Popolarmente
corre il detto che “l'abito non fa il monaco”. Io sono un fermo
assertore del contrario. Non entro in discussioni già
fatte altrove e reiterate soprattutto dinnanzi all'allergia di certo
clero moderno verso i segni del sacro. Tali discussioni hanno
elementi da me ampiamente condivisi ma che, solitamente, si
mantengono sulla superficie delle cose come il dovere di distinguere
il sacerdote, di indicare un segno religioso in una società sempre
più avulsa dalla fede, ecc.
Ciò
che mi preme sottolineare è qualcosa di più profondo: l'abito non è
solo il segno di una scelta personale ma una protezione e, di più,
una casa. Chi veste un abito religioso è un po' come se vivesse
custodito in una casa.
Nel
caso dell'abito monastico occidentale, questa valenza è decisamente
più forte. Il monaco anticamente era l'abitante delle caverne,
quando faceva una scelta eremitica. Se viveva in forma cenobitica,
ossia con altri confratelli, la sua caverna, il suo luogo di
protezione, era la cella.
Il
monaco non deve fuggire dalla sua cella e vagare ovunque come un'anima persa
ma la deve abitare più frequentemente possibile, vi deve “marcire
dentro” come diceva san Paisios del Monte Athos.
Questo
perché la cella aiuta il monaco ad entrare nel luogo del suo cuore,
ad interiorizzare la sua vita di preghiera e la sua vita stessa.
Quando, per doveri di stato, il monaco esce dalla sua cella o, se eremita,
deve uscire dalla sua caverna, il luogo della sua protezione diviene
l'abito, la coccolla, il cappuccio.
Ognuno
di noi può capirlo, soprattutto nel periodo invernale, quando si
indossano quei giubbotti che hanno cucito un ampio cappuccio contro
il freddo e il vento. Il cappuccio protegge la testa e la immerge in
un luogo piuttosto appartato, diviene la “piccola caverna” dove ognuno vive
un po' intimamente.
Questo
spiega perché, in certi momenti della preghiera corale, i monaci
occidentali sollevavano il cappuccio quando stavano in coro. La
funzione pratica antica era quella di interiorizzare la preghiera servendosi
di tale mezzo.
Per
lo stesso motivo i monaci più progrediti vivevano un periodo di
eremitismo in una caverna che li isolava dai rumori esterni.
Si
tratta, per dirla con linguaggio esicasta, di far scendere la
preghiera nel cuore per darle forza e farla divenire vera.
Chi
non capisce tutto ciò o vede la cosa romanticamente (che gran guaio
il romanticismo in religione!) o pensa che “isolarsi dagli altri
sia semplicemente indice di una malattia”, come ho letto, ahimé,
in un discorso papale attuale.
Ma
questi insegnamenti sono totalmente errati, è veleno allo stato puro!
Un
monaco benedettino, Tommaso Leccisotti (1895-1982), amava dire che
l'abito monastico detto coccolla, deriva a sua volta dal termine
casula e quest'ultima significherebbe “piccola casa”. Il monaco,
dunque, abita in una piccola casa.
Sulla
scorta di idee simili perfino il Poverello di Assisi raccomandava ai
suoi fratelli di vivere come se fossero in cella anche quando il
dovere li chiamava a percorrere le vie del mondo. Ed è così che il beato Francesco assieme a frate Leone percorrevano le piazze delle città umilmente, con lo sguardo a terra e il cappuccio sollevato sulla testa.
Il
monaco e, per extenso, il cristiano, devono proteggersi,
essere nel mondo ma non del mondo e lo fanno con semplici mezzi a
loro disposizione. Il fine è quello di mantenere il contatto con il
Sorpannaturale il più possibile perché nel momento in cui giunge
l'oblio ci si è chiusi al Cielo. Da quel momento in poi si avrà una logica avversione per lo stesso abito fino a dismetterlo
completamente. E questa è, lo sappiamo!, storia dei nostri giorni.