Quest’articolo,
tradotto da un recente libro, è di fondamentale importanza e mostra che il
simbolo, nell’ambito della liturgia cristiana, si è
progressivamente oscurato in Occidente creando danni enormi. Tale oscuramento
inizia a prodursi pure nell’Oriente cristiano. Tuttavia, senza una precisa conoscenza e coscienza di cosa sia il simbolo nella liturgia è impossibile vivere e comprendere le antiche liturgie cristiane e si finirà per crearne di nuove, in totale rottura con le antiche.
La
Liturgia, lo abbiamo mostrato, è un’anamnesi che attualizza
l’unico sacrificio di Cristo, compiuto nel tempo attraverso la Sua
economia salvifica tra noi e,
allo stesso tempo, una realtà e un valore eterno, un significato e
un’efficacia per ogni istante e per ogni tempo (cfr. Ebr
10, 12-14), ciò che viene manifestato ogni volta dalla
Liturgia stessa.
Il
sacrificio di Cristo nella Liturgia è, ciononostante, un sacrificio
incruento, come dice la prima parte della Liturgia dei fedeli [di san
Giovanni Crisostomo] e la preghiera collegata all’inno dei
cherubini. San Germano di Costantinopoli parla di un “sacrificio
razionale” e “mistico” (1) e san Nicolas Cabasilas d’un sacrificio “spirituale” (2).
Ciò
significa che non si compie allo stesso modo realistico
del sacrificio originale di Cristo, alla fine della sua vita terrena
a Gerusalemme. Fosse così, non si sarebbe compiuto “una volta per
tutte” ma sarebbe reiterato e non ci sarebbe stato un sacrificio
unico, di portata universale, ma una moltitudine di sacrifici, di
portata particolare.
Ecco
perché il sacrificio avvenuto lungo la
Liturgia pur essendo reale ed essendo, come abbiamo detto,
un’anamnesi, ossia un’attualizzazione dell’unico sacrificio di
Cristo, prende una forma simbolica e si compie dietro le apparenze
del pane e del vino e attraverso una moltitudine di altri simboli.
Certi Padri, come Dionigi l’Areopagita o Massimo il Confessore,
hanno parlato di simboli per la stessa eucarestia, non per negare che
il pane e il vino divengono realmente il corpo e il sangue di Cristo,
ma per notare che il corpo e il sangue di Cristo non assumono la
forma di una carne insanguinata, ma conservano l’apparenza esterna
del pane e del vino, essendo “misticamente” corpo e sangue di
Cristo, ossia in modo nascosto.
Teodoro
dice che il sacrificio liturgico è “ad immagine delle realtà
celesti” che la fede ci permette di vedere spiritualmente
attraverso diversi simboli:
I
sacerdoti
della Nuova Alleanza ripetono continuamente, in ogni luogo e tempo,
lo stesso sacrificio. Effettivamente il sacrificio che nostro Signore
ci ha offerto accettando la morte è unico. […] Tutti noi, dunque,
in ogni luogo, in ogni tempo e continuamente, celebriamo l’anamnesi
di questo stesso sacrificio: “Ogni volta che mangiamo di questo
pane e beviamo da questo calice, commemoriamo la morte del Signore
affinché egli venga” (1 Cor 11, 26). La celebrazione di questo
terribile sacrificio è dunque immagine delle realtà celesti. […]
La fede ci permette di vedere nel nostro spirito le realtà celesti e
di considerare che Cristo, morto per noi, risuscitato e salito al
cielo, è oggi ancora immolato attraverso questi simboli. Poiché noi
consideriamo, con i nostri occhi, con fede,
questa anamnesi ora celebrata, siamo condotti a vedere ancora che
Cristo muore, risuscita e sale al cielo come lo fece un tempo per
noi (3).
La
Liturgia, dunque, esprime l’unico sacrificio di Cristo
contemporaneamente temporale e atemporale, attraverso diversi mezzi
simbolici, particolarmente delle parole e
diversi segni sensibili che costituiscono il suo
rituale.
Dopo
aver affermato che la Liturgia è “un’anamnesi della vera
immolazione”, Teodoro di Mopsuestia spiega:
Il
pontefice, effettivamente, compie realtà celesti attraverso dei
segni e delle figure e il sacrificio da lui celebrato è una
manifestazione di tali realtà. I suoi atti sono come un’immagine
della Liturgia celeste (4).
Una
ragione collegata all’utilizzo permanente
del simbolismo nella Liturgia è che il celebrante (vescovo o prete)
non è propriamente il prete ma un’immagine del Gran Sacerdote,
Cristo, al quale un’espressione liturgica dice: “Sei Tu che offri
e Tu che sei offerto, Tu che ricevi e Tu che sei distribuito”.
Teodoro di Mopsuestia dice a tal proposito:
Poiché
nostro Signore si è offerto in sacrificio ed è così divenuto per
noi Gran Sacerdote, “colui che sta presso l’altare è immagine
lui stesso del Gran Sacerdote”. Non offre il
proprio sacrificio ed
egli non ne è neppure il vero
Gran Sacerdote. La Liturgia di quest’ineffabile sacrificio
viene da lui compiuta attraverso dei simboli che rappresentano,
attraverso dei segni, le realtà celesti (5).
Abbiamo
pure visto ugualmente che la Liturgia è un anticipo del Regno dei
cieli di cui essa ci dona la caparra, di cui essa ci permette di
gustare le primizie ma non ancora pienamente e che
ci sarà data nell’al-di là, dopo la resurrezione e
l’ultimo giudizio. È quanto spiega san Massimo nel suo commento
alla Liturgia:
Attraverso
la grazia della fede, crediamo di partecipare proprio qui, nella
presente vita, a questi doni dello Spirito santo; nel tempo futuro
[crediamo di avervi parte], nella verità, in modo sostanziale, nella
realtà stessa, secondo la speranza indefettibile della nostra fede e
la promessa sicura e infallibile di Colui che l’ha fatta. Se
abbiamo osservato i comandamenti meglio possibile, crediamo che vi
parteciperemo quando passeremo dalla grazia nella fede alla grazia
nella visione, ossia quando nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo ci
trasformerà in Lui stesso levandoci le stimmate della corruzione che
ci segnano e ci farà dono dei misteri che ci sono stati prefigurati
attraverso i simboli percepibili da quaggiù (6).
Questi
concetti raggiungono le spiegazioni di Teodoro di Mopsuestia:
Per
il momento, benché, secondo la parola dell’apostolo Paolo, saremo
chiamati da Cristo ad entrare nella Nuova Alleanza, non abbiamo
ancora ricevuto la salvezza e la vita se non nella speranza di esse.
Infatti non possediamo ancora le vere realtà, poiché attendiamo
pazientemente “di lasciare questo corpo per dimorare presso il
Signore, è nella fede e non nella chiara
visione che camminiamo” (2 Cor 5, 8). Non avendo ancora ricevuto i
beni celesti, viviamo per la fede fino al giorno in cui raggiungeremo
nostro Signore in cielo per vederLo non più come attraverso uno
specchio, in modo confuso, ma faccia a faccia. Oggi noi avanziamo
nella fede verso Cristo, nostro Gran Sacerdote, primizia dei beni che
ci sono destinati. Attendendo di ricevere, nel tempo fissato,
attraverso la resurrezione, tutti questi beni, abbiamo ordine di
celebrarli quaggiù per mezzo di simboli e di figure (7).
Nella
Liturgia, come in tutti i misteri o sacramenti nella Chiesa
ortodossa, i simboli sono onnipresenti, nei gesti negli oggetti e
nelle parole del rituale (8).
Una
prima questione che si pone su questi simboli è quella del loro
ruolo e del loro senso.
Nel
suo libro L’Eucarestia, sacramento del Regno, nel
quale si sostiene un’importante dimensione critica verso la
comprensione e la pratica tradizionale e dove si
intende rivoluzionare l’approccio verso l’Eucarestia, p.
Alessandro Schmemann si schiera contro l’approccio “esplicativo”
dei simboli liturgici. Secondo lui, il simbolo non dev’essere
spiegato come se rinviasse a qualcos’altro che c’inserisce
immediatamente nel mistero (9).
Siamo
d’accordo se si tratta di rifiutare una comprensione
intellettualista del simbolismo, poiché precisamente i simboli (in
generale) son sempre utilizzati relativamente a delle realtà
astratte, o a delle realtà inaccessibili alla ragione, difficili da
comprendere e inconcettualizzabili e che, dunque, devono essere
avvicinate e afferrate con un altro mezzo. Più spesso il simbolo si
fa percepire dai sensi e vuole esprimere in modo sensibile una realtà
sovrasensibile, metafisica e spirituale.
È
pure vero che i simboli hanno una capacità di integrarci alla
Liturgia attraverso un mezzo che non è solo quello, limitato, del
pensiero ma anche del nostro corpo (attraverso i sensi che
percepiscono i simboli nella loro dimensione sensibile) e delle
disposizioni che i simboli producono nell’anima manifestando così
il loro valore operativo e non solamente
speculativo. Perciò san Nicolas Cabasilas spiega:
Ciascuno
[dei gesti che si compiono nel corso della Divina Liturgia] si fa per
l’utilità presente ma, allo stesso tempo, simbolizza qualcosa
delle opere di Cristo, delle sue azioni e delle sue sofferenze. Ne
abbiamo un esempio nel trasferimento del santo Vangelo all’altare e
in seguito nel trasferimento delle oblate. L’uno e l’altro hanno
la loro opportunità: il primo per leggere il Vangelo; il secondo
perché si compia il sacrificio. Entrambi significano l’apparizione
e la manifestazione del Salvatore: dapprima la manifestazione ancora
oscura e imperfetta, all’inizio della sua vita; in seguito la
suprema e perfetta manifestazione. Vi sono certi riti che non hanno
alcuna utilità pratica; non sono compiuti se non per un simbolismo,
ad esempio il fatto di forare il pane e di tracciarvi il segno d’una
croce […]. Per quanto riguarda i riti compiuti nella liturgia delle
oblate, hanno tutti rapporto con l’economia dell’opera del
Salvatore. Il loro fine è quello di porre sotto i nostri occhi lo
spettacolo di questa divina economia per santificare le nostre anime
e, attraverso ciò, abilitarci a ricevere questi sacri doni. […] Le
disposizioni con le quali bisogna avvicinarsi ai santi misteri e
senza le quali sarebbe assolutamente empio gettare su di essi anche
un semplice sguardo, [sono] il rispetto, la fede e l’amore pieno di
fervore per Dio.
Bisognava
pure che una contemplazione capace di inculcarci questi affetti fosse
significata nell’ordinamento della sacra Liturgia. Bisognava che
non considerassimo solo con il pensiero, ma pure che vedessimo in
qualche maniera con i nostri occhi
l’estrema povertà del Ricco per eccellenza, la venuta quaggiù di
Colui che abita in tutti i luoghi, gli obbrobri del Benedetto, le
sofferenze dell’Impassibile; di quale odio è stato oggetto e
quanto ha amato, fin dove si è umiliato l’infinitamente Grande,
quali sofferenze ha sopportato, quali azioni ha compiuto per
prepararci questa tavola dinnanzi a noi. Ammirando così la novità
dell’opera salvifica, meravigliati dall’abbondanza della
misericordia, siamo portati a venerare Colui che si è preso pietà
di noi fino a questo punto, Colui che ci ha salvati a questo prezzo,
a confidargli le nostre anime, a rimettergli la nostra vita, a
infiammare i nostri cuori nel fuoco del suo amore.
Disposti
in tal modo, possiamo in maniera sicura
e semplice avvicinarci al braciere degli augusti misteri.
Di
fatto, per porsi ora in tali disposizioni, non è sufficiente avere
appreso una volta le cose di Cristo e conservarne la conoscenza;
bisogna pure attualmente avere lo sguardo del pensiero fisso su tali
verità e contemplarle, sforzandoci di allontanare ogni idea estranea
ad esse se veramente vogliamo, in vista di
questa santificazione, far divenire l’anima adatta a quanto ho
detto. Effettivamente, se teniamo conto delle esigenze della pietà,
[…] e se nel momento della celebrazione dei misteri non
consideriamo con cura tutte le cose attaccando, al contrario, il
nostro spirito ad altri oggetti, non traiamo
alcun profitto da tale conoscenza: non può inculcarci nulla degli
affetti precedentemente evocati. Poiché le nostre disposizioni
corrispondono ai pensieri che ci occupano e i sentimenti da noi
provati sono quelli che tali pensieri producono in noi.
Ecco
perché è stato immaginato il simbolismo di cui ho parlato che non
si limita solo a significare tutto ciò con delle parole ma le pone
interamente sotto i nostri occhi e tutto ciò visibilmente attraverso
l’intero corso della Liturgia: da una
parte ciò avviene per agire più facilmente sulle nostre anime, non
per offrirci una semplice visione, ma ancora per disporre in noi un
sentimento, poiché una rappresentazione visuale può produrre in noi
un’impressione più profonda (10).
D’altra parte è pure per non favorire l’oblio e per non lasciare
il pensiero volgersi verso un altro oggetto fino al momento in cui
siamo condotti alla sacra tavola. Ripieni, dunque, di tali pensieri e
con la memoria nel suo pieno vigore, partecipiamo ai divini misteri,
aggiungendo in questo modo una santificazione ad un’altra, quella
del rito a quella delle contemplazioni (11).
È
per tanto falso credere, come fa p. Alessandro
Shmemann, che il simbolo abbia un valore per se stesso e non rinvii a
un’altra cosa o non abbia rapporto con la cosa alla quale egli
rinvia. Ogni simbolo è fondato su un rapporto analogico con quanto
simbolizza, questo rapporto è a volte convenzionale ma più sovente
naturale. Così i veli utilizzati lungo la liturgia per coprire il
diskos e il calice possono simbolizzare la collocazione nella
tomba attraverso la loro analogia con il lenzuolo funebre e la loro
caratteristica avvolgente. Il grande velo (o aìr) può pure
simbolizzare gli angeli per la sua ampiezza, la sua flessibilità e
la sua capacità di muovere l’aria quando lo si agita nel momento
del Credo, analogamente con le ali degli angeli.
Ciononostante,
analogia non vuol dire identità e dunque il simbolo crea una
prossimità con quanto simbolizza, ma testimonia allo stesso tempo
una distanza, il che gli permette di non essere confuso con la realtà
stessa e di manifestare attraverso i suoi limiti il carattere
trascendente di tale realtà.
Per
quanto utilizzati per indicare delle cose difficilmente comprensibili
o inesplicabili, e date alla contemplazione piuttosto che alla
speculazione intellettuale, i simboli devono essere interpretati e
spiegati nella misura del possibile, altrimenti danno l’impressione
d’essere degli atti o degli oggetti privi di senso, favorendo un
approccio sia oscurantista che formalista, finendo così per essere
rifiutati o abbandonati. È ciò che è successo nel quadro del
cattolicesimo romano in Occidente che, in occasione della riforma
liturgica ispirata dal concilio Vaticano II, ha seguito il
protestantesimo nella via dello spogliamento, svuotando la messa e i
rituali sacramentali da una grande parte dei loro simboli con il
pretesto che i fedeli (e spesso i preti) non li comprendevano più.
Come abbiamo mostrato altrove (12),
la Chiesa ortodossa è minacciata dallo stesso fenomeno attraverso
alcuni vescovi e preti, ispirati per lo più dai riformisti della
Scuola di Parigi (Nicolas Afanassieff, Paul Evdokimov, Alexandre
Schmemann), per cui tralasciano nelle loro diocesi o parrocchie un
certo numero di simboli liturgici, sia perché questi si oppongono
alle loro concezioni (ad esempio le porte sante restano aperte o
l’iconostasi è smantellata – o non edificata – per la ragione
che tutto ciò si oppone a una concezione dell’assemblea come
insieme indifferenziato), sia perché tali simboli non sono più
correttamente compresi.
Padre
Alessandro Shmemann si oppose molto chiaramente, in più sue opere (e
in particolare nel suo Journal)
a tutta la tradizione mistagogica bizantina (rappresentata
particolarmente da Dionigi l’Areopagita, san Massimo il Confessore,
san Germano di Costantinopoli, san Nicola Cabasilas o san Simeone di
Tessalonica) che si è, al contrario, sforzata di rivelare la
ricchezza di significato dei simboli liturgici. L’ermeneutica
(ossia l’interpretazione dei simboli) è inerente all’esegesi che
tutti i Padri hanno praticato nelle loro omelie o nei loro scritti e
che è uno degli impegni della predicazione nella Chiesa.
Noi
riteniamo che tale tradizione ermeneutica costituisca il buon
approccio ma che essa non debba essere razionalizzata ma vista in
modo contemplativo, ossia sia in modo intelligente che orante, in un
termine: in modo spirituale.
(Jean-Claude
Larchet, La vie liturgique, Paris 2016, pp. 178-184)
_______________________________________
Note
1) Sulla Divina Liturgia, 37.
Note
1) Sulla Divina Liturgia, 37.
2) Spiegazione
della Divina Liturgia, LI, 1.
3) Omelie
catechetiche, XV, 19-20.
4) Ibid.,
15.
5) Ibid.,
21.
6) Mistagogia,
XXIV, PG 91, 704D-705A.
7) Omelie
catechetiche, XV, 17.
8) Precisiamo
“nella Chiesa ortodossa” poiché nel Cattolicesimo romano, in
seguito al concilio Vaticano II, un gran numero di simboli sono
stati soppressi; nelle cerimonie protestanti, dove il cristianesimo
ha raggiunto il più basso grado della secolarizzazione, il
simbolismo è divenuto praticamente inesistente.
9) L’Eucarestia,
sacramento del Regno, Parigi
2005, pp. 21-26.
10) Sottolineato
da noi.
11) Spiegazione
della Divina Liturgia, I, 9-14.
12) “Alle
fonti dei tentativi di riforme liturgiche di questi ultimi decenni
in certe parrocchie ortodosse: le opere di padre Alessandro Shmemann
e di padre Nicolas Afanasieff”, Црквене
Cmyouie / Church Studies,
9, 2012, p. 397-408.
Il simbolo liturgico tende oramai ad essere un "residuato bellico" in occidente. Faccio un solo esempio, tralasciando gli infiniti di questi ultimi anni: al momento in cui si fece la riforma liturgica voluta da mons. Bugnini (con l'approvazione di Paolo VI) si decise di cambiare il Kyrie eleison iniziale della messa. Da 9 invocazioni (3 Kyrie, 3 Christe, 3 Kyrie) si passò a 6 (2 Kyrie, 2 Christe, 2 Kyrie) poiché venne ritenuto più "pratico". In realtà il 3 è un numero che fa evidente riferimento alla Trinità e non è per una pura questione di devozione che veniva fatto ma per confessare la verità di fede nell'unico e trino Dio.
RispondiEliminaQuesto del Kyrie, è solo un esempio, piccolo se si vuole, ma che mostra sufficientemente la disinvolta leggerezza se non il disprezzo verso i simboli da parte di molti chierici attuali.
Se poi il papa stesso stravolge la lavanda dei piedi del giovedì santo dandole un significato totalmente diverso da quello tradizionale (e simbolico) perché ci si meraviglia?
In realtà la maggioranza delle persone manco si accorgono delle rivoluzioni in atto e il mondo tradizionalista cattolico ha armi spuntate per poter contrastare questo fenomeno perché non si rende sufficientemente bene conto che il problema alla base della rovina liturgica in Occidente sta nel disprezzo del simbolo. I tradizionalisti, infatti, osservano la liturgia prevalentemente dal punto di vista formale e legale, punti di vista, questi, che hanno scatenato la ribellione dei cattolici negli anni '70...
Ottima segnalazione di autore di coraggio, che aveva dimostrato anche in passato (vedere recensione qui: http://orthodoxie.com/recension_litur_1/).
RispondiEliminaludokabonis
Gratta gratta, alla fine si capisce perché queste persone, al di là dei loro doni, siano state così tanto esaltate in quanto "amici". Altre persone dotate non di meno (come il Larchet) rimangono nell'ombra e in Italia si pubblica ben poco di questi autori perché "pericolosi". L'editoria è controllata, questo è evidente!
EliminaE' da molto tempo che seguo il suo blog con interesse ed un po' di tristezza per lo stato in cui versa la liturgia in Occidente. Proprio per questo sento la necessità di domandarle in modo schietto, forse un po' impertinente: lei come fa? Che chiese frequenta, che liturgia pratica, come prega? Partecipa alle liturgie del vetus ordo, alle liturgie bizantine, a quelle postconciliari? Come fa, in breve, a vivere la sua vita di fede - che è anche e specialmente vita di culto - in questo mondo così lontano dallo spirito della liturgia?
RispondiEliminaLa ringrazio per il suo lavoro.
Vado ovunque non ci siano situazioni strane. Un tempo frequentavo luoghi monastici benedettini molto conservativi, oggi frequento le chiese di rito bizantino.
EliminaAnche io le frequento, ogni tanto: purtroppo però sono solo Ortodosse, qui nella mia città.
EliminaDa qualsiasi mano provenga, l'oro rimane oro...
EliminaHo appena finito di leggere un libro che già da tempo avevo individuato e finalmente trovato.
RispondiEliminaMi permetto di segnalarlo. Se già di sua conoscenza mi piacerebbe avere un suo parere.La seguo proprio per il nome del suo blog e relativi contenuti.
Il libro è "La Divina Liturgia" di Jean Hani.
Cordiali saluti