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domenica 26 novembre 2017

Alla radice dell'allergia per il Sacro


I miei affezionati lettori non ne abbiano male se, dati gli attuali procellosi tempi, sono spesso costretto a fare analisi di fatti un po’ deprimenti. 
Come un medico deve individuare l’origine di una malattia per poterla combattere meglio, così nel Cristianesimo è necessario individuare la vera origine di ciò che lo rovina nella speranza di sollevarlo almeno un po’ fosse solo in noi stessi.
Credo sia illusorio avvicinarsi alle cause senza individuarle precisamente perché si fornirà una cura sempre inadeguata: sarà come cercare di curare il mal di testa con dell’acqua zuccherata. Individuata la vera causa siamo in grado di riparare tutte le distorsioni che provengono da essa.

Quando nel mondo cattolico notiamo un’allergia al sacro, che si manifesta in liturgie sciatte, nelle quali viene meno la forma rituale e s’inseriscono sempre maggiori improvvisazioni secolarizzanti, il motivo di fondo non è tanto il semplice rifiuto della dimensione sacrale. Questo stesso rifiuto è generato da altre cause che stanno più a fondo. Diverse volte in questo blog ho evidenziato che esiste un corretto modo d’intendere il sacro, legato dunque all’interiorità umana vivificata dalla presenza della grazia divina. Il sacro non è perso solo perché di fatto manca una reale esperienza di tale grazia ma anche da un altro motivo alla base di tutto: l’approccio alle Sacre Scritture.

Tutto inizia dalla predicazione, al punto che san Paolo dice: “Come potranno credere in lui, se non ne hanno sentito parlare?” (Rm 10, 14). 
La fede inizia dall’ascolto ma anche dal modo in cui viene proposta la Rivelazione.
Tradizionalmente la Bibbia è letta nella Chiesa. Non a caso il luogo princeps di tale lettura è la Liturgia. Questo perché la Sacra Scrittura sgorga dalla Tradizione ed è la Tradizione che offre gli strumenti per poterla leggere e capire. La Tradizione è per la Scrittura come il castone è per il diamante (1)
La Sacra Scrittura staccata dalla Tradizione e dalla Chiesa diviene un libro come un altro, soggetta, dunque, a libere interpretazioni.
La rivoluzione di Martin Lutero è stata proprio quella di sganciare la Bibbia dalla Tradizione collegandola strettamente con la libera interpretazione dell’unico soggetto che la legge. Quest’evento storico è stato radicale perché si contrapponeva ad una situazione altrettanto radicale: la situazione ecclesiale determinata dalla teologia cattolica del XV secolo, divenuta una costruzione artificiale di asserti filosofici spesso fine se stessi, tali da attirare le ironie di Erasmo da Rotterdam (2). L’arrivo di Lutero ha determinato un rigetto di tutto questo mondo basso medioevale che si smarriva discettando, come si dice, sul “sesso degli angeli”.

Tuttavia, la Bibbia staccata dalla sua Tradizione e dalla Chiesa, come luogo d’interpretazione e di riconoscimento del messaggio biblico, ha iniziato a determinare una pletora d’interpretazioni tra loro contraddittorie e la conseguente suddivisione del movimento protestante in moltissime piccole comunità senza comunione vicendevole. Il riformatore tedesco, nell’intento di guarire una malattia, asportando degli organi malati, ha creato una serie di problemi a catena che, forse, non immaginava nemmeno.
Tra i vari approcci determinati dalla libera interpretazione della Bibbia, abbiamo anche quelli del protestantesimo liberale. “Tra il 19° e il 20° secolo, si è [...] sviluppato un movimento denominato protestantesimo liberale, che ha valorizzato la ricerca razionale e ha cercato il dialogo con la cultura e la filosofia moderne. Alcuni studiosi hanno avviato un’indagine storico-critica sulla figura di Gesù, sull’attendibilità storica dei Vangeli e sul modo in cui l’uomo moderno vive l’esperienza di fede, al di là degli elementi mitici presenti nei testi biblici” (3).
Con questi presupposti l’interpretazione biblica si è sentita libera di contraddire qualsiasi pacifica acquisizione di fede trasmessa dalla Tradizione. Oggi il cammino degli esegeti che si riferiscono a quest’interpretazione razionalista è molto progredito.
Da tale lavoro chi ne esce completamente “ridimensionato” è Cristo stesso, il quale viene totalmente spogliato da qualsiasi attributo divino in nome di una lettura seria e scientifica dei Vangeli.
Uno dei diffusori di tale lettura antitradizionale in Italia è senz’altro Franco Barbero. Nonostante il Vaticano gli abbia ufficialmente proibito di esercitare il sacerdozio, costui continua nella sua attività sacerdotale animando una fitta rete di relazioni che si riferiscono anche alle Comunità di Base e mantenendo i contatti con moltissimi sacerdoti cattolici. Si può ben dire che egli rappresenti la punta di un iceberg sommerso perché le sue idee tentano enormemente il mondo cattolico, oramai privo di reali e vitali collegamenti con la Tradizione.
Oggi il  Cattolicesimo è tentato ancor più perché chi ne sta al vertice, non interessandosi di teologia e di esegesi biblica, lascia aperta ogni via interpretativa. Con Bergoglio pare veramente che tutto sia possibile al punto che il Cattolicesimo sembra ripiombato negli anni 70!
Sono queste idee sulla Sacra Scrittura che, a mio avviso, snervano totalmente la vita cristiana tradizionale, dichiarano morta ogni sacralità, promuovono come buona ogni genere di prassi scelta “in coscienza”. Se il clero svilisce la Liturgia, rovescia i significati della Scrittura, insegue i piaceri del mondo, promuove un’architettura che non è più sacra (4), è da qui che si deve partire perché una predicazione della Bibbia convinta e verace in senso tradizionale produce, al contrario, frutti opposti.

Ma che dice Franco Barbero?
Le sue idee non sono un mistero poiché ha già prodotto molti pamphlet nei quali ama dire che solo l’eresia è unautentica liberazione. Il suo ultimo libro è un programma già dal titolo: Confessioni di un eretico.
Faccio un breve riassunto di alcune sue idee e saranno più che sufficienti, a chi è fermamente ancorato nella Tradizione, per stupirsi e rattristarsi assai (5).

  • I Vangeli non riportano i fatti e i detti di Gesù, se non in parte residuale, perché riflettono, di fatto, le preoccupazioni delle comunità cristiane primitive. In essi si può attingere al Gesù della fede”, perché il “Gesù della storia” è praticamente quasi un mistero.
  • Gesù, il Nazzareno, era un uomo come noi che incorreva in errori, rimanendo chiuso nel particolarismo ebraico, ma che conosceva anche conversioni, aprendosi ad un universalismo salvifico che comprendeva tutti.
  • Gesù riceve il titolo di Dio solo dalle comunità cristiane e, soprattutto, da san Paolo che opera, così, una rottura con il messaggio evangelico originale predicando un “suo” Vangelo diverso e distinto da quello di Gesù ma che, poi, s’impone.
  • Ben presto il Cristianesimo si riveste di riti e usi pagani finendo, così, per tramandare nei secoli un’immagine diversa da quella suggerita dal Nazzareno.
  • Oggi è necessario ripristinare il Cristianesimo autentico spogliando il Vangelo da miti e interpretazioni sacralizzanti con i quali la Chiesa ha ingannato per secoli i fedeli.

Nessuno si meraviglia che esista una sorta di rapporto tra il messaggio di Cristo e le esigenze delle comunità primitive ma quello che qui si vuole dire, in nome della serietà scientifica, è che queste ultime, alla fine, confezionano un Cristianesimo differente da quello voluto da Cristo. San Paolo, in tal senso, è un autentico falsario, così falso da essere stato una vera e propria “bestia nera”.
Il tentativo di ripristinare un ideale “vangelo originale” determina di fatto una desacralizzazione degli stessi Vangeli che divengono semplice parola umana, elaborabile e interpretabile secondo criteri che prescindono sicuramente dalla fede e si collegano a pure ragioni “razionali”.

Mi si dirà che queste interpretazioni sono estremiste e, tutto sommato, appartengono solo ad una piccola élite di studiosi che non è in grado d’influenzare la massa. Sono convinto del contrario. Infatti, i frutti da esse determinato e che ci circondano praticamente ovunque, provengono esattamente da quell’albero, da quel preciso modo di pensare anche se non sempre si giunge a tutte le sue logiche conseguenze. Se la Scrittura non è più Sacra, se Cristo non è più Dio, se san Paolo impone un Vangelo posteriore e almeno in parte falsificato, è ovvio che il metro e la misura di tutto diviene la propria coscienza, una coscienza che prescinde totalmente dalla Tradizione e dai riferimenti da essa proposti, una coscienza scusata perché legata ad una interpretazione “razionale e scientifica”.
Questo spiega il “Cristianesimo fluido” proposto da Bergoglio, la rovinosa prassi morale di chierici e laici, la dissacrazione della liturgia, l’interpretazione secolarizzata della Bibbia, la morte degli ordini contemplativi, ecc.
Tale lettura si vuole imporre a tutti i costi in nome di una “serietà scientifica” che scredita ogni altro tipo e genere di approccio [poi i suoi assertori si dichiarano pure apostoli del pluralismo!]. Quello che pare passare inosservato è che i presupposti di tale lettura non paiono proprio “oggettivi” se si ritiene come punto di partenza che i miracoli, ad esempio, non possono assolutamente essere esistiti perché... i miracoli non esistono!

Il male è profondo ma i vescovi tacciono. Risiedono tranquilli nei loro palazzi e non vogliono che nessuno ricordi loro che ci sono dei problemi. Così facendo, però, tradiscono brutalmente il motivo per cui sono stati ordinati.

Questa prassi dissacratoria, che sta devastando l’Occidente, si volgerà o prima o poi anche alle Chiese orientali ree di essere ancora in una fase “mitica”, “sacrale” e “ascientifica”. Sono i protestanti che c’interessano non gli ortodossi, rimasti legati al passato, diceva il teologo Luigi Sartori (1924-2007), rivelando con ciò tutto un terreno di coltura nel quale può cadere e fiorire rigogliosamente quel tipo di seme!
E c’è da scommetterci che alcuni chierici ortodossi, succubi dell’Occidente per un atavico complesso d’inferiorità, gli apriranno le porte esponendo pure il loro gregge alla devastazione.
(Ho fatto a tempo a vedere studenti ortodossi di teologia venerare il pensiero sartoriano non accorgendosi affatto di alcuni suoi inquietanti presupposti, per cui non mi meraviglio di nulla oramai!).

Il desiderio di creare una “teologia postpatristica”, che si riscontra qua e là soprattutto in Grecia, promette già bene in tal senso come promette bene l’impressione imbarazzante data da troppi vescovi ortodossi, desiderosi di vivere in pace nei loro palazzi, lontani da qualsiasi tipo di problema quasi fossero elevati all’episcopato esclusivamente per i propri interessi. Ma in ciò Oriente e Occidente oramai si affratellano sempre più!

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NOTE

(1) La lettura della Bibbia nella Chiesa prevede la conoscenza dell’interpretazione biblica nella letteratura patristica perché la fede dei Padri è in grado di vivificare anche quella attuale. Domanda: quale istituzione teologica cattolica (scuola o seminario) percorre il Nuovo Testamento (per non parlare dell’Antico) facendosi accompagnare dall’interpretazione patristica? Nessuna, che io sappia! I corsi di patrologia sono fatti sommariamente e vengono concepiti, per lo più, come un’anticamera alla vera teologia. Il passato, che costituisce con il presente che lo veicola la Tradizione della Chiesa, è di fatto bellamente respinto. L’omiletica riflette questo stato di cose: non ci sono riferimenti alla spiritualità ascetico-patristica se non in rarissimi casi. Le riflessioni che accompagnano il commento alle Scritture rivelano, per lo più, un vero e proprio scisma dal passato e dalla Tradizione ecclesiale, un allontanamento che neppure la teologia scolastica avrebbe mai pensato di fare. Tommaso d’Aquino, infatti, cerca di fare riferimento per quanto può e come meglio riesce alle fonti cristiane antiche, seppur inserendole in una griglia di lettura e in un metodo innovativo.  

(2) La Tradizione della Chiesa è un insieme d’insegnamenti provenienti da personalità ecclesiastiche autorevoli e universalmente riconosciute. È vero che negli scritti dei Padri ci possono essere valutazioni o osservazioni legate al loro tempo e che non possono più riguardarci, come ad esempio le conoscenze mediche di allora. Ma è altrettanto vero che essi, per quanto riguarda l’insegnamento e la testimonianza di fede, sono tutt’altro che superati. Non capirli e servirsi delle loro opere in modo strumentale per costruire una filosofia puramente speculativa ha portato la teologia del XV secolo ad una crisi tale da essere stata rigettata in toto, compresi anche quegli aspetti tradizionali che avrebbero dovuto essere conservati. Oggi, nonostante gli scritti dei Padri compaiano nelle letture dei breviari cattolici, sono di fatto lettera morta perché la teologia non attinge più alla loro prospettiva di fede e, di conseguenza, neppure l’omiletica.

(3) Questa definizione assai generica e semplificata da, però, l’idea di cosa sia tale movimento i cui presupposti sono penetrati profondamente nello stesso mondo cattolico. Vedi qui

(4) “È indubbio che, dopo il Concilio, sulla nostra teologia ha agito l’influsso del protestantesimo liberale e dello scientismo: entrambi si propongono in ogni modo di ridurre l’ambito del mistero. Nei Paesi germanici la teologia soffre di un complesso di inferiorità verso la critica biblica protestante, nei Paesi latini verso la cultura laicista. Questa caduta della sensibilità al mistero si vede persino nell’architettura delle chiese moderne, incapaci di cogliere il senso religioso: quella “vibrazione”, ad esempio, espressa mirabilmente dai rosoni nelle cattedrali romaniche e gotiche. Nelle cattedrali medievali, tutto era simbolo sapiente che i fedeli, anche se ignoranti secondo le categorie accademiche, sapevano cogliere, appagando così quel bisogno religioso che è in ogni uomo. Misure, proporzioni, scorci: pensi che, in quelle cattedrali mirabili, la luce era filtrata in modi ispirati alla sapienza dell’alchimia di cui pochissimi avevano la formula. La liturgia cristiana d’oggi, invece, ha dimenticato che la liturgia deve essere sposa fedele dell’arte; anzi, la liturgia stessa è arte che deve fare appello alle emozioni e ai sentimenti che stanno al fondo di ogni uomo. Si è ignorato che emozioni e sentimenti hanno pari (se non superiore) importanza del nostro aspetto intellettivo. Oltretutto, ponendo l’accento sulla sola dimensione della ragione si perde quella universalità delle emozioni e dei sentimenti che unifica la razza umana: prova ne sia che posso innamorarmi di una persona di una qualsiasi razza o cultura. È anche nei vuoti aperti da questo razionalismo, che da qualche tempo contrassegna pure il cattolicesimo, che si insinuano le sette e ogni forma di occultismo ed esoterismo” Vedi qui

(5) Traggo questi punti dalla lettura di qualche post del seguente blog.

mercoledì 22 novembre 2017

Preghiera, digiuno, sonno

Sembra che il papa argentino in uno dei suoi ultimi interventi abbia proferito la seguente frase: "Possiamo pregare da soli e se, mentre diciamo il Padre nostro, ci addormentiamo, come faccio io, al Signore piace lo stesso". È una frase molto accomodante e giustifica le persone, come spesso Bergoglio fa.
Ma cosa dice la tradizione ascetica antica della Chiesa? Usa tutto un altro linguaggio! Prima di tutto la veglia (quindi l'andare contro il sonno) è associata sempre al digiuno ed entrambe servono per sostenere la preghiera. Digiuno (secondo una regola equilibrata) e veglia sono il segno di un cuore che ama veramente Dio e che non si lascia sopraffare dalla trascuratezza come succederebbe in caso contrario. La veglia infatti esprime la vigilanza del cuore, come le vergini sagge che rimangono in piedi con il lume acceso ad attendere il Signore.
È evidente che andare contro questa mentalità, giustificando la trascuratezza, come pare si faccia nella frase sopra riportata, significa porsi, magari senza saperlo, contro l'antica tradizione ascetica della Chiesa e, alla lunga, minare la preghiera stessa senza la quale non c'è più vita cristiana. È qui che vogliamo arrivare?
Comunque sia, osserviamo cosa dice in proposito uno dei migliori patrologi viventi. 

Il digiuno e l'astinenza ai quali il monaco è chiamato non sono dunque una semplice moderazione nel bere e nel mangiare, tali da farci evitare ogni eccesso, né una semplice osservanza di regole esteriori, per quanto queste siano necessarie e debbano essere osservate fedelmente nello spirito che le ha redatte; il senso dell'astinenza deve ancora spingerci a tagliare con fermezza, con un generoso slancio spirituale e con con la libertà d'animo che offre l'assenza di ogni ricerca mascherata di se stessi, tutte le nostre "volontà proprie" e tutte le nostre voglie di cercare la nostra soddisfazione nell'alimentazione. La debolezza di salute obbliga forse l'uomo moderno ad utilizzare maggior moderazione rispetto al passato per quanto riguarda il digiuno in senso stretto. Ma esistono pure forme di digiuno che gli sono particolarmente necessarie: la restrizione dell'uso di eccitanti, di tranquillizzanti e di diversi prodotti farmaceutici di cui si ha, talora, un abusivo consumo in certe realtà comunitarie.
Seguendo la Scrittura, i Padri stabiliscono uno stretto legame tra il digiuno e la preghiera. Da una parte, in effetti, il digiuno (come d'altra parte il servizio effettivo del prossimo) da consistenza e autenticità alla nostra preghiera [...]. La nostra contrizione, la riconoscenza della nostra miseria e il nostro amore al Signore rischierebbero di essere più teorici, immaginari e sentimentali che reali, se non fossero vitalmente simbolizzati dal digiuno; grazie a quest'ultimo la nostra preghiera può divenire più veridicamente un atto che procede dal nostro cuore, dal fondo più intimo del nostro essere e nella quale siamo interamente impegnati. E, d'altra parte, il digiuno è un ausilio indispensabile della preghiera contemplativa perché sviluppa in noi il senso delle realtà spirituali e il gusto di Dio. Ecco perché il digiuno ha una grande affinità con il silenzio e il raccoglimento: i giorni in cui digiuniamo devono essere giorni di maggior silenzio e, al contrario, una giornata di ritiro non può di certo concepirsi senza digiuno.
Ecco perché al digiuno i Padri associano ordinariamente le veglie. Il digiuno sviluppa in noi il gusto di Dio e tale gusto ci incita a prevalere sul nostro sonno, a sacrificare una parte del nostro riposo corporeo, per prolungare o anticipare il nostro intrattenimento con Dio. Nulla lo esprime meglio se non le veglie, la vigilanza dell'attenta anima in modo che il torpore spirituale non la invada e attenda ardentemente il divino incontro,  tali visite dello Sposo quali preludi a quella dell'ultimo giorno.
"Da quando si inizia a digiunare, dice sant'Isacco di Ninive, si è immediatamente spinti dallo Spirito Santo ad intrattenersi con Dio. Un corpo che digiuna non sopporta passare la notte intera nel letto poiché il digiuno porta naturalmente a vegliare in compagnia di Dio" (Sant'Isacco di Ninive, Trattati Mistici [in inglese], Wensinck, p. 161)

p. Placide Deseille, Nous avons vu la vrai lumière
L'age d'Homme, Lausanne 1990,  p. 86.

mercoledì 8 novembre 2017

Il contatto con il Divino e la Sacra Scrittura

Parlando di grazia, come ho fatto nel post precedente, si è determinati a parlare di un vero e proprio contatto con il Divino. La potenza guaritrice (dynamis) che esce da Cristo e sana l'emorroissa non opera una semplice terapia ma stabilisce un contatto immediato, per quanto fugace, tra la realtà umana e quella divina.

Nonostante non possa essere espresso dalla logica, tale contatto è chiaramente avvertito dalla natura umana come qualcosa di totalmente altro e di assolutamente inesprimibile. Il fenomeno avviene in un determinato momento, al punto che la persona guarita si ricorda l'ora e la data dell'avvenimento, ma, scaturendo dalla sfera divina, proviene contemporaneamente da una dimensione atemporale. Il contatto dell'uomo con il Divino testimoniato dai Vangeli si prolunga nella Chiesa ma solo sotto determinate condizioni che già il Vangelo mette in bocca a Cristo: “Credi nel Figlio dell'uomo?” (Gv 9, 35); “Non ti ho detto che se credi, vedrai la gloria di Dio?” (Gv 11, 40). Gli Atti degli Apostoli ribadiscono lo stesso concetto: “Filippo disse: 'Se tu credi con tutto il cuore, è possibile'. L'eunuco rispose: 'Io credo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio'” (At 8, 37). La fede incrollabile in Cristo rende possibile il contatto tra la dimensione eterna e quella temporale, la realtà increata (o divina) e quella creata (o creaturale).

Il fatto è ampiamente evidenziato nella Rivelazione perché lo si possa mettere in dubbio e lo si può testificare in particolari momenti della vita di certi santi.
La fede cristiana non è un bagaglio di concetti intellettuali da conservare e tramandare. Per quanto la si possa esprimere anche in termini discorsivi, la sua vera natura è spirituale: la fede è un atteggiamento dello spirito umano che si appoggia su un “sentire” interiore che viene attivato dalla grazia. In effetti un tempo si diceva popolarmente: “Credere è una grazia di Dio”.

Infatti, ad un ateo potremo parlare fino a domattina dell'esistenza di Dio, magari facendo leva sulle cosiddette prove filosofiche di Tommaso d'Aquino, ma non crederà. Quello di cui l'ateo, e in fondo ognuno di noi, ha bisogno non sono i remata (le parole come puri suoni) ma i logia (le parole che danno vita). Cristo è il Logos per eccellenza: quello che dice immediatamente compie, che sia la maledizione del fico sterile, che sia la resurrezione di Lazzaro.

La grazia, dunque, effettua un contatto dell'umano con il Divino, essendo la grazia medesima “sangue”, se così si può dire, di Dio stesso.

È attraverso questo contatto che gli asceti erano resi sapienti, pur senza aver fatto particolari studi. È per cercare questo contatto che essi vivevano con grandi rinunce: “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo, che un uomo, dopo averlo trovato, nasconde; e, per la gioia che ne ha, va e vende tutto quello che ha, e compra quel campo” (Mt 13, 44).

È attraverso questo contatto che chi ne usufruisce, magari anche un solo istante, comprende il valore della Scrittura e della Tradizione in un modo che non è dato a tutti perché consiste nel vedere le cose “all'interno” di loro stesse.

Fatta questa premessa, si può ora ben capire perché nei primi secoli cristiani era auspicabile l'esperienza monastica, soprattutto per chi avrebbe ricoperto una carica episcopale. Il vescovo, infatti, non deve giudicare con la mentalità del sindaco, in modo legale, esteriore, mondano (come oramai avviene). Il vescovo, come padre della diocesi, deve giudicare con l'occhio di Dio e questo è possibile solo in un'atmosfera autenticamente monastica. Se ciò non avviene, la Tradizione immediatamente si rinsecchisce e diviene un mero elenco di cose da fare “perché si è sempre fatto così” fino al giorno in cui qualcuno ha il coraggio di buttare tutto per aria (come oramai avviene nel Cattolicesimo e come è avvenuto nella Riforma protestante).

A questo formalismo che porta all'iconoclastia e alla desacralizzazione si è poi aggiunta la mentalità illuministica che ha letteralmente imbevuto tutto il nostro Cristianesimo occidentale.

Ad esempio ciò lo vediamo in un'intervista del generale dei gesuiti Arturo Sosa il quale dichiarò che le parole di Gesù non sono state tramandate da un nastro, o disco che sia, per cui noi non sappiamo esattamente ciò che Egli abbia detto.

L'affermazione ha fatto giustamente rizzare i capelli a molti ma chi ha protestato si è limitato a contrapporre a questa dichiarazione, che finisce per relativizzare il valore delle affermazioni di Cristo, l'idea che l'autorità dei Vangeli è sufficiente a fondare se stessa e quindi non dev'essere scalfita: “è così perché è così”.

Da quando la dichiarazione sosiana è stata fatta, lo scorso febbraio, non ho trovato una riflessione, che sia una!, che mi spiegasse le cose in modo alternativo, un po' più profondo. E anche questo, ovviamente, indica come la fede cristiana, almeno in Occidente, si sia fin troppo intellettualizzata.

Detto diversamente: si è alterato quel movimento circolare che i Padri stessi della Chiesa ci mostrano e gli asceti ci confermano. Il movimento circolare è questo: si parte dalla Scrittura, si crede in Cristo, ci si converte a lui, si è toccati dalla grazia, si legge con la grazia la Scrittura nella Chiesa e, nell'esperienza mistica, si ha la prova provata della sua validità. È ovvio che tutto questo non è istantaneo al punto che può richiedere molto tempo, ma è l'unico modo autentico di approcciarsi alla Scrittura che io conosca.



Oggi questo movimento circolare si è da tempo alterato: messa da parte la Chiesa e ritenuto un mito la grazia e la vita spirituale, si legge la Scrittura con il solo intelletto, un intelletto razionale che i Padri definirebbero “pieno di passioni” e quindi portato a cercare, nella lettura, conferma anche alle proprie debolezze. Il movimento circolare tradizionale è dunque stato sostituito con un altro movimento circolare: si parte da se stessi, si arriva alla Scrittura e, attraverso la ragione logica individuale si trae un significato razionale per poi tornare a se stessi, magari con diversi dubbi in più, come mi sembra di capire dalla risposta del gesuita.

Le parole di Gesù in quanto semplice scritto non significano nulla se non diventano vita della Chiesa, una vita in contatto reale (non ideale!) con l'Eternità. Quando ciò non avviene, sia perché richiederebbe un ascetismo ritenuto repellente, sia perché non si è mai creduto davvero, il vangelo diviene campo di esercizio per le opinioni più arbitrarie, tra cui quelle di padre Sosa.

Si comprende bene come qui oramai non possa più esservi spazio per alcun contatto con il Divino poiché non si può imparare veramente nulla di utile, visto che si pongono ragionamenti simili o peggiori di Peppone contro don Camillo.

Il discorso della grazia e del contatto con il Divino non può trovare assolutamente luogo in certi ambienti. Chi vuole continuare a credere si metta l'anima in pace, lasci pure che “i morti seppelliscano i loro morti” (Mt 8, 22), e viva nella Tradizione.

martedì 7 novembre 2017

La Chiesa: una questione di grazia

Se si seguono i dibattiti all'interno delle Chiese nel nostro tempo, si rimane esterrefatti: tutto il mondo cristiano è disperso in mille problematiche e cerca, con ciò, di dare un senso alla propria esistenza.

Non c'è tema attuale nel quale, in un modo o in un altro, le Chiese non siano implicate: temi etici, sociali, economici, ludici, psicologici, psicanalitici, economici, politici ...

Risuonano ancora alle mie orecchie le contestazioni sociali di qualche seminarista cattolico quando gli veniva fatto presente il primato delle realtà spirituali nella Chiesa: “Che se ne fa dei sacramenti un africano che ha fame? Prima bisogna dargli da mangiare!”. Questo tipo di contestazioni hanno uno speciale agnosticismo neppure tanto nascosto: quello che conta, in realtà, è l'immediatezza materiale. Il resto si può fare ma non è così importante come la materialità. Oltretutto qui è rovesciato il primato dello spirituale sul materiale, dell'anima sul corpo, quel primato che Cristo evidenziava con questa domanda retorica: Che giova infatti all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?” (Mc 8, 36).

Da allora questi seminaristi sono divenuti sacerdoti e alcuni tra loro vescovi. Non fa alcuna meraviglia, quindi, se oggi in molte chiese cattoliche non si respira alcuna aria soprannaturale e, anzi, questa è ritenuta una pura affermazione verbale, quando non è semplicemente disprezzata.

Come oramai spesso sottolineo, siamo dinnanzi ad un arianesimo ecclesiale. Quando si crede nella divinità di Cristo si deve essere ben coscienti che, nella pratica, la Chiesa essendo il Suo prolungamento nel tempo, ha caratteristiche umane ma pure divine. Se nella Chiesa non s'intuisce nulla di divino ma è tutto troppo umano, la si è staccata da Cristo e non ci si può confortare con alcuna promessa divina applicata magicamente. Non ho alcun dubbio su tutto ciò!

Nella Chiesa tutto è collegato a tutto: non si può continuare a porre mano su quanto ricevuto per tradizione, cambiarlo e stravolgerlo senza pensare di non subirne qualche contraccolpo. E il primo contraccolpo che si sperimenta è proprio quello di vivere in un'atmosfera troppo umana, “logica”, autoreferenziale. Dio, anche se talora viene nominato, dov'è? Non c'è! Ecco spiegato il dilemma di molte nostre chiese occidentali “vuote di Dio”.

La Chiesa, in realtà, è una questione di grazia e null'altro! Ma cos'è la grazia? Credo che se poniamo questa domanda al clero odierno otterremo ogni volta una risposta diversa: tot capita, tot sententiae!

Andremo dalla definizione intellettuale che ne diede Martin Lutero (la grazia è la giustificazione che Dio ci dona in Cristo, rendendoci giusti anche se rimaniamo peccatori), a definizioni sempre più imprecise. Forse qualcuno non risponderebbe affatto. Rari sarebbero coloro che si rifarebbero alle definizioni dei catechismi di un tempo.

Il fatto è che gran parte di queste risposte non solo non è precisa ma è fuorviante, segno che tutte queste persone non sanno, in realtà, cosa sia la grazia. È un paradosso se pensiamo che questa vacuità ce la trasmettono molti sacerdoti! 
È come essere davanti da un meccanico che ci dicesse che il cacciavite è fatto a U mentre un altro ritenesse che ha una forma circolare e un terzo negasse addirittura l'esistenza dei cacciaviti. 
Che idea ci faremo di costoro? Che non hanno mai visto un cacciavite ma che in qualche modo ne devono parlare perché devono presentarsi come meccanici! 
Così è gran parte del clero attuale perché quello di ieri, fosse anche stato ignorante a livello esperienziale sulla grazia, almeno ripeteva meccanicamente il catechismo e salvava le apparenze.
Tuttavia mentre nessuno farebbe riparare il motore della propria auto ad un meccanico ignorante di cacciaviti, un prete che straparla sulla grazia o che la nega trova sempre qualcuno che gli da credito! Un laico che si affida a tali preti ne uscirà seriamente danneggiato nel “motore della sua anima ma probabilmente non ha la possibilità di esserne cosciente.

Volendo fare un paragone somatico, come fece l'Apostolo, la grazia è nella Chiesa come il sangue è nel corpo. Ma siccome la Chiesa ha caratteristiche anche divine, non solo credute per fede ma sperimentate nella realtà, la grazia è divina tout-court

So benissimo che nel periodo in cui il tomismo dominava la teologia cattolica si è architettato un escamotage con il quale, pur salvando il carattere soprannaturale della grazia, la si dichiarava di natura creata (quindi appartenente al nostro mondo peribile). Quest'affermazione nasceva dall'idea filosofica che Dio non si può mescolare con il mondo altrimenti viene meno come Dio. Una preoccupazione filosofica ha finito, in qualche modo e sicuramente senza volerlo, per appannare il carattere totalmente trascendente della grazia e anche questo ha aiutato ad inclinare il piano con il quale si è scivolati nell'attuale situazione secolarizzata.

Invece, la grazia è divina perché attraverso la forza della grazia è stata guarita l'emorroissa e il Vangelo lo evidenzia nella frase sfuggita a Cristo in quell'occasione: «Qualcuno mi ha toccato, perché ho sentito che una potenza è uscita da me» (Lc 8, 46). Da questo passo, è evidente che la grazia è qualcosa che proviene da Cristo in quanto Dio poiché, come uomo, non potrebbe fare cose del genere, e tale grazia ha effetti pure sul corpo. Il vangelo ci mostra che è qualcosa di estremamente concreto: è una forza (dynamis, in greco) che determina una guarigione. Ma è altrettanto ovvio che se questi passi evangelici sono ritenuti delle invenzioni, delle pie storielle, pure l'idea della grazia ne esce distorta.

Oltre alla grazia in senso generico (come abbiamo appena visto), un tempo si parlava di “grazia sacramentale”: i sacramenti ricevuti nella fede in Cristo sono veicoli di grazia. Questo in effetti è vero ma non in senso puramente ideale, come spesso si ritiene. La grazia è una forza, accende delle potenzialità normalmente dormienti nell'interiorità umana, abilità la persona a riconoscere o meno la volontà divina senza bisogno di intermediari umani (di qui il terribile sospetto e paura istituzionale davanti ai mistici nell'Occidente cristiano!). 

È qualcosa di molto sperimentale e di sperimentabile al punto che gli antichi padri, penso a san Simeone il Nuovo Teologo (XI sec.), non pensavano possibile esserci se la persona non sentiva alcun suo intervento. La grazia è un'arma, una protezione, una bussola, determina a vedere le cose con degli occhi divini, da la sensazione di una catarsi, di un'elevazione, spinge all'umiltà, al nascondimento, alla custodia della propria interiorità, accende l'intelligenza e scalda il cuore.
Per questo la vera comunione delle persone all'interno della Chiesa si fa nell'unica esperienza di questa grazia (questo è l'unico e autentico significato della frase: Cristo porta all'unità), non con escamotage umani, imposizioni, politiche ecumeniche, ecc. La stessa comunione formale con un gerarca (ad es. con il papa nel Cattolicesimo) non vuole dire assolutamente nulla se non è preceduta ed accompagnata dalla comunione nella grazia perché nella Chiesa non si può prescindere mai da Cristo.

Nei primi tempi del Cristianesimo si pensava che abiurare Cristo fosse possibile solo nel caso in cui la grazia non avesse funzionato e ciò significava che il battesimo ricevuto dovesse essere stato per qualche ragione invalido. Oggi, con questo metro e dinnanzi alla pavidità e alla freddezza di molti cristiani, quanti battesimi sarebbero invalidi?

La grazia è così importante per la Chiesa che in essa se ne dovrebbe sempre parlare. Dovrebbe essere veramente una “sacra ossessione”. Invece non se ne parla affatto e questo vuoto di parola indica benissimo il vuoto di una realtà, per di più di una realtà fondamentale. Al più si parla di etica, non si parla di grazia. Per questo i drammi viscerali che emergono da molti siti internet cattolici sulle questioni morali mi infastidiscono (nonostante sia anch'io preoccupato del libertinismo attuale presente nei chierici e nei laici). 

Infatti, ci muoviamo in una prospettiva sempre secolare, orizzontale, troppo umana, seppur animata dalle migliori intenzioni cristiane.

Una spiegazione c'è: la grazia per poter agire in modo anche sperimentale chiede che una persona lavori molto su se stessa. Questo è uno dei significati della parabola del seme nella terra (Lc 8, 4-15). Ci vuole una terra buona, quindi continuamente lavorata e preparata con il sudore della propria fronte, perché il seme gettato da Dio possa fruttificare. Senza questo lavoro che tradizionalmente si concretizza in lunghe veglie di preghiera, nell'astinenza, nel digiuno e in una vita ascetica nella quale si praticano i comandamenti, il seme cade o sulle spine o sui sassi e in quest'ultimo frequentissimo caso non produce nulla. Senza gli effetti reali della grazia tutto è visto umanamente e di conseguenza al più in modo meramente etico.

Se molti in una Chiesa sono in questo stato è la stessa assemblea ecclesiale che è priva di grazia! Che traditio può esserci in un'assemblea in gran parte dis-graziata? Una traditio puramente formale e, alla lunga, una rielaborazione puramente umana della traditio stessa! La mancanza della grazia nella maggioranza porta alla formalità religiosa (ad un ossequio puramente esteriore) e, alla lunga, al cambiamento radicale di una Chiesa. Mi sembra di vedere, in tutto ciò, il travaglio cattolico dell'immediato preconcilio e del postconcilio, tra gli anni '50 e gli anni '70 ma possiamo tranquillamente vederci la Germania prima e dopo la Riforma luterana. Inoltre, per pars condicio, ci vedrei pure qualche ambiente ortodosso dove la tradizione è vissuta in modo puramente formale e la liturgia diventa solo un pretesto per ritrovare la propria Nazione quando si vive nella diaspora. Qui non si sa o non si vuole sapere che si è già nell'anticamera verso la rovina della Chiesa ...


Giustificare le persone, senza imprimere in esse una sana inquietudine spirituale, significa allontanarle da Cristo, rendere inefficace la grazia (anche se si difende lo strano pseudo-diritto alla comunione eucaristica), trasformare la Chiesa in un'associazione di diritti umani, equivocare la rivelazione, in una parola: arianizzare la Chiesa stessa. 

Il Cristianesimo, quello autentico, sta da un'altra parte ed esattamente dove Chiesa e grazia sono intimamente unite e vive, come il corpo e il suo sangue. Ciò chiederà anche fatica, è vero, ma è Cristo stesso che parla di “porta stretta” per il Regno dei Cieli, non di cammini semplici e larghi ma vuoti di grazia.


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