni imperativo morale. L'esperienza delle cose sante santifica, mentre la sola legge non vi riesce.

Perciò la Chiesa siriaca prega alla fine del culto: "Concedici, o Signore che le orecchie che hanno sentito la Tua lode, si chiudano per la voce dei litigi e delle guerre! Che gli occhi che hanno mi­rato il tuo immenso amore, vedano an­che la beata speranza! Che le lingue che hanno cantato la Tua lode, diano d'ora in poi testimonianza alla verità! Che i piedi entrati nel Tuo atrio camminino nel futuro per le vie della luce! A Te ren­diamo grazie per la Tua indicibile Gra­zia”.

Solo se celebriamo il sacro culto con simili sentimenti, il desiderio di Mosè e degli uomini credenti può avverarsi: "Mostraci, o Signore, la Tua magni­ficenza! ".

Tratto da Notizie, 123 (1987).