Liturgia copta |
In questo post affronto
il significato di alcuni termini-chiave, sui quali si appoggia tutto
il discorso che, sotto mille aspetti, stiamo facendo in questo blog.
Le parole sono importanti
ed è essenziale cercare di stabilirne un valore preciso. Se non lo
si fa è inevitabile l'incomprensione e l'equivoco.
Sotto certi aspetti in
altri post ho già in parte stabilito il significato di tali termini.
Lo voglio fare ancora cercando di perfezionarlo perché negli ultimi
post abbiamo fatto un discorso molto importante legato, tutto
sommato, a queste parole.
Rito
Il termine “rito”,
almeno nel suo significato, non è legato al mondo cristiano
essendogli ben precedente. Da sempre gli uomini hanno compreso che il
rapporto collettivo con la divinità (qualunque esso sia) si può solo
esprimere in modo rituale. Il rito, dunque, non è generalmente altro che un
insieme di testi prefissati e di gesti prestabiliti indirizzati alla
divinità, caratterizzati da una certa ieraticità. Nel
rito si stabilisce un linguaggio simbolico che consiste nell'uso di
elementi del mondo creato i quali rimandano al mondo celeste o
divino. Ne risulta che è proprio del rito evocare la divinità e
renderla in qualche modo presente, chiedendole favori. La figura del
sacerdote, in questo contesto, s'identifica come quella di un
intercessore, come una “cerniera” tra il mondo creato e quello
increato o divino.
Quest'insieme di realtà,
presenti nel mondo pagano e in quello ebraico, sono state assunte
anche nel mondo cristiano. È stato come assumere un vocabolario
preesistente ma per articolare un discorso nuovo rispetto a prima.
Coloro che parlano di una
“paganizzazione” del Cristianesimo osservando quest'inevitabile
fenomeno, non si rendono conto che, come noi non possiamo prescindere
dal nostro vocabolario per trasmettere le nostre conoscenze (anche quelle nuove), così il
Cristianesimo stesso non ha potuto né voluto prescindere dal
“vocabolario rituale” per comunicare i suoi misteri salvifici,
rivelati da Cristo, e oramai resi disponibili nell'azione liturgica.
È proprio del rito trasmettere all'uomo quanto celebra, lavorando
nella sua interiorità. Un rito vero deve, dunque, avere una forza
spirituale, nascere da un'interiorità che l'assunta e irradiarsi su
molte altre interiorità. La figura del sacerdote nel Cristianesimo, così, non riveste un mero compito d'intercessione, un'attività passiva o formale, ma diviene un
irradiatore proiettando, non con la forza della pura ragione o di un
solo discorso umano ma soprattutto attraverso le forme cultuali,
un'energia tutta interiore che normalmente si denomina con il termine
di “grazia” (1). Non è dunque un caso che per l'Oriente bizantino il
numero dei sacramenti non sia stato mai precisato dal momento che
l'irradiarsi della grazia nell'evento cultuale avviene in molteplici
forme. Questo, però, non è da intendersi in senso magico ma in
senso profondamente spirtuale in cui celebrante e assistenti
assumono una forte dinamicità interiore: esiste, come si dice, una compenetrazione dell'umano e del divino dove Dio e l'uomo operano assieme in sinergia. Ecco perché è impossibile
avere un approccio decente con la liturgia se non si ha una minima
sensibilità e attenzione di ordine interiore.
Ritualismo
Il termine “ritualismo”,
invece, si pone su un piano decisamente diverso. È l'esecuzione di
atti e parole rituali, come se si stesse facendo un rito, ma
spogliandolo completamente di prospettiva interiore. È come porre nelle vie
dei cartelli stradali per sola “bella figura” o perché si crede
che, così facendo, non ci saranno magicamente più incidenti.
Normalmente sono ritualistiche tutte quelle comunità cristiane che
cercano di fare rivivere un culto tradizionale slegandolo da tutti
i suoi profondi significati. Ad esempio, ci sono alcuni, nel mondo
cattolico, che pensano di ristabilire le antiche consuetudini
liturgiche perché, così facendo, obbediscono meglio alle leggi
della Chiesa. Ho presente casi concreti, gente molto aderente alle norme e ai canoni. Il fatto di obbedire esteriormente a delle leggi (anche
giuste) non comporta necessariamente alcun lavoro di tipo interiore
che la liturgia richiede per essere veramente tale. È dunque giusto
definire queste comunità come tradizional-ISTE e non tradizionali
perché esasperano alcuni lati di verità lasciando in ombra molti
altri senza rendersi conto che, così, introducono un profondo
squilibrio in nome di una tradizione mal interpretata. Se l'equilibrio antico non è più rispettato, l'efficacia
liturgica non è più garantita. Una comunità tradizional-ISTA è
dunque ritual-ISTA. Anche a livello di esperienza personale ho
constatato due estremi in questo tipo di comunità: o l'indifferenza per la vita spirituale
- per costoro sarebbe una “fumosa filosofia” (2) - o una vita spirituale concepita
come “atto magico” e vissuta in modo massimalista e fanatico. Il fenomeno del ritualismo è trasversale a tutte le confessioni non essendo altro che l'esecuzione di un rito in modo formale (estetico o puramente emozionale) e senz'anima interiore.
Aritualità
Sul versante opposto ci
sono culti “arituali”, ossia contrari ad ogni forma di ritualità.
Direi che, oggi, questi culti prevalgono nell'85% del Cattolicesimo.
Il discorso che si fa in loro favore è pressapoco il seguente:
“Quando Gesù Cristo ha istituito l'eucarestia l'ha fatto nel corso
di una cena, in una sala da pranzo. Cos'ha questo in comune con un
rito o un tempio? Lo ha fatto discorrendo con i discepoli, non
facendo un rito” (3).
Ovviamente non si vuole
notare la situazione completamente eccezionale in cui l'evento è
avvenuto, come se in ogni messa ci siano esattamente le stesse condizioni dell'ultima Cena.
Di conseguenza chi
sostiene questa linea disprezza ogni culto tradizionale e trasforma sempre più il rito (o quanto rimane
di esso) in una forma cultuale “arituale”. La messa ha sempre più
una forma dialogata, la divinità fa sempre più da “tapezzeria” o da pretesto per un incontro unicamente tra uomini, la cui attenzione si concentra
sempre più tra loro stessi. Queste comunità cristiane finiscono per implodere letteralmente in loro stesse ma non se ne accorgono perché sono troppo chiuse nel loro mondo! Rinvengo questa forma patologica soprattutto all'interno di alcuni movimenti cattolici...
Chi subisce questa
mentalità finirà inevitabilmente per dire: “il singolo fedele
DEVE poter osservare l'altare, il sacerdote e i fedeli che lo
circondano”. E così, se l'edificio ecclesiasico lo impedisce, si iniziano a mettere video a circuito chiuso un poco ovunque.
Questo bisogno (direi) malato e morboso di buttare l'occhio sempre al di fuori di sé, distoglie il singolo dal portare l'attenzione al suo cuore (dal quale tutto deve partire e arrivare), dove il culto liturgico deve necessariamente giungere.
Questo bisogno (direi) malato e morboso di buttare l'occhio sempre al di fuori di sé, distoglie il singolo dal portare l'attenzione al suo cuore (dal quale tutto deve partire e arrivare), dove il culto liturgico deve necessariamente giungere.
Se lo sguardo inizia a vagare fuori di sé, disperdendo le energie dell'interiorità, avviene inevitabilmente un rovesciamento: la liturgia assume una forma “arituale”, dunque pian piano spettacolare. È quanto sta accadendo un po' ovunque.
Clero e laici, oramai
disabituati al fatto che esiste un'interiorità da coltivare che è
il centro, il trono della liturgia esteriore, puntano verso un culto
sempre più spettacolare e “arituale”.
Come fare per ristabilire
l'ordine? Personalmente penso che quest'85%, a meno che non abbia una
particolare “folgorazione”, non cambierà. Chi è abituato a
vivere zingarescamente, vagando di città in città, non potrà mai
capire chi ha una casa e ci vive bene dentro, mantenendola pulita e
accogliente. In tal modo, chi vive una liturgia che ha una forma non
rituale e spettacolare, potrà capire molto difficilmente chi ha
bisogno di un culto che si esprime in forma rituale e sacrale. Faccio un esempio per spiegarmi meglio. Se ad
uno zingaro uno Stato offre un appartamento, (come accadde in
Romania) succede che ci fa abitare i propri animali mentre riserva una tenda in giardino per sé e i propri familiari pur di poter continuare a vivere come prima. Lo stesso atteggiamento ha chi vuole una liturgia “arituale”: vuole vivere senza una regola precisa o ne stabilisce lui di volta in volta.
Ecco perché non possiamo
avere un vero dialogo con queste persone e, in definitiva, non
possiamo cambiarle!
In questo modo sia la
forma “arituale” che quella “ritualistica” prescindono da un
reale ed equilibrato lavoro spirituale forse perché, nella maggioranza dei casi,
le persone che vanno a queste messe non ci credono affatto o lo credono in modo molto distorto, quindi antitradizionale.
Sacro e profano
“Sacro e profano”
sono termini che, a detta dei biblisti contemporanei, il
Cristianesimo ha bell'è che superato. La divisione stabilita da
queste parole, essi sostengono, inserisce nel reale una dicotomia
insanabile tipica del paganesimo. Sono gli dei pagani – essi ammettono –
che non vogliono mescolarsi con il mondo degli uomini e lo osservano
con sufficienza dalla loro sfera sacra. Il mondo profano, dunque
umano, è dominato dalla materia che non ha nulla di buono ed elevato
in sé ed oscura la realtà. “Sacro e profano”, aggiungono,
rimanderebbero ad un mondo platonizzante. Se nel Cristianesimo fino a
pochi decenni fa si ragionava ancora in questi termini, ora, con la
riscoperta della prospettiva biblica, c'è un vero e proprio
superamento. Siamo tornati ad una visione genuina! Il Dio che
crea nella genesi afferma: “Tutto è buono” per cui non ha senso
andare contro quanto Lui stesso ha stabilito, concludono questi
biblisti. Ne consegue che "tutto è santo, non sacro, santificato dalla presenza di Dio"(4).
Tra l'altro, è proprio per questo motivo che, in qualche gruppo cattolico, non si benedice mai il cibo ma si preferisce benedire Dio per il cibo; è la berakà ebraica che ritroviamo anche nell'offertorio della Messa rinnovata cattolica.
Tra l'altro, è proprio per questo motivo che, in qualche gruppo cattolico, non si benedice mai il cibo ma si preferisce benedire Dio per il cibo; è la berakà ebraica che ritroviamo anche nell'offertorio della Messa rinnovata cattolica.
A livello di architettura
ecclesiastica, l'applicazione di queste idee comporta l'assenza del
presbiterio o l'assorbimento del presbiterio – o santuario –
nella navata della chiesa. Se tutto è santo perché creare ambiti
“sacri”? Di più: se “tutto è santo” perché celebrare in
una chiesa? Ecco uno dei motivi per cui, appena si può e la situazione lo consente, si preferisce fare le messe allo
stadio, in un campo montano o in riva al mare...
Se esaminiamo questo
discorso prescindendo da ogni ulteriore riferimento (cosa che
normalmente si fa) esiste indubbiamente una certa coerenza. Ma questo
discorso patisce fin da subito di un grosso handicap: il Dio che,
creando, dice “tutto è buono” lo dice … a partire da SE
STESSO e riferendosi ad un uomo che è a sua immagine e somiglianza!
Solo un uomo che diviene
“come Dio” può dire la medesima cosa. Solo Adamo prima della sua
disobbedienza poteva dirlo.
Ma ora chi è come Dio? I nostri "biblisti" tacciono....
Ma ora chi è come Dio? I nostri "biblisti" tacciono....
Con la pienezza della
rivelazione operata da Cristo, con l'istituzione della Chiesa e dei
sacramenti, l'uomo è divenuto come Dio? Da quanto appare, l'umanità
rimane sempre in una condizione molto fragile e decaduta, nonostante
tutto.
Nell'oriente bizantino la
santità è sempre associata alla partecipazione con la grazia divina
e, quindi, alla “divinizzazione” dell'uomo. Ma l'uomo
“divinizzato” o santificato, per quanto manifesti la verità del
Cristianesimo, non è che una rarità, dinnanzi ad una moltitudine di
persone in tutt'altro stato.
Se, ad esempio, gli
uomini fossero tutti santi nessuno si scandalizzerebbe o si
comporterebbe male in società. Nessuno avrebbe idee maliziose, neppure dinnanzi alla nudità del suo prossimo. Ma siccome non
è così, è saggio assumere delle precauzioni. È saggio avere altri
orientamenti.
Diversamente si manifesterebbe un'assurda ingenuità, come se il mistero del male non fosse ben presente e radicato nel mondo, al punto che san Giovanni nel suo vangelo quando parla di "mondo" lo intende sempre come la realtà che ha rifiutato Dio perché aderente al male (5).
Diversamente si manifesterebbe un'assurda ingenuità, come se il mistero del male non fosse ben presente e radicato nel mondo, al punto che san Giovanni nel suo vangelo quando parla di "mondo" lo intende sempre come la realtà che ha rifiutato Dio perché aderente al male (5).
Perciò se il discorso
“sacro-profano” non vale nel versante di Dio e del primo Adamo (e qui la Bibbia ha ragione) rimane
assolutamente valido nel versante dell'uomo attuale, uomo fragile e
decaduto, che osserva la realtà circostante proiettando in essa tutte le sue passioni disordinate. Il discorso
“sacro-profano” vale come mezzo per educare la persona in una
prospettiva spirituale. Se una chiesa è resa “sacra” come
edificio, rispetto al mondo circostante non è perché quest'ultimo è
necessariamente malvagio ma perché, proprio in essa, avvengono
permanentemente delle azioni che collegano il mondo umano con quello
divino, cosa che non avviene, da che ne so, in un parco pubblico, tanto per fare un esempio. Dio irradia la sua bontà nutriente ovunque ma l'uomo è in grado di
fare da “ombrello”, trattenendo quest'irradiazione. È questo il
principio del “profano” cristianamente e spiritualmente inteso.
Il principio del “sacro”, invece, indica un'esposizione diretta
alla presenza divina senza un'interferenza umana che lo impedisca ma, piuttosto, con una collaborazione attiva dell'uomo stesso.
Chi ha maturato in sé
questo tipo di visione pratica – constatabile in ogni momento della
storia umana – costruirà delle chiese con valore sacro,
distinguerà i presbiteri dalle navate, utilizzerà i veli nella
liturgia, userà canti consoni alla liturgia, ecc.
26 aprile 1478: congiura dei Pazzi nel duomo di Firenze con l'uccisione di Giuliano De' Medici, fratello di Lorenzo. |
Anche il disuso dei
termini “sacro-profano”, alla fine, si spiegano per una mancanza
reale di prospettiva spirituale nella vita cristiana, esattamente
come chi diffonde una liturgia ritualistica o arituale. Non ci si
avvede che l'oscuramento della spiritualità, alla fine, porta alla
negazione della verità del Cristianesimo, alla sua alterazione, trasformandolo definitivamente in qualcosa di puramente e logicamente umano. È quanto sta
accadendo sotto i nostri occhi. A questo punto vale la pena domandarsi: "Il figlio dell'uomo quando tornerà troverà ancora la fede sulla terra?" (Lc 18, 8).
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NOTE
(1) Questo concetto ha un'importanza capitale! Nello stesso mondo non cristiano il rito non ha bisogno di spiegazioni e dialoghi. Si mostra come "fatto", "azione sacra" che agisce per la sua stessa forza sugli astanti. Nel Cristianesimo tradizionale è presente lo stesso concetto, tant'è vero che la cosiddetta "omelia" ancor oggi in Oriente è opzionale. Solo un sacerdote particolarmente versato nell'arte omiletica ha, normalmente, il permesso di farla. Gli altri lasciano "agire" l'evento liturgico.
Che nel mondo cattolico molti abbiano iniziato a deviare, concependo la liturgia magicamente, lo capiamo dalla Riforma luterana in cui Marin Lutero riduce, esasperato, la liturgia a Sermone sulle letture, dunque ad un'esposizione puramente razionale della Scrittura, prescindendo dal mondo simbolico della liturgia stessa e da azioni e parole sacre con cui era stata trasmessa fino ad allora. Un eccesso ha determinato, per contrapposizione logica, un altro eccesso. Il concilio di Trento ha semplicemente fatto quadrato attorno alla tradizione liturgica cattolica conservata fino ad allora minacciando di anatema chi la alterasse. La mancanza di un profondo spirito liturgico portò ad una certa stagnazione da cui nacque il bisogno di fare qualcosa.
Anche le "messe dialogate" nascquero da tale bisogno, ancor prima del Concilio Vaticano II ma manifestarono una mentalità nuova (la stessa, in fondo, del famoso riformatore tedesco). Questa mentalità ebbe la meglio nel mondo Cattolico. Se, orologio alla mano, osserviamo la distribuzione temporale della nuova liturgia cattolica, noteremo che il culto assorbe poco più del tempo rispetto all'omelia. In alcuni casi (in certi movimenti cattolici) è l'omelia a far da padrona sul culto. È andato smarrito il concetto che la liturgia è "azione sacra" e la si è ridotta a "spettegolamento religioso"!
2) Un anziano signore tradizionalista, legato ad una fraternità tradizionalista cattolica, affermò proprio questo e non era l'unico caso. Per lui la spiritualità non era che una filosofia, parole vuote che non corrispondevano a nulla di pratico. L'uomo in morte fu celebrato come autentico "testimone" cristiano ma forse perché aveva lasciato alla suddetta fraternità ... due miliardi di vecchie lire!
3) Si osservi che è lo stesso tipo di discorso con cui le comunità nate con la Riforma protestante motivano il loro culto.
4) È il discorso che, anni fa, mi faceva uno studente, ora divenuto biblista e insegnante nelle Università teologiche romane. La sicumera di questo prete - che da allora non è affatto cambiato - mi ha sempre molto colpito. In queste menti esiste un riduzionismo notevole e, d'altra parte, nel caso di questa persona siamo davanti ad un sacerdote decisamente molto secolarizzato. Se tutto è santo, non esiste alcun dovere da parte dell'uomo di esercitarsi asceticamente perché va bene così com'egli è. Se tutto è santo l'uomo non deve chiedere perdono a Dio ma, semmai, al suo prossimo, se non sa essere socialmente solidale (unico peccato concepibile). Devo constatare che molti tradizional-ISTI, proprio perché tali, hanno armi completamente spuntate dinnanzi alle provocazioni di questo clero secolarizzato che continuerà, così, la sua corsa da riduzionismo ad ulteriore riduzionismo mietendo vittime.
5) I biblisti cattolici attuali, però, hanno una forte ritrosia a dover ammettere questo al punto che preferiscono porre in ombra la constatazione giovannea che noi, per altro, sperimentiamo ogni giorno sotto varie forme e maniere. Il mondo, per questi ideologi, non è che pura bontà.