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mercoledì 28 novembre 2018

La Chiesa di Gregorio Magno e oggi

598, luglio

Gregorio a Eulogio Patriarca e vescovo d'Alessandria.

La vostra beatitudine si è data cura di indicarmi che essa non scrive più, rivolgendosi ad alcuni, appellativi superbi, che nacquero dalla radice della vanità e mi parla usando l'espressione: "Come avete comandato". Questa parola di comando vi chiedo di tenerla lontana dal mio udito, perché so chi sono io e chi siete voi: per il posto che occupate mi siete fratello, per la condotta mi siete padre. Non ho comandato, ma ho cercato di indicare ciò che mi sembrava utile. Non riscontro però che la vostra beatitudine abbia voluto ritenere alla perfezione proprio ciò che ho presentato alla vostra memoria. Infatti vi ho detto che né con me né con alcun altro dovete scrivere qualcosa di simile ed ecco che nella intestazione della lettera che avete indirizzata a me che ve lo proibivo, vi siete curato di imprimere l'appellativo superbo chiamandomi Papa universale. Vi prego, la santità a me dolcissima non lo faccia ancora, perché si sottrae a uno ciò che si attribuisce a un altro più di quanto la ragione esige. Io infatti non cerco una grandezza fatta di parole, ma una grandezza morale. Né stimo essere onore quello per cui so che i miei fratelli perdono l'onore loro dovuto. Il mio onore è l'onore della Chiesa universale. Il mio onore è il solido vigore dei miei fratelli. Allora veramente sono onorato, quando non si nega l'onore dovuto a ciascuno di essi. Se infatti la santità vostra mi chiama Papa universale, nega di essere ciò che in me proclama di universale. Ma questo sia lungi da noi. Si allontanino da noi le parole che gonfiano la vanità, che feriscono la carità.

Certo, la vostra santità conosce bene che nel santo Concilio di Calcedonia e dopo dai Padri che seguirono, quest'appellativo fu attribuito ai nostri predecessori. Tuttavia, nessuno di essi volle servirsi di questa denominazione, affinché, mentre in questo mondo amavano l'onore dovuto a tutti i vescovi, custodissero presso Dio onnipotente, il proprio onore.

Quindi, mentre vi porgo i dovuti saluti, vi chiedo che nelle vostre sante preghiere vi degniate di ricordarvi di me, perché sia assolto, per la vostra intercessione, dai vincoli dei miei peccati che non riesco a cancellare con i miei meriti.

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La presente lettera, vergata da papa Gregorio magno è, assieme a qualcun'altra simile, una vibrata protesta nei riguardi di chi, allora, iniziava a chiamarsi "vescovo universale". Con quest'appellativo iniziò a fregiarsi il patriarca costantinopolitano, poiché Costantinopoli era politicamente la capitale dell'ecumene, ossia della terra universale allora conosciuta.
Un principio politico, dunque, si sovrapponeva ad una carica religiosa creando un ibrido, "il patriarca ecumenico" che, agli occhi di san Gregorio, è un'eresia. Il papa non accetta tale titolo neppure per sé (papa universale) perché comporta una giurisdizione su tutte le diocesi del mondo e lo fa sovrapporre (e quindi per lui fa annullare) la giurisdizione dei vescovi locali. 
Ne evinciamo che per papa Gregorio il vescovo è signore e padrone nella sua diocesi e non può essere limitato da nessuna autorità. Il limite può giungere solo da un sinodo regionale o, più ampiamente, universale (concilio ecumenico) che con autorità dell'insieme della Chiesa stabilisce delle sanzioni per un vescovo locale. Così avvenne, ad esempio, nel caso di Ario o del patriarca Nestorio.
Gregorio sembra suggerire che la sua autorità entra in gioco solo quando è richiesta, similmente all'ecclesiologia orientale e come alcune testimonianze storiche del primo millennio ci indicano.
Un'autorità personale che prescinde dagli altri e impone se stessa è, dunque, inconcepibile per Gregorio poiché è alla base del titolo "papa universale" o "patriarca ecumenico". Questo vale sia per il papa di Roma sia per qualsiasi patriarcato.
Nella posizione di Gregorio si ravvede l'ecclesiologia antica delle "Chiese sorelle" apparentate dall'unica e medesima fede ma indipendenti le une dalle altre.
L'evoluzione storica ha, in seguito, portato all'emersione di alcuni centri importanti, poiché erano città politicamente importanti. Quei centri hanno lentamente modellato la concezione ecclesiale antica fino a determinare l'importanza del papato in Occidente e del patriarcato costantinopolitano in Oriente.
È bene sottolineare che è stata l'importanza politica di Roma e Costantinopoli ad aver fatto emergere queste due Chiese, non l'importanza apostolica con la quale la prima ha poi successivamente (ma piuttosto tardivamente) rivendicato il proprio primato.
L'esercizio di un magistero individuale sulla Chiesa universale non pare esistere nella mentalità di Gregorio che, perciò, non vuole essere "universale" per non togliere nulla ai suoi fratelli nell'episcopato: egli consiglia, non impone!
La storia ha in seguito lentamente modellato la concezione di Chiesa differenziandola, non senza resistenze, se si tiene conto di questa stessa lettera. 
Oggi il ruolo individuale del papa è visto inscindibilmente con la Chiesa perché si è solidificata una certa mentalità con motivazioni teologiche.
In Oriente tutto ciò ancora non si è stabilito ma notiamo che da alcuni decenni nel patriarcato ecumenico è decollata, e oggi si è stabilita vigorosamente, una mentalità simile a quella del papa nel Cattolicesimo odierno. 
Anche qui, come ai tempi di Gregorio Magno, sorgono resistenze ed opposizioni. Non c'è dubbio che Bartolomeo I sta operando una variazione nella concezione tradizionale di Chiesa nell'Oriente cristiano che, in buona sostanza, è simile all'antica.
Vedremo l'instaurarsi di una Chiesa papale orientale?

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I seguenti schemi aiutano a capire la situazione attuale che riserva delle sorprese. Sono semplificazioni ma sulla base d'incontrovertibili documentazioni storiche. 











domenica 4 novembre 2018

Note generali di ecclesiologia

Il patriarca Ignazio (797-877) in una miniatura bizantina

La “questione ucraina” in cui, come ho sufficientemente documentato, un patriarcato entra nel territorio di competenza canonica di un altro patriarcato senza essere richiesto, interpella chi non è un “addetto ai lavori”.
Ben volentieri cercherò di esporre qualche nota generale di ecclesiologia per illuminare la questione.
L'ecclesiologia – il termine non spaventi i miei benevoli lettori! – non è altro che la descrizione di ciò che è la Chiesa e comprende anche il modo con cui si organizza.
Com'era organizzata la Chiesa nell'epoca apostolica e lungo tutto il primo millennio? In forma collegiale, non monarchica. Documenti alla mano, si può provare che, sebbene il vescovo e papa di Roma avesse un primato, tuttavia non era il monarca indiscusso ex sese della Chiesa. Le decisioni erano prese rispettando la competenza territoriale di vescovi e arcivescovi (poi patriarchi).
Ecco quattro esempi che spiegano bene lo stile di allora:
  • C'è il caso di un sacerdote nordafricano sanzionato dalla sua Chiesa che fa ricorso a Roma contro la sanzione ricevuta. Siamo nel V secolo, nell'epoca in cui viveva Agostino d'Ippona. Il papa non risponde al ricorso del sacerdote e sollecita la chiesa locale africana a dare una risposta. Questo significa che nessuno può aggirare la gerarchia alla quale immediatamente appartiene, e non lo si può chiedere neppure a Roma (concezione collegiale, non monarchica).
  • Un altro esempio lo abbiamo nel IX secolo quando dei monaci benedettini, recitando il Credo con il filioque, durante la messa della notte di natale, creano un subbuglio di monaci greci facendo sospendere la celebrazione e creando scandalo. I monaci cercano di far valere il loro diritto e, siccome sono latini, si rivolgono direttamente al papa romano di allora. Il papa non risponde e rigira il loro appello al patriarca greco di Gerusalemme, giurisdizione sotto la quale i latini in quel momento erano. Il papa, dunque, rispetta il principio antico: in un territorio c'è un solo vescovo o patriarca e costui non può essere sorpassato, neppure per rivolgersi alla prima sede altrimenti si crea un cortocircuito giurisdizionale, un monstrum ecclesiologicum per l'epoca. Il patriarca di Gerusalemme da la sua risposta e chiede, in supporto, la risposta del papa di Roma. Solo allora il papa risponde dando ragione al patriarca gerosolimitano (concezione collegiale, non monarchica).
  • Ancora nel IX secolo i teologi di Carlomagno si rivolgono a papa Leone III chiedendogli di aggiungere al Credo nella Messa il filioque. I teologi franchi espongono quelle che loro giudicano essere le loro ragioni aggiungendo che "il papa ha l'autorità per farlo" ma il papa risponde loro che “non ha tale potere”, cosa che si può eventualmente fare solo in un concilio, concordandola assieme a tutta la Chiesa universale. “Non ha potere”, ossia non può agire senza l'insieme e la concordanza di tutto l'episcopato (concezione collegiale, non monarchica) per ciò che riguarda tutta la Chiesa.
  • Le prime avvisaglie del ruolo monarchico papale s'intravvedono con la complessa questione foziana (IX sec.), dove il papa interviene direttamente e personalmente nella Chiesa costantinopolitana per porre come patriarca Ignazio al posto di Fozio. Dato lo stile conservato fino ad allora in Oriente e in Occidente, c'è ragione di credere che Costantinopoli fosse rimasta scioccata. Ma per sistemare definitivamente la complessa questione cosa si fa? Si aspetta un decreto monarchico del papa? No, si convoca un concilio (concezione collegiale, non monarchica) dove si cerca di ristabilire le cose al loro giusto posto, per conservare tutti gli onori alla prima sede imperiale (Roma) da cui il papa trae il suo prestigio nella Chiesa (*) ma cercando di ridimensionare gli ultimi eccessi.

Tutti noi sappiamo come poi è andata la storia: con la separazione tra Oriente e Occidente il papa non solo non ha più fatto le affermazioni di Leone III ma ha dichiarato se stesso come la fonte di ogni potere spirituale e temporale sulla terra (Innocenzo III), un vero e proprio principio supermonarchico! Nello stesso periodo storico sono esistiti canonisti i quali pensavano che il papa avesse tale e unica autorità da poter modificare pure i Vangeli, affermazione questa che sarebbe parsa blasfema solo qualche secolo prima.
Bisogna però situare questa reale nuova situazione nelle problematiche vicende occidentali del tempo in cui ogni chiesa veniva secolarizzata e assorbita dal potere reale o imperiale per fini secolari e dove il papa finiva per divenire ben poca cosa (**). La reazione del papato, posto forzatamente in un angolo, è stata inevitabile e, in quel tempo, era l'unico modo per uscire dal vicolo chiuso nel quale era posta tutta la Chiesa occidentale. Sta di fatto che, partendo dal primato antico, il papato è divenuto una monarchia con potere immediato su ogni parte del mondo. Il papa lentamente è divenuto un monarca assoluto con giurisdizione immediata e universale, in grado di scavalcare qualsiasi autorità ecclesiastica locale.
In questa nuova identità il papa non avrebbe mai risposto come Leone III o come nel IV secolo degli esempi su riportati. E questo oggi lo capiamo benissimo poiché siamo al termine di una logica evoluzione, al punto che potrebbe parci strano se non fosse mai stato così.

L'Oriente cristiano ha mantenuto l'ecclesiologia antica con la sua organizzazione interecclesiastica. Il patriarcato di Costantinopoli ha rispettato questa organizzazione almeno fino al 1920. Da allora in poi ha iniziato a comportarsi come il papato al tempo di Fozio. Recentemente, con la questione ucraina, si è comportato di fatto come il papato al tempo di Pio IX (principio supermonarchico) ritenendo perfettamente inutile accordarsi con altre autorità nella Chiesa ed agendo prescindendo totalmente da loro. Certo, formalmente e a parole, dichiara di attenersi alle leggi canoniche antiche ma queste leggi non hanno assolutamente nulla che possa giustificare il suo odierno comportamento appoggiato su una volontà esclusivamente personale che prescinde da ogni altra cosa o persona. Gli stessi canoni ai quali Bartolomeo fa appello vengono decontestualizzati e stravolti (se non pervertiti) nella loro applicazione pratica.

Generalmente lungo tutto il primo millennio i  papi di Roma si attenevano pressapoco ai medesimi ordinamenti canonici del mondo ortodosso odierno o, quanto meno, al loro spirito. Poi per ragioni personali o perché spinti da ragioni politiche o di sopravvivenza, hanno creato un nuovo corso storico dando un nuovo significato alle antiche consuetudini. Il patriarcato di Costantinopoli sta facendo esattamente la stessa cosa per probabili ragioni di sopravvivenza. Sulla base della sua unica e sola autorità il patriarca costantinopolitano ha aperto un nuovo corso ecclesiologico (***).

Ciò che dunque si differenzia è l'ecclesiologia e di qui c'è la logica impossibilità di condividere un'ecclesiologia modificata da parte di chi ne mantiene e confessa un'altra ("Credo la Chiesa...", nel Simbolo).

Ben ragione ha dunque il mondo Cattolico quando ritiene che non vi sia comunione con l'Oriente anche per ragioni ecclesiologiche e ben ragione ha l'Oriente per ritenere lo stesso.

Ed ecco, ora, la domanda più interessante: possono le altre Chiese ortodosse far finta che le recenti decisioni autocratiche del patriarca Bartolomeo siano solo questione di “bisticcio” tra greci e russi? Possono far finta che non esista un problema più profondo di ordine ecclesiologico che mina profondamente la comunione tra loro? 
Attendiamo risposta, se mai verrà!
Poiché l'ecclesiologia ha inevitabili risvolti e ripercussioni dogmatiche, se tale risposta non dovesse giungere o fosse insoddisfacente, pur di tirare a sopravvivere nonostante tutto, dovrei dedurre che il medesimo relativismo dogmatico presente in Occidente è profondamente penetrato pure in Oriente ed è questo relativismo che renderà fattibile, dinnanzi ad una possibile generale indifferenza, una fantomatica unità tra le Chiese.

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(*) Ricordiamo che gli antichi concili stabiliscono per il papa romano un ruolo di prestigio unicamente perché sta a Roma, che fu la prima città imperiale. Il legame tra il papa e san Pietro (principio apostolico) è assolutamente posteriore a quello politico (principio di accomodamento) tant'è vero che in pieno IV secolo esisteva chi, come sant'Agostino, non associava assolutamente alla promessa di Cristo ("Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa") il potere del papa sulla Chiesa. Questo si generalizza e si radica solamente molto tempo dopo con il progressivo instaurarsi del principio monarchico. Se, talora anche in tempi recenti, questo principio monarchico si è fatto supportare dall'opinione dell'episcopato (vedasi il caso della proclamazione dogmatica dell'Assunzione) non è perché il papa ne abbia necessario e indispensabile bisogno (come avveniva anticamente) ma per un semplice atto di consultazione. Per la stessa ragione fondata su se stesso il papa è ex sese infallibile in certe condizioni delineate nel concilio vaticano I.
(**) Si badi bene che la stessa invenzione della "donazione di Costantino" si muoveva nella stessa ottica. Solo spacciando per vero questo documento artefatto il papato ha potuto garantirsi una certa libertà di azione dinnanzi all'aggressività dei conquistatori del tempo. Ed è dunque per consentire a se stesso di uscire da difficili situazioni che il papato "gonfia" sempre più la sua antica posizione privilegiata.
(***) Il patriarca ha varato con quest'azione eclatante quanto da tempo aveva fatto studiare per renderlo possibile. I metropoliti fanarioti Zizioulas e Lampriniadis hanno da anni studiato la situazione e proposto una specie di "papato d'Oriente" per portare Costantinopoli non solo al centro ma de facto al di sopra di tutta l'Ortodossia e farla divenire "indispensabile". Le analogie con l'Occidente sono più che evidenti.

lunedì 22 ottobre 2018

La confusione tra ciò che è essenziale e ciò che è accessorio nella Chiesa

Nei nostri tempi di montante confusione mi sembra necessario fornire gli strumenti per discernere ciò che è essenziale da ciò che è accessorio nella Chiesa. Tutto ciò non è scontato per nessuno e anche chi ci dovrebbe insegnare può, per interessi personali o perché troppo assorbito dal compito di difendere l'istituzione che rappresenta e sente minacciata, avere idee confuse o infondere la netta idea d'averle.
Ciò che è necessario nella Chiesa è quanto discende direttamente dalla rivelazione. Ad es. i sacramenti sono ritenuti essenziali, il sacerdozio è ritenuto essenziale (nell'unica funzione di santificare e insegnare ai fedeli). Le cose essenziali, dunque, derivano tutte dall'epoca apostolica e non sono mai numerose.
Ciò che è accessorio (e anche non essenziale) nella Chiesa sono le istituzioni che nel tempo si è data. L'arcipretato, l'archimandritato, il cardinalato, sono tutte cose non essenziali. Un altro esempio: l'ordinamento diocesano si plasma sulla divisione geopolitica dell'impero romano. Esso dunque può variare nel tempo. 
Gli arcivescovadi e i patriarcati (creati da una certa epoca in poi) sono emersi a partire dalle città più importanti dell'Impero romano. Se, ad esempio, la seconda città imperiale fosse stata Milano (e non Costantinopoli) oggi Milano sarebbe sede patriarcale e Costantinopoli non conterebbe nulla, forse non avrebbe più neppure quel poco di cristiano che le rimane.
La Chiesa, se non ci fossero stati i patriarcati (lasciamo per il momento da parte il patriarcato romano che ha una storia tutta sua), sarebbe comunque cresciuta; si sarebbe sviluppata con un altro ordinamento poiché, in queste cose, l'ordinamento ecclesiastico è modificabile, contingente, variabile. Non dovrebbe mai essere fisso una volta per tutte perché non è un dogma di fede e portarlo a livello di un dogma di fede significa cadere in una confusione fatale dove il creato si confonde con l'increato, l'umano con il rivelato. Tutto è utile, nulla è essenziale fuorché quant'è stato rivelato!
Oltretutto, dare un eccessivo peso all'istituzione transeunte (come tutte le cose di questo mondo) potrebbe far levare lo sguardo da quanto non viene mai meno ossia dallo scopo principale della Chiesa. Il suo compito fondamentale è cambiare gli uomini nella grazia, non fare azioni sociali, artistiche, culturali o - peggio! - incensare se stesso.
Detto ciò, copio e incollo la parte finale di un'omelia del patriarca Bartolomeo e lascio ai lettori capire se questa divisione fondamentale è qui rispettata o meno.
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«La santa Grande Chiesa di Cristo non coltiva e promuove solo i preziosi valori della tradizione ortodossa, ma influenza creativamente anche il futuro culturale. Crea e insegna l'alta civiltà della comunione e dell'amore. Il Patriarcato ecumenico ha sigillato e siglato in modo indelebile la storia dell'umanità. È anche oggi la speranza per il presente e il futuro. [... il Patriarcato è] un'istituzione che, se non ci fosse stata data dalla grazia di Dio e specialmente alla nostra nazione, sarebbe stato necessario inventare».

Omelia del 21 ottobre 2018, vedi qui.

domenica 14 ottobre 2018

La canonizzazione dei santi


Una strana icona
con un papa oggi "fatto" santo
Prima di entrare in quest'argomento faccio una premessa. In qualsiasi tempo della Chiesa, nella confusione come nella pace, alle persone ben disposte Dio non ha mai fatto mancare il suo aiuto e sperimentare la sua presenza. Infatti la Chiesa pur con ministri indegni e con cristiani poco credibili, è voluta da Dio per portare lo sguardo degli uomini oltre le contingenze terrene, laddove risiede la vera felicità. Questo significa che nessun vero credente dev'essere pessimista perché l'ultima parola non è mai parola umana.

Detto ciò, quando parliamo della canonizzazione dei santi entriamo in un argomento fondamentale. La canonizzazione non si “fa” ma si riconosce. L'autorità ecclesiastica non ha alcun potere di “fare” un santo, poiché chi “fa” i santi è Dio. L'autorità dovrebbe limitarsi a riconoscerne la santità e li propone come modello ai cristiani.
Prima che l'autorità ecclesiastica proclamasse i santi, chi li proclamava erano i fedeli, la Chiesa nella sua totalità. Ambrogio di Milano, Ireneo di Lione, Benedetto da Norcia, giusto per fare qualche nome, non hanno avuto alcuna autorità ecclesiastica che li riconoscesse. L'insieme dei fedeli li riteneva santi grazie ad un “fiuto” per le cose soprannaturali che viene dato al battezzato.
Il battezzato, in chi è attivo questo “fiuto”, sente subito se uno è un “contenitore di grazia” o meno, per il semplice fatto che avverte la presenza di tale grazia.
Faccio un esempio.
Un giorno, a Patmos, una persona entrò in un monastero femminile, fondato a suo tempo da un padre spirituale di gran cuore. Tale persona non conosceva nulla di quest'uomo se non che aveva fondato il monastero. Quando entrò nel monastero sentì un'atmosfera particolare che, man mano che si avvicinava ad una stanza, aumentava. Sulla soglia di quella stanza, nella quale non c'era alcuno, sentì nell'aria una presenza molto forte. Entrò e sulla sua sinistra vide la reliquia del cranio del padre spirituale fondatore.
Ecco, la grazia è una realtà sperimentale: o esiste o non esiste. Laddove esiste si fa sentire a chi ne ha “naso” ma laddove non esiste non si può crearla perché non ci appartiene, essendo una realtà oltre questa terra.
Detto ciò, i santi veri hanno tutti questa grazia, questa forza particolare che li fa essere sicuri, sereni, forti, pur dinnanzi a mille tribolazioni. La presenza di questa forza è l'unica cosa che spinge alcuni ad abbandonare tutto, ad affrontare serenamente la morte. La presenza di questa forza sosteneva i martiri e dava loro serenità.

Ora, devo dirlo chiaramente e mi spiace per chi non è d'accordo con me: non pochi santi che si stanno “facendo” ultimamente a Roma sono degli pseudo-santi. Mi spiego meglio: eticamente potranno anche essere persone rette, avranno pure insegnato bene, avranno forse anche un loro eroismo, ma non mi hanno mai minimamente dato alcuna sensazione di soprannaturalità.
Anni fa incontrai personalmente la nota Teresa di Calcutta. Le appoggiai la mano sulla schiena curva, la ascoltai parlare, ma non mi dette nulla di particolare se non la sensazione d'essere davanti ad una “buona vecchietta”. Ma una santa non è una “buona vecchietta”, è qualcosa di molto più, quel molto più che solo chi lo ha intravvisto lo capisce. Potrei dire la stessa cosa di Giovanni Paolo II che, ovviamente, per me non è santo.

Costoro e altri loro simili sono “santi etici”, ossia persone umanamente buone, quand'anche non siano dei “santi politici”, come nel caso della recente canonizzazione di Paolo VI. Sono fermamente convinto che santi come Paolo VI non siano santi veri. Può essere che Dio li abbia con sé in gloria, come potrebbe essere nel caso dei miei genitori ma ciò non deve per nulla significare che siano detti santi con tutto ciò che questo poi comporta.
La santità non è affare dei preti o delle autorità ecclesiastiche. È prima di tutto affare dei credenti che riconoscono o meno in una persona dei tratti che non sono terreni. Nel caso di Paolo VI siamo dinnanzi ad una persona psicologicamente sofferente, torturata dalle sue stesse paure, come testimoniava il card. Siri il quale, pur rispettandolo, non ne aveva simpatia. Papa Montini era talmente torturato da rimanere profondamente ferito quando, leggendo il giornale, vedeva commenti contro di lui. Dov'è, qui, la santa “indifferenza” all'opinione del mondo, quell'indifferenza che, tanto per dirne una, viene insegnata dai padri del deserto?
Fare santi gente così significa prendere in giro gli inconsapevoli credenti!

Se la santità non è più il cambiamento di un cuore per la grazia divina vivente, cambiamento che fa di se stessi la “roccia di pietro”, ma una pura questione di virtù umane; se è una pura questione etica, se poi diviene addirittura una questione politica, allora si possono fare santi anche quanti, diverso tempo fa, non lo sarebbero assolutamente stati.
E non mi si venga a parlare di eventuali miracoli, perché eventi soprannaturali di tal genere esistevano pure nelle religioni pagane. Il miracolo in sé non significa molto, tant'è che tempo fa lo testimoniò pure una signora guarita dal cancro da... Sai Baba! Il miracolo bisogna associarlo ad una reale santità di vita e ad una fede integerrima.

La posta in gioco non è piccola perché quelle autorità che “fanno” santi quanti di fatto non lo sono stati, finisce per impiantare nella Chiesa un'anti-Chiesa dinnanzi all'indifferenza passiva di fedeli sempre più confusi e disorientati.

venerdì 3 agosto 2018

Individualismo contro Tradizione


Quando si esaminano le dinamiche religiose nell'Occidente cristiano, non ci si può esimere dal considerare tutti i cambiamenti culturali avvenuti in esso, cambiamenti che, in un modo o in un altro, hanno finito per condizionare la fede.

Non è, dunque, un inutile sforzo quello di esaminare il contesto che circonda il Cristianesimo perché non di rado la stessa catechesi cristiana lungo i tempi ha dovuto adattarsi a uomini diversi per sensibilità e cultura.

Nel volgere dell'ultimo secolo certi fenomeni si sono enormemente accelerati. Non mi riferisco solo alle scoperte scientifiche e tecnologiche, al modo di vestire, alle convenzioni sociali... Penso, più generalmente, all'emergere prepotente dell'individualismo, ossia all'affermazione individuale della persona. Se in una società tradizionale di un tempo un uomo aveva senso tanto in quanto era legato da vincoli di sangue, di etnia e di religione ad un gruppo ben preciso o a una grande famiglia, oggi un uomo si sente realizzato quando sente di essere “se stesso”, ossia quando è sciolto da quei vincoli che, al contrario, nel passato erano parte costitutiva e irrinunciabile della sua identità. In tal modo, la sua felicità non consiste nel giungere anche al sacrificio pur di contribuire alla felicità del gruppo nel quale si identifica, ma a svincolarsi da quel gruppo appena gli viene chiesto un suo contributo in termini di tempo, denaro e fatica.
Il divorzio della coppia, evento oramai rapidamente praticabile anche per motivi leggeri, rappresenta la concreta manifestazione di quanto sto dicendo.
Se l'individuo è più importante della coppia, di una grande famiglia o di un gruppo sociale, ad egual ragione è più importante di qualsiasi autorità poiché diviene, de facto, autorità per se stesso.

I legami che un uomo individualista può avere verso la società sono allora caratterizzati dal semplice vantaggio personale. Tutto è filtrato da questo individualismo che non lascia spazio per altre possibilità.

Se questo modo di vivere entra nella Chiesa o prima o poi ci saranno degli sconquassi. L'antica Tradizione cristiana non si è stabilita per dei semplici vantaggi individualistici, dal momento che richiede la spoliazione dell'uomo vecchio e la conformazione a Cristo. Conformarsi a Cristo non significa solo farsi lavorare dalla grazia, ossia dalla sua forza redentiva, ma seguirne gli insegnamenti poiché Egli è il Maestro, l'Autorità per eccellenza.

La mens cristiana faceva sì che nell'epoca medioevale l'artista potesse non firmasse le sue opere, che al più erano catalogate in una scuola, in uno stile. Non ne sentiva il bisogno perché non esisteva la mentalità odierna. La stessa teologia medioevale latina, per quanto fosse insegnata da maestri particolari, ritenuti affidabili e stimabili, si credeva aderente più possibile alle auctoritates e, se introduceva delle novità di metodo, aveva somma cura di motivarle in modo tale da renderle il più possibile in continuità con il passato.

Nella teologia bizantina c'era la stessa mentalità: Gregorio Palamas, che sembrava avesse introdotto delle novità, si difese lungamente appellandosi alla tradizione antica e alle autorità ascetiche di cui si sentiva autentico prosecutore. Pure i suoi accusatori si appellavano alle antiche autorità, non ad una migliore e originale loro comprensione.

Rispetto a quel tempo, attualmente si da un profondo valore alla coscienza individuale, una grande enfasi alla singola persona e all'originalità che essa può proporre. Il bisogno individuale diviene, dunque, legge.

Se la regola benedettina esorta il discepolo ad ascoltare “i precetti di tuo padre”, un possibile discepolo attuale rifiuterà sempre più l'educazione che, per lui, sarà equivocata come un'umiliazione alla sua spontaneità e alla sua voglia di vivere. Il “clero fai da te” che ci circonda sembra sia un chiaro segnale di tutto ciò e la fatica improba degli insegnanti nelle scuole ce lo testifica chiaramente.

La Chiesa, che lo voglia o no, eredita ancora ampiamente l'impostazione antica, quella delle auctoritates per intenderci, e la ritroviamo negli insegnamenti del passato e nella sua storia. La stessa Tradizione ha il suo valore proprio perché la si fa risalire a Cristo Maestro. Tutti gli insegnamenti che derivano dalla Tradizione e la formazione del culto cristiano trovano la loro autorevolezza perché sono stati composti da chi ha carismaticamente praticato e ben capito l'insegnamento di Cristo Maestro fino ad incarnarlo. Qui l'individualismo e le ragioni puramente umane non trovano spazio alcuno.

La Chiesa può mantenere quest'impostazione antica fintanto che in essa esiste una formazione reale, efficace e carismatica (in senso evangelico) dei suoi membri o, almeno, dei suoi membri più rappresentativi. Questo non significa che il clero, ad esempio, non debba sapere in che mondo vive ma che non deve assolutamente assumerne la mentalità.
Nel momento in cui ciò disgraziatamente avviene, nella Chiesa si stabilisce una vera e propria rivoluzione.

Recentemente Bergoglio ha manifestato il desiderio di cambiare l'insegnamento catechetico sulla pena di morte ritenendo quest'ultima sempre e comunque inammissibile. Viceversa, la tradizione cristiana sia in Oriente che in Occidente l'ha ritenuta possibile in determinati estremi casi.
Quello che in questo fatto si deve cogliere non è tanto il favore o meno alla pena di morte, la ragione o meno di Bergoglio, quanto il suo bisogno di affermare una decisione individuale (che, dati i tempi, trova pure ampio consenso altrui) contro una decisione tradizionale mantenuta dalle auctoritates (non ultima quella di san Paolo in Rom 13,4).

Qualcosa del genere si è visto nell'inserimento del nome di san Giuseppe nel Canone Romano da parte di papa Roncalli. Essendo costui personalmente devoto allo sposo della Madonna, decise di inserirne il nome nell'anafora romana. Fino a quel momento era impensabile che una persona, fosse pure un papa, potesse mettere mano all'anafora per un bisogno personale. Ciononostante, l'evento fu rapidamente giustificato ma non ci si avvide che rappresentava simbolicamente la crepa di una diga. Infatti quello che poi successe convalida quest'interpretazione ed è oramai storia: i più coraggiosi liturgisti cattolici presero iniziative sempre più ardite e trasformarono, non di rado stravolgendo, la liturgia stessa fino ad allora intangibile. Che lo facessero con “buone e studiate intenzioni” non toglie nulla al fatto che siamo dinnanzi a bisogni individuali che si contrappongono ad una stabile e immutabile Tradizione.

Gli stravolgimenti della teologia, della liturgia e dell'ethos ecclesiastico trovano la loro autentica radice nell'individualismo che, dunque, si pone agli antipodi della Tradizione e dell'obbedienza che normalmente le si tributava.

Non è difficile immaginare che, una volta introdotta la suddetta correzione nell'insegnamento catechetico, avvengano altri ritocchi per altri insegnamenti troppo lontani dalla mentalità individualistica secolare, perché ancora troppo legati ai dettami della rivelazione.

Anche qui, presi da considerazioni molto individualistiche e umane, non ci si avvederà che la meta finale di tale mentalità potrà scivolare nel radicarsi dello snaturamento della Chiesa, nella rottura della successione apostolica e nell'invalidamento di ogni sua forma sacramentale. In breve: nella fine secolare della Chiesa in quanto istituzione globale e nella sua sopravvivenza in sparuti e dispersi gruppi.

mercoledì 25 luglio 2018

L'eresia liturgica

L'altare maggiore della basilica di san Marco a Venezia, esempio di altare tradizionale latino

In questo blog mi sono concentrato sulla tradizione liturgica indicando per tradizione le basi fondamentali sulle quali si fondano tutte le liturgie cristiane antiche. 

Queste basi sono imprescindibili ancora oggi perché sono il “lessico elementare” attraverso il quale si comunica la trascendenza del culto, non a caso definito in Oriente “culto divino”.

Essendo imprescindibili, tali basi sono di fatto intangibili: nessuno può pensare di cambiarle, esattamente come nessun matematico può pensare, da un certo momento in poi, che 1+1 fa 3. 

Se il culto divino è trasmesso intatto, almeno nelle sue linee fondamentali, è in grado di trasmettere una sensazione trascendente, che definiamo comunemente come “sacra”. Il sacro, nella liturgia, non è un retaggio pagano da abolire, come si dice comunemente tra alcuni liturgisti e biblisti cattolici (influenzati in questo da una certa riflessione protestante), ma un elemento necessario e primordiale alla liturgia stessa. 

Perciò la liturgia è sostanzialmente un insieme di azioni ripetitive, ieratiche, composte, di espressioni solenni, di canti lontani dalle mode secolari. 

Per questo la liturgia si attua in luoghi appositamente dedicati e consacrati, quali sono le chiese. Nelle chiese il luogo più sacro per eccellenza è l’altare perché simboleggia Cristo. E poiché Cristo significa l’ “unto di Dio”, l’altare viene consacrato con l’unzione del sacro crisma e in esso sono deposte le reliquie dei martiri che confessarono la retta fede cristiana. La stessa pietra con cui è fatto l’altare rimanda alla pietra della retta fede in Cristo (vedi Mt 16, 18), pietra apostolica che fa una sola cosa con le reliquie dei martiri. 

Non a caso qualche liturgista cattolico nel periodo preconciliare scriveva che l’altare è un luogo così eccellente che su di esso, al di fuori della celebrazione, non dovrebbe essere lasciato nulla, per mostrare a tutti che è l’ara del sacrificio cristiano, il rimando simbolico a Cristo stesso, ragion per cui il celebrante lo bacia e, in Oriente, solo una persona ordinata può passargli davanti. 

È, viceversa, molto deprimente dover osservare che tali ovvietà, che dovrebbero essere insegnate al clero cattolico, paiono essere completamente assenti. Così quando è persa completamente la simbologia liturgica, quando la trascendenza del culto cristiano non è più creduta e quando si ha bandito dalla Chiesa il significato rettamente inteso della parola “sacro”, ogni assurdità è possibile. 

Cristo e anti (ossia ciò che sta davanti o che si oppone a) Cristo.


Non sono passati molti giorni, dacché le cronache riportavano un fatto dissacrante accaduto in Versilia, precisamente nella chiesa di Serravezza. Nella pieve di san Martino ad Azzano (Lucca) un artista, con il permesso del parroco, ha esposto su un altare un’opera artistica che ritrae il busto di due uomini che si baciano (vedi qui). 

Tralascio di commentare la scultura stessa, poiché è stato ampiamente fatto nel web. Quello che mi preme osservare è il permesso tranquillamente dato dal parroco, tale don Hermes Luppi, per il quale è necessaria accoglienza e tolleranza. Il consacrato, entusiasta di questa scultura in chiesa (vedi qui), fa presumere un pensiero ampiamente diffuso nel mondo cattolico: siccome questa scultura (o altre simili) rappresenta un atto d’amore, allora può benissimo stare in chiesa, esposta su un altare, visto che i cristiani confessano un Dio d’amore. 

Questo tipo di pensiero è eretico, nel senso che l’amore divino, che la Chiesa deve testimoniare, non è un amore umano ma un amore totalmente trascendente, per quanto possibile in certi momenti e con certi presupposti perfino agli uomini stessi (*)

Quindi il pensiero non confessato, che assai probabilmente ha mosso questo parroco, è perfettamente ariano, se così si può dire, ossia finisce per vedere in Dio (e quindi in Cristo) attributi puramente umani. 

Questo spiega perché sull’altare, che rappresenta simbolicamente Cristo, è stata deposta tale scultura che rappresenta tutt’altro che Cristo. 

L’amore umano - ammesso e non concesso che la scultura lo rappresenti e non rinvii invece ad un puro libertinismo come di fatto oggi avviene - per quanto cosa nobile non è minimamente accostabile all’amore divino (**)

Se questo fosse chiaro, e non lo è per nulla, basterebbe per evitare simili accadimenti. Invece, dal momento che avvengono, dobbiamo dedurre che in quei luoghi non si confessa affatto la fede antica in Cristo ma qualcosa che sicuramente non c’entra con essa e che di fatto l'ha sostituita. E quando le cose stanno così, è evidente che qualsiasi realtà religiosa che lo mostra non è certamente la Chiesa voluta da Cristo. 

Chi vuole capire capisca e ne tragga le logiche conseguenze.

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(*) Non sto qui a ricordare i molti trattati ascetici che ricordano questo punto, principalmente in Oriente, ma anche in Occidente se si tiene ad esempio conto degli scritti dei fondatori dell'ordine dei Carmelitani Scalzi. Quello che invece fa pensare è che tale punto non è affatto preso in seria considerazione in molta produzione teologico-sistematica occidentale, come se il pensiero e la prassi fossero cose sempre e necessariamente diverse. Ciò ha inevitabilmente finito per far scivolare la teologia in un puro umanesimo orizzontale, come ci è dato vedere oggi.

(**) Il lettore ponga attenzione a quest'osservazione che, di fatto, esprime la lontananza della teologia basso medioevale latina da quella bizantina. Per la prima, esiste un'analogia tra le realtà divine e quelle create per cui, in un certo senso, l'amore umano può rimandare a quello divino. La seconda, viceversa, rifiuta categoricamente ogni analogia tra la realtà increata (Dio e le sue caratteristiche) e la realtà creata (il creato, l'uomo e le sue caratteristiche) sottolineando la completa estraneità dell'una riguardo all'altra ma ammettendo la possibilità, per l'uomo, di vivere già qui qualcosa delle caratteristiche divine nella grazia che Cristo ha concesso alla Chiesa. L'analogia che, in Occidente, ha dominato la riflessione teologica ha oggi portato, certamente senza volerlo, ad una vera e propria sovrapposizione e sostituzione: il divino è di fatto assorbito nel solo umano, l'amore puramente umano diviene tout-court espressione del divino e porta alla totale eclissi del secondo. I presupposti teologici dell'Oriente, al contrario, impediscono radicalmente questo cortocircuito, nonostante per ignoranza o pura emulazione possano sporadicamente esistere fenomeni in parte apparentemente simili.
Così, dietro ad una scelta o una prassi, c'è sempre un pensiero, implicito o esplicito che sia, e le scelte operate da una teologia, per quanto possano sembrare astratte, hanno sempre, o prima o poi, delle pesanti ricadute pratiche che, all'inizio, possono anche non essere state intravviste o volute. D'altronde, chi costruisce una casa su un piano inclinato (magari perché obbligato a farlo) non vorrà mai che essa crolli ma è legge fisica che questo, presto o tardi, avvenga. Lo stesso si deve dire del pensiero cristiano, o della teologia che dir si voglia.

domenica 17 giugno 2018

Recensione: Guillaume Cuchet, Come il nostro mondo ha cessato d'essere cristiano. Anatomia di un collasso.


Guillaume Cuchet, Come il nostro mondo ha cessato d'essere cristiano. Anatomia di un collasso, Editions du Seuil, Parigi, 2018, 276 pp.

Molti autori hanno constatato, per mezzo secolo, il drastico calo del Cattolicesimo in Francia e, più ampiamente, in Europa e se ne sono preoccupati: Louis Bouyer in La decomposizione del Cattolicesimo (1968), Serge Bonnet, Gli scopi trasversali. Gli avatar del clericalismo della Quinta Repubblica (1973), Michel de Certeau e Jean-Marie Domenach, Il Cristianesimo deflagrato (1974), Paul Vigneron, Una storia contemporanea della crisi del clero francese (1976), Jean Delumeau, Il Cristianesimo sta per morire? (1977), Emile Poulat, L'era post-cristiana (1994), Mons. Simon, Verso una Francia pagana? (1999), Denis Pelletier, La crisi cattolica (2002), Daniele Hervieu-Léger, Cattolicesimo: la fine di un mondo (2003), Yves-Marie Hilaire, Le Chiese scompariranno? (2004), Denis Pelletier, La crisi cattolica. La religione, la società, la politica in Francia (1965-1978) (2005), Emmanuel Todd e Hervé Le Bras, Il mistero francese (2013), Yvon Tranvouez, La decomposizione della cristianità occidentale (2013).

In questo libro – che rovescia il titolo del libro di Paul Veyne, Quando il nostro mondo è diventato cristiano, per indicare l'inversione del processo di cui sono stati analizzati gli inizi – William Cuchet, docente di storia contemporanea presso l'Università di Parigi-Créteil, specializzato in storia del Cattolicesimo, propone di definire il momento in cui è iniziata tale decadenza e di determinarne le ragioni. Uno dei principali strumenti scientifici usati è l'analisi statistica. Uno dei criteri oggettivi da lui considerati è il tasso di pratica regolare domenicale nella popolazione francese, dal 27% nel 1952 all'1,8% nel 2017. Questo criterio può essere messo in discussione perché, secondo un articolo recente de La Croix, si può essere cattolici “praticanti” con altri impegni, ed è vero che in assenza di una tale pratica domenicale una cultura cristiana può durare un po', ma la perdita di contatto con la la vita liturgica può solo indebolirla gradualmente e portare alla sua scomparsa.

Il primo terzo del libro definisce l'adesione al Cattolicesimo quale emerge da una massa di dati statistici elaborati dal clero tra il 1945 e il 1965 e, in particolare, le statistiche accuratamente e regolarmente stabilite in un periodo più lungo (1880-1965) dal canonico Boulard, sociologo e autore di quattro volumi di materiali per la storia religiosa del popolo francese, XIX-XX secolo.
Secondo G. Cuchet, è negli anni '60, più precisamente nel 1965, che può essere datata la rottura che ha inaugurato il processo di decadenza del cattolicesimo in Francia. Tale rottura coincide con il Concilio Vaticano II, il che è paradossale, perché questo Concilio è stato progettato, da chi lo ha organizzato, come un aggiornamento per vivificare il Cattolicesimo davanti al mondo moderno. Ma, sottolinea l'autore che ha esaminato varie ipotesi, «non vediamo quale altro evento possa aver generato una simile reazione. Con la sua semplice esistenza, nella misura in cui improvvisamente ha reso possibile la riforma delle vecchie norme, il Concilio è stato sufficiente a scuoterle, soprattutto perché la riforma liturgica che riguardava la parte più visibile della religione per un gran numero, ha iniziato ad applicarsi già nel 1964».
Nella seconda metà del suo libro, l'autore analizza in modo preciso le cause, legate al Concilio, della rottura e del processo di decadenza che, a livello globale, continua ancora oggi.
Il Concilio ha causato una perdita di riferimento tra i fedeli. Il testo conciliare Dignitatis humanae, pubblicato nel 1965, sulla libertà religiosa, appariva «come una specie d'autorizzazione non ufficiale a fare affidamento al proprio giudizio per quanto riguarda il credo, il comportamento e la pratica, che contrastava fortemente con la situazione precedente». Ciò ha suscitato la triste osservazione di padre Louis Bouyer: «Ciascuno non crede più, si limita a praticare quanto lo riguarda».
Nel campo della pietà, osserva Cuchet, aspetti della riforma liturgica che potrebbero apparire secondari, ma che non lo erano affatto sul piano psicologico e antropologico, come l'abbandono del latino, la comunione nella mano, la relativizzazione degli antichi obblighi, hanno svolto un ruolo importante. Lo stesso per quanto riguarda le critiche alla comunione solenne, moltiplicate dal 1960 e in particolare dal 1965, la nuova pastorale del battesimo (dal 1966) e del matrimonio (nel 1969-1970), che tendevano ad aumentare il livello di accesso ai sacramenti richiedendo ai candidati più preparazione e impegni personali.

Nel campo delle credenze, è il fatto stesso della variazione del discorso ad aver contato. La variazione dell'insegnamento ufficiale rendeva scettici gli umili i quali deducevano che, se l'istituzione ieri aveva ingannato” dando per immutabile ciò che era cessato di esserlo, non si poteva aver l'assicurazione che non lo sarebbe stato nel futuro. Un'intera serie di antiche “verità” sono improvvisamente cadute nel dimenticatoio, come se il clero stesso avesse smesso di crederci o non sapesse cosa dirvi al riguardo, dopo averne parlato e ritenute per così tanto tempo essenziali.

Un altro ambito in cui la congiuntura ha destabilizzato i fedeli, nota l'autore, è quello dell'immagine della Chiesa, della sua struttura gerarchica e del sacerdozio. «La “crisi cattolica” degli anni 1965-1978 fu inizialmente una crisi del clero e dei praticanti cattolici. L'abbandono della tonaca (dal 1962) e dell'abito religioso, la politicizzazione (a sinistra) del clero, l'abbandono di sacerdoti, religiosi e suore, appariva a molti come un vero “tradimento dei chierici”, senza precedenti dopo la “spretizzazione” della Rivoluzione, che ha avuto gli stessi effetti destabilizzanti”»

D'altra parte, «il Concilio ha aperto la strada a quella che potrebbe essere definita un'uscita collettiva dalla pratica obbligatoria sotto pena di peccato mortale, che occupava un posto centrale nell'antico cattolicesimo. [...] Quest'antica cultura della pratica obbligatoria si esprimeva principalmente nell'area dei “comandamenti della Chiesa” che i bambini imparavano a memoria al catechismo e di cui si doveva verificarne il rispetto durante l'esame di coscienza preparatorio alla confessione», e che includeva il dovere di santificare le domeniche e le feste, di confessare i peccati e di comunicarsi almeno una volta all'anno, di digiunare il venerdì, in occasione di grandi feste e nei cosiddetti periodi quaresimali detti delle “Quattro Tempora”. Tutte queste esigenze sono state ammorbidite, al punto da scomparire, eccetto la comunione che è divenuta sistematica e fatta senz'alcuna preparazione, dal momento che la confessione e il digiuno sono praticamente scomparsi. L'ammorbidimento del digiuno eucaristico fu, tuttavia, compiuto in varie fasi preliminari: nel 1953, Pio XII decise, pur mantenendo l'obbligo del digiuno dalla mezzanotte prima della comunione, che l'assunzione dell'acqua non l'avrebbe più spezzato; nel 1957, il motu proprio Sacram communionem ridusse il digiuno a tre ore per il cibo solido e a un'ora per il liquido; nel 1964, Paolo VI decretò che sarebbe stata sufficiente un'ora in entrambi i casi, il che significa concretamente la scomparsa del digiuno eucaristico, poiché un'ora è il tempo impiegato per recarsi in chiesa e per la parte di messa prima della comunione.

Durante questo periodo conciliare e post-conciliare, «è sorprendente – osserva l'autore –, vedere quanto il clero abbia volontariamente rimosso il vecchio sistema di norme su cui aveva tanto penato per porlo in atto». Creando inevitabilmente nelle persone la sensazione di “aver cambiato la loro religione” e di provocare, in una parte, un'impressione di relativismo generalizzato.
L'autore dedica due interi capitoli alle cause della decadenza che gli sembrano fondamentali: la crisi del sacramento della penitenza e la crisi della predicazione degli ultimi fini.

1) Secondo G. Cuchet, «La crisi della confessione è uno degli aspetti più rivelatori e sorprendenti della “crisi cattolica” degli anni 1965-1978». «La desuetudine della confessione è di per sé un importante fatto sociologico e spirituale che gli storici e i sociologi probabilmente non hanno preso pienamente in considerazione. Niente di meno, in effetti, rispetto alla travolgente trasformazione del massiccio abbandono, nel giro di pochi anni, di una pratica che ha plasmato profondamente le mentalità cattoliche nel lungo periodo. Nel 1952, il 51% degli adulti cattolici dichiarava di confessarsi almeno una volta all'anno (a Pasqua com'era stato reso obbligatorio dal canone 21 del Concilio Lateranense IV del 1215); nel 1974 erano solo il 29% e nel 1983 il 14%. Secondo l'autore, il punto di rottura è intorno al 1965-1966, quando la confessione ha cessato d'essere presentata come il “sacramento della penitenza” ed è stata presentata come “sacramento della riconciliazione”. Questo fenomeno andava di pari passo a:

- la fine della “pratica obbligatoria” già menzionata, e ad una depenalizzazione dell'astensione della pratica religiosa, considerata in precedenza come un peccato perché in contrasto con i comandamenti della Chiesa presentati come doveri assoluti a cui ci si doveva sottomettere;

- alla perdita del senso del peccato nella coscienza di molti fedeli, ma anche tra il clero che ora temeva di evocare tale nozione, come quella sugli ultimi fini. L'autore osserva a tal riguardo: «Il clero ha cessato bruscamente di parlare di tutti questi argomenti delicati, come se avessero smesso di crederci, mentre allo stesso tempo trionfava nei loro discorsi una visione di Dio di tipo russoviano: il “Dio Amore” (e non più solo “d'amore”) degli anni 1960-1970. I sacerdoti hanno asfaltato la strada per il cielo, sintetizzava nei primi anni '70, un'anziana contadina bretone in un'intervista con il sociologo Fanch Élégoët. Una volta stretta e ripida, era ora un'autostrada praticata da quasi tutti. Recante dove, se non c'era più alcun peccato o inferno, neppure qualche peccato grave che avrebbe potuto privare del paradiso. L'utilità della confessione, nella sua definizione tradizionale, fu in realtà sempre meno evidente»;

- ad una disconnessione tra confessione e comunione. «Nel vecchio sistema, ci si confessava più di quanto ci si comunicava e la confessione era principalmente sentita come una sorta di purificazione rituale che condiziona l'accesso all'Eucaristia». Lo sviluppo della comunione frequente, accompagnata dalla perdita del senso del peccato, e dall'idea di alcuni membri del clero, influenzata dalla psicoanalisi, secondo la quale si doveva decolpevolizzare i fedeli e “liberarli dal confessionale”, ha avuto come effetto che i fedeli erano ora invitati alla comunione senza doversi confessare. La comunione si è così banalizzata, mentre la stessa opportunità di confessarsi praticamente non esisteva più. Le regolari confessioni individuali, furono sostituite dal 1974 da “celebrazioni penitenziali” celebrate una volta all'anno prima di Pasqua; in questi incontri, i fedeli non confessavano più nulla (l'autore li chiama “forme di penitenza senza confessione”) ma ricevevano un'assoluzione collettiva dopo aver ascoltato un vago discorso in cui la nozione di peccato veniva sempre più spesso raggirata. E quando la possibilità di confessarsi rimase in alcune parrocchie o più tardi fu ripristinata, “i fedeli non sapevano molto bene come confessarsi, o anche se fosse ancora utile farlo”.

2) L'ultimo capitolo è dedicato a una causa di decadenza che sembra ugualmente fondamentale all'autore: la crisi della predicazione degli “ultimi fini”; l'autore si chiede, nel titolo del capitolo, se ciò non significa in altri termini “la fine della salvezza”. L'autore nota che negli antichi catechismi e trattati teologici, un luogo importante era dato alla morte, al giudizio, e alle due destinazioni finali dell'Al di là, l'inferno e il paradiso. Preoccupati, già nel dicembre 1966, di vederli scomparire dall'insegnamento e dalla predicazione, i vescovi della Francia notarono: «Il peccato originale [...], così come gli ultimi fini e il Giudizio, sono punti della dottrina cattolica direttamente collegati alla salvezza in Gesù Cristo e la cui presentazione ai fedeli si rende davvero difficile per molti sacerdoti incaricati d'insegnarli. Non sappiamo come parlarne». Poco prima, il Cardinale Ottaviani, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, aveva notato che il peccato originale era quasi completamente scomparso dall'attuale predicazione. G. Cuchet sottolinea che non era solo un problema di presentazione del dogma, di ordine pastorale e pedagogico, ma che «in realtà, era davvero un problema di fede e di dottrina e un disagio condiviso tra clero e fedeli. Tutto accadde come se, all'improvviso, alla fine di un'intera opera di preparazione clandestina, parti intere dell'antica dottrina considerate finora essenziali, come il giudizio, l'inferno, il purgatorio, il diavolo, erano diventate incredibili per i fedeli e impensabili per i teologi». L'autore situa questa crisi (sebbene abbia avuto alcune avvisaglie di essa qualche tempo prima) negli anni '60, così come la crisi della confessione, osservando la sua stretta relazione con essa: «Il crollo della pratica della confessione segue una cronologia identica, in particolare la quasi sparizione in pochi anni, o anche pochi mesi, del gruppo una volta così consistente di quelli che si confessavano spesso. Il rapporto è diretto, se non esclusivo, con la cancellazione della nozione di peccato mortale (nel senso di un peccato degno di dannazione). Ma aveva anche implicazioni con altri sacramenti legati agli “ultimi fini”. Nel nuovo rito del battesimo, gli esorcismi sono stati significativamente ridotti (perché non sembra opportuno sottolineare il ruolo di Satana, al quale una parte del clero non crede più e che sembrano appartenere a una mitologia da cui bisogna liberare quei fedeli giudicati ingenui); e c'era pure una chiara censura al peccato originale, da cui [il battesimo] era incaricato di liberare per assicurare la vita eterna».
Per quanto riguarda sempre il battesimo, un'altra riforma provocava la disaffezione di molti fedeli dal dicembre del 1965, «una nuova pastorale del battesimo dove, se la prima preoccupazione fino a quel momento fu quella di battezzare i bambini il più presto possibile, qui, al contrario, si tende a ritardare la scadenza, in modo da coinvolgere maggiormente i genitori nella preparazione. Va aggiunto che un certo numero di religiosi scoraggiavano il battesimo dei bambini, con il pretesto che dev'essere un atto libero, volontario e pienamente cosciente, e sostenevano di aspettare a proporlo fino al momento dell'adolescenza.
Lo stesso concetto di condizioni per la salvezza è stato modificato da tutti questi fattori. «La vecchia ecclesiologia concentrica, con i suoi cerchi di probabilità decrescente di salvezza, non era affatto appropriata. Il Vaticano II è stato, da questo punto di vista, il teatro di una sorta di “notte del 4 agosto” dell'Aldilà che ha posto fine ai privilegi dei cattolici riguardo la salvezza. Ora, la Chiesa era concepibile più come uno strumento di salvezza per tutti, senza discriminazione o privilegio, anche se i fedeli abituati finora ad una teologia molto diversa rischiavano adesso di trovarsi un poco destabilizzati e d'interrogarsi, in queste condizioni, sui reali benefici della loro affiliazione».

Avvicinandosi alla sua conclusione, l'autore sottolinea pure gli effetti disastrosi della crisi degli anni '60 sulla coscienza dogmatica dei fedeli che, in qualche modo, è stata protestantizzata: «La consacrazione della libertà di coscienza da parte del Concilio è stata spesso interpretata nella Chiesa, inaspettatamente all'inizio, come una nuova libertà della coscienza cattolica, che l'autorizzava implicitamente a fare strame di dogmi e di pratiche obbligatorie. La nozione stessa di dogma (come credenza obbligatoria in coscienza) divenne quindi problematica. Quest'importante decisione del Concilio, assieme con il concetto di “gerarchia” delle verità, sembra aver funzionato nelle menti di molti come una sorta di depenalizzazione formale per il “credente fai da te” che contrastava fortemente con la situazione precedente, in cui le verità della fede dovevano essere prese in blocco e senza diritto d'inventario. C'era da aspettarsi che la più spiacevole tra loro, o la più contraria all'intuizione del senso comune, avrebbe pagato un prezzo come poi si è verificato».

Quali siano i fattori esterni che possono aver determinato il crollo del Cattolicesimo (mentalità moderna, pressione sociale, ecc.), i fattori interni sembrano determinanti, secondo l'autore di questo libro.
Lo stesso Cattolicesimo ha una pesante responsabilità nella scristianizzazione della Francia (e più in generale dell'Europa, perché un'analisi fatta negli altri paesi porta a conclusioni identiche). L'aggiornamento realizzato dal Concilio Vaticano II, che ha proposto di affrontare le sfide del mondo moderno, non ha fatto altro che adattarsi ad esso. Pensando di attirarlo, ha iniziato a seguirlo. Volendo essere ascoltato nel suo secolo, il Cattolicesimo si è secolarizzato. Temendo di affermare la propria identità si è relativizzato al punto che molti fedeli non trovano in lui i segni a cui erano abituati o che si aspettavano e non trovano più alcun interesse a cercare in esso quanto il mondo offre già loro in modo meno tortuoso.
La autorità cattoliche cercano di minimizzare il crollo descritto nel libro con vari argomenti (un gran numero di francesi rimangono cattolici e fanno battezzare i loro bambini; la pratica religiosa si misura con altri impegni rispetto all'assistenza alla messa, la quantità è stata rimpiazzata dalla qualità, ecc.). Ma tali argomenti stentano a convincere. Giovanni Paolo II è stato spesso presentato come colui che ha raddrizzato gli eccessi seguiti al Concilio Vaticano II, ma si deve ricordare che la pratica domenicale è scesa in Francia dal 14%, al momento della sua elezione, al 5% al momento della sua morte nel 2005. Se è vero che le comunità viventi nelle città possono illudere, (come potevano illudere le poche chiese aperte sotto il periodo comunista nei paesi dell'Est, sovraffollate a causa della chiusura di altre), così come lo spettacolare raduno dei giovani della JMJ, la campagna francese mostra la realtà di una desertificazione drammatica: moltiplicazione delle chiese in disuso (vale a dire non più usate concretamente come luogo di culto), con sacerdoti incaricati di 20 o anche 30 parrocchie, i quali celebrano ogni domenica una messa “regionale” ad un piccolo gruppo di fedeli per lo più anziani venuti, a volte, da diverse decine di chilometri, scomparsa delle sepolture celebrate dai sacerdoti per mancanza di celebranti, assenza di contatto tra sacerdoti e fedeli a causa della reciproca distanza e dell'indisponibilità del primo, più occupato dagli incontri che dalle visite pastorali ...

La triste evoluzione della Chiesa cattolica postconciliare descritta nel libro di G. Cuchet dovrebbe servire da monito per i prelati ortodossi che hanno sognato e continuano a sognare di chiedere alla Chiesa ortodossa un “grande concilio” simile a quello con cui la Chiesa cattolica ha voluto fare il suo aggiornamento, ma che ha avuto come effetto principale di provocare la sua disintegrazione interna e la drammatica emorragia di un gran numero di fedeli.

Jean-Claude Larchet