Guillaume Cuchet, Come
il nostro mondo ha cessato d'essere
cristiano. Anatomia di un collasso, Editions du Seuil, Parigi,
2018, 276 pp.
Molti autori hanno
constatato, per mezzo secolo, il drastico calo del Cattolicesimo
in Francia e, più ampiamente, in Europa e se ne sono preoccupati:
Louis Bouyer in La decomposizione del Cattolicesimo
(1968), Serge Bonnet, Gli scopi trasversali. Gli avatar del
clericalismo della Quinta Repubblica (1973), Michel de Certeau e
Jean-Marie Domenach, Il Cristianesimo deflagrato
(1974), Paul Vigneron, Una storia contemporanea della crisi del
clero francese (1976), Jean Delumeau, Il Cristianesimo
sta per morire? (1977), Emile Poulat, L'era post-cristiana
(1994), Mons. Simon, Verso una Francia pagana? (1999), Denis
Pelletier, La crisi cattolica
(2002), Daniele Hervieu-Léger, Cattolicesimo: la fine di un mondo
(2003), Yves-Marie Hilaire, Le Chiese scompariranno? (2004),
Denis Pelletier, La crisi cattolica. La religione, la società, la
politica in Francia (1965-1978) (2005), Emmanuel Todd e Hervé Le
Bras, Il mistero francese (2013), Yvon Tranvouez, La
decomposizione della cristianità occidentale (2013).
In questo libro – che
rovescia il titolo del libro di Paul Veyne,
Quando il nostro mondo è diventato cristiano, per indicare
l'inversione del processo di cui sono stati analizzati gli inizi –
William Cuchet, docente di storia contemporanea presso l'Università
di Parigi-Créteil, specializzato in storia del Cattolicesimo,
propone di definire il momento in cui è iniziata tale decadenza e di
determinarne le ragioni. Uno dei principali strumenti scientifici
usati è l'analisi statistica. Uno dei
criteri oggettivi da lui considerati è il tasso di pratica regolare
domenicale nella popolazione francese, dal 27% nel 1952 all'1,8% nel
2017. Questo criterio può essere messo in discussione perché,
secondo un articolo recente de La Croix, si può essere
cattolici “praticanti” con altri impegni, ed è vero che in
assenza di una tale pratica domenicale una cultura cristiana può
durare un po', ma la perdita di contatto con la la vita liturgica può
solo indebolirla gradualmente e portare alla sua scomparsa.
Il primo terzo del libro
definisce l'adesione al Cattolicesimo quale
emerge da una massa di dati statistici elaborati dal clero tra il
1945 e il 1965 e, in particolare, le statistiche accuratamente e
regolarmente stabilite in un periodo più lungo (1880-1965) dal
canonico Boulard, sociologo e autore di quattro volumi di materiali
per la storia religiosa del popolo francese, XIX-XX secolo.
Secondo G. Cuchet, è
negli anni '60, più precisamente nel 1965, che può essere datata la
rottura che ha inaugurato il processo di decadenza del cattolicesimo
in Francia. Tale rottura coincide con il Concilio Vaticano II, il che
è paradossale, perché questo Concilio è stato progettato, da chi
lo ha organizzato, come un aggiornamento per vivificare il
Cattolicesimo davanti al mondo moderno. Ma,
sottolinea l'autore che ha esaminato varie ipotesi, «non
vediamo quale altro evento possa aver generato una simile reazione.
Con la sua semplice esistenza, nella misura in cui improvvisamente ha
reso possibile la riforma delle vecchie norme, il Concilio è stato
sufficiente a scuoterle, soprattutto perché la riforma liturgica che
riguardava la parte più visibile della religione per un gran numero,
ha iniziato ad applicarsi già nel 1964».
Nella seconda metà del
suo libro, l'autore analizza in modo preciso le cause, legate al
Concilio, della rottura e del processo di decadenza che, a livello
globale, continua ancora oggi.
Il Concilio ha causato
una perdita di riferimento tra i fedeli. Il testo conciliare
Dignitatis humanae, pubblicato nel 1965, sulla libertà
religiosa, appariva «come una specie
d'autorizzazione non ufficiale a fare affidamento al proprio giudizio
per quanto riguarda il credo, il comportamento e la pratica, che
contrastava fortemente con la situazione precedente».
Ciò ha suscitato la triste osservazione di padre Louis Bouyer:
«Ciascuno non crede più, si limita a
praticare quanto lo riguarda».
Nel campo della pietà,
osserva Cuchet, aspetti della riforma liturgica che potrebbero
apparire secondari, ma che non lo erano affatto sul piano psicologico
e antropologico, come l'abbandono del latino, la comunione nella
mano, la relativizzazione degli antichi obblighi, hanno
svolto un ruolo importante. Lo stesso per quanto riguarda le critiche
alla comunione solenne, moltiplicate dal 1960 e in particolare dal
1965, la nuova pastorale del battesimo (dal 1966) e del matrimonio
(nel 1969-1970), che tendevano ad aumentare il livello di accesso ai
sacramenti richiedendo ai candidati più preparazione e impegni
personali.
Nel campo delle credenze,
è il fatto stesso della variazione del discorso ad aver contato. La
variazione dell'insegnamento ufficiale rendeva scettici gli umili i
quali deducevano che, se l'istituzione ieri aveva “ingannato”
dando per immutabile ciò che era cessato di esserlo, non si poteva
aver l'assicurazione che non lo sarebbe stato nel futuro. Un'intera
serie di antiche “verità” sono improvvisamente cadute nel
dimenticatoio, come se il clero stesso avesse smesso di crederci o
non sapesse cosa dirvi al riguardo, dopo averne parlato e ritenute
per così tanto tempo essenziali.
Un altro ambito in cui la
congiuntura ha destabilizzato i fedeli, nota l'autore, è quello
dell'immagine della Chiesa, della sua struttura gerarchica e del
sacerdozio. «La “crisi cattolica”
degli anni 1965-1978 fu inizialmente una crisi del clero e dei
praticanti cattolici. L'abbandono della
tonaca (dal 1962) e dell'abito religioso, la politicizzazione (a
sinistra) del clero, l'abbandono di sacerdoti, religiosi e suore,
appariva a molti come un vero “tradimento dei chierici”, senza
precedenti dopo la “spretizzazione”
della Rivoluzione, che ha avuto gli stessi effetti destabilizzanti”»
D'altra parte, «il
Concilio ha aperto la strada a quella che potrebbe essere definita
un'uscita collettiva dalla pratica obbligatoria sotto pena di peccato
mortale, che occupava un posto centrale nell'antico cattolicesimo.
[...] Quest'antica cultura della pratica obbligatoria si esprimeva
principalmente nell'area dei “comandamenti della Chiesa” che i
bambini imparavano a memoria al catechismo e di
cui si doveva verificarne il rispetto durante
l'esame di coscienza preparatorio alla confessione»,
e che includeva il dovere di santificare le domeniche e le feste, di
confessare i peccati e di comunicarsi almeno una volta all'anno, di
digiunare il venerdì, in occasione di grandi feste e nei cosiddetti
periodi quaresimali detti delle “Quattro Tempora”.
Tutte queste esigenze sono state ammorbidite, al punto da
scomparire, eccetto la comunione che è divenuta sistematica e fatta
senz'alcuna preparazione, dal momento che
la confessione e il digiuno sono praticamente scomparsi.
L'ammorbidimento del digiuno eucaristico fu, tuttavia, compiuto in
varie fasi preliminari: nel 1953, Pio XII decise, pur mantenendo
l'obbligo del digiuno dalla mezzanotte prima della comunione, che
l'assunzione dell'acqua non l'avrebbe più spezzato; nel 1957, il
motu proprio Sacram communionem ridusse il digiuno a tre ore
per il cibo solido e a un'ora per il liquido; nel 1964, Paolo VI
decretò che sarebbe stata sufficiente un'ora in entrambi i casi, il
che significa concretamente la scomparsa del digiuno eucaristico,
poiché un'ora è il tempo impiegato per recarsi in chiesa e per la
parte di messa prima della comunione.
Durante questo periodo
conciliare e post-conciliare, «è
sorprendente – osserva l'autore –,
vedere quanto il clero abbia volontariamente rimosso il vecchio
sistema di norme su cui aveva
tanto penato per porlo in atto».
Creando inevitabilmente nelle persone la sensazione di “aver
cambiato la loro religione” e di provocare, in una parte,
un'impressione di relativismo generalizzato.
L'autore dedica due
interi capitoli alle cause della decadenza che gli sembrano
fondamentali: la crisi del sacramento della penitenza e la crisi
della predicazione degli ultimi fini.
1) Secondo G. Cuchet, «La
crisi della confessione è uno degli aspetti più rivelatori e
sorprendenti della “crisi cattolica” degli anni 1965-1978».
«La desuetudine della confessione è di
per sé un importante fatto sociologico e spirituale che gli storici
e i sociologi probabilmente non hanno preso pienamente in
considerazione. Niente di meno, in effetti, rispetto alla travolgente
trasformazione del massiccio abbandono, nel giro di pochi anni, di
una pratica che ha plasmato profondamente le mentalità cattoliche
nel lungo periodo. Nel 1952, il 51% degli adulti cattolici dichiarava
di confessarsi almeno una volta all'anno (a Pasqua com'era
stato reso obbligatorio dal canone 21 del
Concilio Lateranense IV del 1215); nel 1974 erano solo il 29% e nel
1983 il 14%. Secondo l'autore, il punto di rottura è intorno al
1965-1966, quando la confessione ha cessato d'essere
presentata come il “sacramento della penitenza” ed è stata
presentata come “sacramento della riconciliazione”. Questo
fenomeno andava di pari passo a:
- la fine della “pratica
obbligatoria” già menzionata, e ad una depenalizzazione
dell'astensione della pratica religiosa, considerata in precedenza
come un peccato perché in contrasto con i comandamenti della Chiesa
presentati come doveri assoluti a cui ci si doveva sottomettere;
- alla perdita del senso
del peccato nella coscienza di molti fedeli, ma anche tra il clero
che ora temeva di evocare tale nozione, come quella sugli ultimi
fini. L'autore osserva a tal riguardo: «Il
clero ha cessato bruscamente di parlare di
tutti questi argomenti delicati, come se avessero smesso di crederci,
mentre allo stesso tempo trionfava nei loro discorsi una visione di
Dio di tipo russoviano: il “Dio Amore” (e non più solo
“d'amore”) degli anni 1960-1970. “I
sacerdoti hanno asfaltato la strada per il cielo”,
sintetizzava nei primi anni '70, un'anziana contadina bretone in
un'intervista con il sociologo Fanch Élégoët. Una volta stretta e
ripida, era ora un'autostrada praticata da
quasi tutti. Recante dove, se non c'era più alcun peccato o inferno,
neppure qualche peccato grave che avrebbe
potuto privare del paradiso. L'utilità della confessione, nella sua
definizione tradizionale, fu in realtà sempre meno evidente»;
- ad una disconnessione
tra confessione e comunione. «Nel vecchio
sistema, ci si confessava più di quanto ci si comunicava e la
confessione era principalmente sentita come una sorta di
purificazione rituale che condiziona l'accesso all'Eucaristia».
Lo sviluppo della comunione frequente, accompagnata dalla perdita del
senso del peccato, e dall'idea di alcuni membri del clero, influenzata
dalla psicoanalisi, secondo la quale si doveva decolpevolizzare i
fedeli e “liberarli dal confessionale”, ha avuto come effetto che
i fedeli erano ora invitati alla comunione senza doversi confessare.
La comunione si è così banalizzata, mentre la stessa opportunità
di confessarsi praticamente non esisteva più. Le regolari
confessioni individuali, furono sostituite dal 1974 da “celebrazioni
penitenziali” celebrate una volta all'anno prima di Pasqua; in
questi incontri, i fedeli non confessavano più nulla (l'autore li
chiama “forme di penitenza senza confessione”) ma ricevevano
un'assoluzione collettiva dopo aver ascoltato un vago discorso in cui
la nozione di peccato veniva sempre più spesso raggirata. E quando
la possibilità di confessarsi rimase in alcune parrocchie o più
tardi fu ripristinata, “i fedeli non sapevano molto bene come
confessarsi, o anche se fosse ancora utile farlo”.
2) L'ultimo capitolo è
dedicato a una causa di decadenza che sembra ugualmente fondamentale
all'autore: la crisi della predicazione degli “ultimi fini”;
l'autore si chiede, nel titolo del capitolo, se ciò non significa in
altri termini “la fine della salvezza”. L'autore nota che negli
antichi catechismi e trattati teologici, un luogo importante era dato
alla morte, al giudizio, e alle due destinazioni finali dell'Al
di là, l'inferno e il paradiso. Preoccupati, già nel dicembre 1966,
di vederli scomparire dall'insegnamento e dalla predicazione, i
vescovi della Francia notarono: «Il
peccato originale [...], così come gli ultimi fini e il Giudizio,
sono punti della dottrina cattolica direttamente collegati alla
salvezza in Gesù Cristo e la cui presentazione ai fedeli si rende
davvero difficile per molti sacerdoti incaricati d'insegnarli.
Non sappiamo come parlarne». Poco prima,
il Cardinale Ottaviani, prefetto della Congregazione per la Dottrina
della Fede, aveva notato che il peccato originale era quasi
completamente scomparso dall'attuale predicazione. G. Cuchet
sottolinea che non era solo un problema di presentazione del dogma,
di ordine pastorale e pedagogico, ma che «in
realtà, era davvero un problema di fede e di dottrina e un disagio
condiviso tra clero e fedeli. Tutto accadde come se, all'improvviso,
alla fine di un'intera opera di preparazione clandestina, parti
intere dell'antica dottrina considerate finora essenziali, come il
giudizio, l'inferno, il purgatorio, il diavolo, erano diventate
incredibili per i fedeli e impensabili per i teologi».
L'autore situa questa crisi (sebbene abbia avuto alcune avvisaglie di essa qualche tempo prima) negli anni '60, così come la crisi
della confessione, osservando la sua stretta relazione con essa: «Il
crollo della pratica della confessione segue una cronologia identica,
in particolare la quasi sparizione in pochi anni, o anche pochi mesi,
del gruppo una volta così consistente di quelli che si confessavano
spesso. Il rapporto è diretto, se non esclusivo, con la
cancellazione della nozione di peccato mortale (nel senso di un
peccato degno di dannazione). Ma aveva
anche implicazioni con altri sacramenti legati agli “ultimi fini”.
Nel nuovo rito del battesimo, gli esorcismi sono stati
significativamente ridotti (perché non sembra opportuno sottolineare
il ruolo di Satana, al quale una parte del clero non crede più e che
sembrano appartenere a una mitologia da cui bisogna liberare quei
fedeli giudicati ingenui); e c'era pure una chiara censura al peccato
originale, da cui [il battesimo] era incaricato di liberare per
assicurare la vita eterna».
Per quanto riguarda
sempre il battesimo, un'altra riforma provocava la disaffezione di
molti fedeli dal dicembre del 1965, «una
nuova pastorale del battesimo dove, se la prima preoccupazione fino
a quel momento fu quella di battezzare i bambini il più presto
possibile, qui, al contrario, si tende a
ritardare la scadenza, in modo da coinvolgere maggiormente i genitori
nella preparazione. Va aggiunto che un certo numero di religiosi
scoraggiavano il battesimo dei bambini, con il pretesto che
dev'essere un atto libero, volontario e pienamente cosciente, e
sostenevano di aspettare a proporlo fino al
momento dell'adolescenza.
Lo stesso concetto di
condizioni per la salvezza è stato modificato da tutti questi
fattori. «La vecchia ecclesiologia
concentrica, con i suoi cerchi di probabilità decrescente di
salvezza, non era affatto appropriata. Il Vaticano II è stato, da
questo punto di vista, il teatro di una sorta di “notte del 4
agosto” dell'Aldilà che ha posto fine ai
privilegi dei cattolici riguardo la salvezza. Ora, la Chiesa era
concepibile più come uno strumento di salvezza per tutti, senza
discriminazione o privilegio, anche se i fedeli abituati finora ad
una teologia molto diversa rischiavano adesso
di trovarsi un poco destabilizzati e d'interrogarsi, in queste
condizioni, sui reali benefici della loro affiliazione».
Avvicinandosi alla sua
conclusione, l'autore sottolinea pure gli effetti disastrosi della
crisi degli anni '60 sulla coscienza dogmatica dei fedeli che, in
qualche modo, è stata protestantizzata: «La
consacrazione della libertà di coscienza da parte del Concilio è
stata spesso interpretata nella Chiesa, inaspettatamente all'inizio,
come una nuova libertà della coscienza cattolica, che l'autorizzava
implicitamente a fare strame di dogmi e di
pratiche obbligatorie. La nozione stessa di dogma (come credenza
obbligatoria in coscienza) divenne quindi problematica.
Quest'importante decisione del Concilio, assieme con il concetto di
“gerarchia” delle verità, sembra aver funzionato nelle menti di
molti come una sorta di depenalizzazione formale per
il “credente fai da te” che contrastava fortemente con la
situazione precedente, in cui le verità della fede dovevano essere
prese in blocco e senza diritto d'inventario.
C'era da aspettarsi che la più spiacevole tra loro, o la più
contraria all'intuizione del senso comune,
avrebbe pagato un prezzo come
poi si è verificato».
Quali siano i fattori
esterni che possono aver determinato il
crollo del Cattolicesimo (mentalità
moderna, pressione sociale, ecc.), i fattori interni sembrano
determinanti, secondo l'autore di questo libro.
Lo stesso Cattolicesimo
ha una pesante responsabilità nella scristianizzazione della
Francia (e più in generale dell'Europa, perché un'analisi fatta
negli altri paesi porta a conclusioni
identiche). L'aggiornamento realizzato dal Concilio Vaticano II, che
ha proposto di affrontare le sfide del mondo moderno, non ha fatto
altro che adattarsi ad esso. Pensando di attirarlo, ha iniziato a
seguirlo. Volendo essere ascoltato nel suo secolo, il Cattolicesimo
si è secolarizzato. Temendo di affermare la propria identità si è
relativizzato al punto che molti fedeli non trovano in lui i segni a
cui erano abituati o che si aspettavano e non trovano più alcun
interesse a cercare in esso quanto il mondo
offre già loro in modo meno tortuoso.
La autorità cattoliche
cercano di minimizzare il crollo descritto nel libro con vari
argomenti (un gran numero di francesi rimangono cattolici e fanno
battezzare i loro bambini; la pratica religiosa si misura con altri
impegni rispetto all'assistenza alla messa, la quantità è stata
rimpiazzata dalla qualità, ecc.). Ma tali argomenti stentano a
convincere. Giovanni Paolo II è stato spesso presentato come colui
che ha raddrizzato gli eccessi seguiti al
Concilio Vaticano II, ma si deve ricordare che la pratica domenicale
è scesa in Francia dal 14%, al momento della sua elezione, al 5% al
momento della sua morte nel 2005. Se è vero che le comunità viventi
nelle città possono illudere, (come potevano illudere le poche
chiese aperte sotto il periodo comunista nei paesi dell'Est,
sovraffollate a causa della chiusura di altre), così come lo
spettacolare raduno dei giovani della JMJ, la campagna francese
mostra la realtà di una desertificazione drammatica: moltiplicazione
delle chiese in disuso (vale a dire non più usate concretamente come luogo di culto), con
sacerdoti incaricati di 20 o anche 30 parrocchie, i
quali celebrano ogni domenica una messa “regionale” ad un
piccolo gruppo di fedeli per lo più anziani venuti, a volte, da
diverse decine di chilometri, scomparsa delle sepolture celebrate dai
sacerdoti per mancanza di celebranti, assenza di contatto tra
sacerdoti e fedeli a causa della reciproca distanza e
dell'indisponibilità del primo, più occupato dagli incontri che
dalle visite pastorali ...
La triste evoluzione
della Chiesa cattolica postconciliare descritta nel libro di G.
Cuchet dovrebbe servire da monito per i prelati ortodossi che hanno
sognato e continuano a sognare di chiedere alla Chiesa ortodossa un
“grande concilio” simile a quello con cui la Chiesa cattolica ha
voluto fare il suo aggiornamento, ma che ha avuto come effetto
principale di provocare la sua disintegrazione interna e la
drammatica emorragia di un gran numero di fedeli.
Jean-Claude Larchet
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