Quando la teologia è rispettosa delle fonti sulle quali si fonda (la Bibbia e le interpretazioni patristiche) è un piacere addentrarsi in essa, pure se, come in questo piccolo studio, chiede un certo impegno. Mons. Ireneo (Steenberg), autore di questo lavoro, è un vescovo ortodosso russo ed è pure un raffinato teologo. In queste righe dimostra come un'astratta teologia razionalistica, diffusa recentemente negli ambienti ortodossi prevalentemente greci, abbia distorto la visione della Chiesa e, contemporaneamente, il delicato equilibrio della teologia trinitaria dei Padri sulla quale si basa il Credo di tutte le antiche confessioni cristiane. Quest'astratta teologia, confezionata per lo più da alcuni teologi del Patriarcato Ecumenico (Costantinopoli) risponde, in ultima analisi, ad un bisogno molto concreto: elevare la cattedra del patriarca costantinopolitano al di sopra di ogni altra per farlo divenire un “primo senza eguali”, una specie di “papa d'Oriente”. Contrariamente al papa romano, il cui primato si appoggia sulla successione di san Pietro e sull'interpretazione primaziale del noto passo di Mt 16, 13-20, il “papa d'Oriente”, non potendo fare altrettanto, cerca di appoggiare il suo recente inventato primato proiettando in campo ecclesiologico un'alterata teologia trinitaria: come nella Trinità Dio Padre è la fonte di tutto, così nella Chiesa il patriarca di Costantinopoli è la fonte di tutto, il punto di collegamento e di unità per tutte le Chiese ortodosse. Purtroppo questo progetto si rivela falso perché si appoggia su basi inconsistenti. Infatti le fonti canoniche alle quali fa riferimento sono interpretate in modo quanto meno tendenzioso e parziale e l'errata teologia trinitaria a cui fa appello, una teologia realmente prossima ad un'eresia! fonda un'altrettanto errata ecclesiologia. In questo modo il Patriarcato Ecumenico ha già le basi teoriche e pratiche per staccarsi dal resto dell'Ortodossia che continua a conservare gli antichi principi teologici ed ecclesiologici a meno di non cambiare improbabilmente rotta.
Da alcuni anni esistono determinate correnti all’interno della discussione teologica ortodossa che hanno sempre più confuso i principi teologici trinitari con quelli della struttura ecclesiologica: vale a dire, la natura di Dio come Trinità-in-unità con la Chiesa come molteplicità-in-unità. Ciò si è manifestato in vari studi e testi, forse nessuno più chiaramente visibile al pubblico della controversa Dichiarazione di Ravenna pubblicata nel 2007 dalla Commissione internazionale congiunta per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica romana e le Chiese ortodosse. Il principale punto di contesa in vista della pubblicazione di quel documento (che riguardava l’incompleta partecipazione ortodossa alla sua stesura per le particolari circostanze ecclesiali di quel momento) non si collega molto a ciò che, secondo me, è la questione ben più discutibile del proprio focus ecclesiologico trinitario. La Dichiarazione di Ravenna presenta il suo principale contenuto osservando che la “conciliarità della Chiesa riflette il mistero trinitario e trova in essa il suo ultimo fondamento” [1]. Prosegue dicendo che:
L’Eucaristia manifesta la koinonia trinitaria attualizzata nei fedeli come un’unità organica di più membri, ognuno dei quali ha un carisma, un servizio o un ministero adeguato, necessari nella loro varietà e diversità per l’edificazione di tutti nell’unico Corpo ecclesiale di Cristo (cfr. 1 Cor 12, 4-30). Tutti sono chiamati, impegnati e ritenuti responsabili – ciascuno in un modo diverso ma non meno reale – al compimento comune delle azioni che, attraverso lo Spirito Santo, rendono presente nella Chiesa il ministero di Cristo, via, verità e vita (Gv 14, 6). In questo modo, si realizza nell’umanità il mistero della koinonia salvifica con la Santissima Trinità [2].
Il concetto era ancor più enfatizzato in un precedente documento prodotto a Monaco che ha fornito le basi per la discussione a Ravenna:
Poiché Cristo è uno per i molti, come nella Chiesa che è il suo corpo, l’uno e i molti, l’universale e il locale sono necessariamente simultanei. Ancora più radicalmente, poiché il solo e unico Dio è la comunione di tre Persone, la sola e unica Chiesa è una comunione di molte comunità e la chiesa locale è una comunione di persone. La sola e unica Chiesa trova la sua identità nella koinonia delle chiese. Unità e molteplicità appaiono talmente collegate che l’una non potrebbe esistere senza l’altra. È questa relazione costitutiva della Chiesa che le istituzioni rendono visibili e, per così dire, “storicizzano” [3].
Questo paradigma – di vedere gli elementi strutturali-amministrativi della Chiesa in termini di koinonia della Trinità, manifestati in una specifica taxis o ordine – percorre gran parte della produzione testuale della Commissione ravennate e certamente in tutta la dichiarazione di Ravenna, dando forma alla sua intera visione ecclesiologica [4] come rappresenta la voce del suo principale autore teologico ortodosso, il metropolita Giovanni (Zizioulas) di Pergamo [5]. Le relazioni della Trinità sono il punto di partenza e il punto di riferimento continuo, per considerare gli elementi strutturali della Chiesa. Come chiarirò in seguito, vi sono gravi problemi, sia teologici che amministrativi, con quest’approccio strutturale.
È naturale ed è forse apparentemente appropriato che in una Chiesa che comprende fermamente di essere il Corpo di Cristo (che quindi lega esplicitamente la sua identità a una Persona teologica), dovrebbe sorgere questa relazione teologico-ecclesiologica. Ciò è eminentemente chiaro a livello cristologico. Tu sei il Corpo di Cristo (1 Cor 12, 27) è sempre stato inteso nell’Ortodossia come più di una frase metaforica: la comunità di fedeli è un innesto d’individui umani nella singolare vita del Figlio, uniti in un corpo di cui Egli è la testa (Ef 4, 15). Di conseguenza, ciò significa che la natura, l’identità personale, dell’Uno in cui tutti sono innestati è intimamente correlata alla “struttura”, se potessimo impiegare tale terminologia, del Corpo in cui i membri della Chiesa si trovano collegati. Allo stesso tempo, comprendere correttamente la natura di questa Persona divina-umana è un aspetto necessario per comprendere le strutture ecclesiastiche in tutti i loro attributi e funzioni. Teologia ed ecclesiologia sono, infatti, intimamente intrecciate. C’è un livello importante nel quale pure ciò è vero nel campo della discussione trinitaria. La Chiesa è il Corpo di Cristo che è “uno della Santissima Trinità” [6]; quindi è impossibile comprendere la natura della Chiesa (e la sua struttura, organizzazione o funzione) senza una comprensione del modo in cui Cristo, di cui essa è il corpo, si relaziona nella sua identità personale al Padre e allo Spirito.
Quindi il trinitarismo, che consiste nell’osservare il mistero della Trinità in modo sempre più articolato, portando nel campo della comprensione umana le relazioni eterne del Padre, del Figlio e dello Spirito, ha un rapporto perfettamente ragionevole e davvero essenziale con l’ecclesiologia, che cerca di comprendere il modo in cui la seconda Persona di questa Trinità manifesta nella creazione il corpo della sua opera redentrice.
“La storia della teologia non è per nulla priva di trappole e insidie quando persegue l’analisi logica di ciò che è ‘ovvio’ a rischio di ciò che è vero”.
Ed ancora: la storia della teologia non è per nulla priva di trappole e insidie quando persegue l’analisi logica di ciò che è “ovvio” a rischio di ciò che è vero. La grande arci-eresia storica di Ario era, all’inizio, solo un tentativo di analisi logica della “generazione” del Figlio alla luce delle implicazioni razionali di tale termine nella temporalità e nella creazione. Le colpe del tanto lamentato dualismo nestoriano furono, all’inizio, dei tentativi di mantenere razionalmente le confessioni apparentemente contraddittorie, ma certamente necessarie, sulla piena divinità e umanità di Cristo; mentre le debolezze dell’apollinarismo (e per estensione gli eccessi comunemente etichettati come “monofisismo”, “miafisismo” e persino il successivo “monotelitismo”) iniziarono come tentativi logici di confessare la singolare identità soggettiva di Cristo incarnato e prendere sul serio le implicazioni di affermazioni famose come quella di san Gregorio Teologo “ciò che non è stato assunto non è stato salvato” [7]. Come la storia dello sviluppo dell’articolazione dottrinale ha ampiamente dimostrato, esistono profondi pericoli quando si applica astrattamente l’esegesi razionale nella rivelazione teologica.
Tale è precisamente il pericolo in cui è caduta molta ecclesiologia trinitaria moderna. Si può giustamente considerare come eventi della rivelazione divina che la Chiesa è il Corpo di Cristo, che Cristo è una Persona della Trinità e che Egli, assieme al Padre e allo Spirito Santo, esiste eternamente in una specifica scambievole relazione; ma la maniera in cui queste realtà sono collegate può essere articolata in una moltitudine di modi, alcuni dei quali, come vediamo ai nostri giorni, conducono lontano da un’ecclesiologia consonante con la storia della Chiesa ortodossa.
Dal primato alla Trinità
In questo contesto mi limiterò a mostrare un modo specifico in cui un’applicazione errata delle riflessioni trinitarie sulle questioni ecclesiologiche ha profondamente distorto queste ultime (e, in effetti, ha rivelato in modo retroattivo dei problemi con i relativi enunciati trinitari); vale a dire, l’applicazione delle relazioni trinitarie alla gerarchia del primato ecclesiale tra le Chiese. Questo è, forse, il campo in cui le conseguenze dell’analisi logica, in definitiva errata, delle questioni teologico-ecclesiologiche hanno generato problemi nel “mondo reale” della contemporanea discussione interortodossa.
Sebbene non sia un tema che occupa storicamente un posto centrale negli scritti ecclesiologici dei Padri della Chiesa, la questione del “primato e sinodalità” è stata al centro delle discussioni ecclesiologiche del ventesimo e ora del ventunesimo secolo, in gran parte per l’ascesa, a metà del XX secolo, di un rinnovato dialogo tra Ortodossia e Cattolicesimo romano, per il quale la questione è sia storicamente che contemporaneamente centrale [8]. Internamente, le questioni del “primato”, sebbene incontrovertibilmente presenti negli scritti delle fonti patristiche, tendono a non occupare un posto eccessivamente centrale a parte in contesti di espliciti problemi giurisdizionali (è abbastanza ovvio che le domande sul primato dovrebbero figurare, ad esempio, nei dibattiti sulla relativa autorità delle sedi nelle controversie dal IX all’ XI secolo tra Roma e Costantinopoli). Anche in contesti in cui sembra esistano opportunità piuttosto ovvie per soffermarsi sulla questione del primato interepiscopale — come ad esempio il famoso excursus di Sant’Ireneo di Lione sull’antichità della Sede di Roma in Confutazione, 3 [9] — I Padri tendono a non farlo. Sant’Ireneo, da parte sua, vede inequivocabilmente Roma come un’autorità alla quale altri potrebbero rivolgersi quando cercano l’autenticità dottrinale dell’interpretazione scritturistica di fronte alla lettura delle varianti. Ma ciò è proprio proprio a causa dell’antichità della testimonianza romana su quanto è universale tra tutte le Chiese, e non a causa di qualsiasi tipo di “primato” posseduto da tale Sede in quanto tale (e Ireneo non riporta qui il termine “primato”, in quello che altrimenti sarebbe un luogo apparentemente ideale per usarlo). Avendo affermato che a Roma le Chiese hanno, in termini di flusso storico temporale, una più antica testimonianza della verità posseduta e tradita (ossia tramandata) da ciascuna delle Chiese locali (e alla quale tali chiese possono quindi fare ricorso se mai sorge una questione [10]), passa rapidamente alle tematiche ecclesiali che gli interessano più sostanzialmente: la Chiesa come Corpo del Figlio incarnato; la Chiesa come erede e partecipante alla Croce e alla risurrezione di Cristo; la Chiesa come vivaio di maturazione spirituale per Adamo mentre cresce dall’infanzia all’età adulta in Cristo, ecc. [11].
In questo, Sant’Ireneo è tipico della maggioranza dei Padri. Quand’è necessario può essere richiamata l’autorità relativa ai diversi elementi nella gerarchia delle chiese (o per fare un punto positivo, come in sant’Ireneo, sul suo utile ricorso in tempi di confusione; o per contrastare l’appropriazione indebita di tale autorità quando avviene, come nel caso delle controversie Oriente-Occidente nei secoli successivi), ma il tema, nell’ampia visione ecclesiologica delle fonti patristiche, semplicemente non occupa un posto centrale. Al contrario di ciò, in certe attuali cerchie ristrette determinate questioni sull’autorità primaziale personale e poi ecclesiale, hanno guadagnato crescente attenzione come estrapolazioni di un’ “autorità petrina” tra gli Apostoli, nonostante studiosi e autorità ecclesiastiche orientali e occidentali abbiano riconosciuto che ciò è appartenuto ad un’epoca successiva e geograficamente limitata; un fenomeno [12] che possiamo aggiungere con sicurezza non ha mai rappresentato l’opinione della maggioranza delle testimonianze patristiche.
Pertanto, dovrebbe sembrare strano che “primato e sinodalità” siano divenute quasi parole d’ordine centrali nella discussione ecclesiologica del nostro ambiente contemporaneo. Quando un tema che gli stessi Padri trovano d’importanza secondaria o addirittura terziaria diventa primario in discussioni che, inevitabilmente, cercano di richiamarsi alla tradizione patristica per rafforzare l’autorità delle loro affermazioni, ciò significa o dovrebbe almeno segnalare un avvertimento. Ancor più quando, precisamente, quel riorientamento delle priorità è seguito da un riorientamento dell’esegesi teologica che lo accompagna. Ciò è esattamente quanto abbiamo assistito nei decenni precedenti, e soprattutto negli ultimi trent’anni: la centralizzazione del “primato” come concetto ecclesiale ha generato un riorientamento della discussione relazionale trinitaria nel dominio ecclesiologico, come mezzo per dare sostanza ad asserzioni erronee e insopportabili di un’ecclesiologia che altrimenti non avrebbe alcun merito teologico (e certamente non storico).
Relazioni trinitarie e gerarchia ecclesiale
La cosa riguarda più esplicitamente il caso in cui le affermazioni sul “primato” sono confermate da un parallelismo tra le strutture della Chiesa (vale a dire, la gerarchia episcopale e le relazioni di autorità al suo interno) con le Persone della Trinità e le loro reciproche relazioni. Per essere sin dall’inizio chiari: non esiste alcuna testimonianza patristica dell’attuale diffuso concetto, fondamentale a molta “ecclesiologia trinitaria”, che i rapporti delle strutture gerarchiche della Chiesa sono paralleli (ontologicamente, concettualmente o iconicamente) alle relazioni eterne tra Padre, Figlio e Spirito. Si cercherà invano in qualsiasi fonte patristica tali attraenti termini, come potrebbero sembrare all’orecchio moderno. Ciononostante la tentazione di trovare, nella confessione trinitaria sull’unità della natura divina, un conveniente parallelo per descrivere la molteplicità nell’unità delle relazioni umane ed ecclesiali è troppo forte. Lo abbiamo già visto esplicitamente nella dichiarazione di Monaco della Commissione congiunta (1982), oltre ad aver dato forma alla sua continuazione a Ravenna e ad ulteriori testi. Potremmo sottolineare che una delle caratteristiche più significative della commissione plenaria a Chieti nel 2016 è stata un riesame dei concetti di “primato e sinodalità” in termini di abolizione di quest’instabile base “trinitaria” su cui erano state poste le precedenti dichiarazioni.
“È stata articolata un’ecclesiologia trinitaria in extremis: quella in cui l’applicazione errata delle relazioni della Trinità alle strutture di autorità della Chiesa ha raggiunto la conclusione ‘logica’ alla quale conduce quest’analisi razionalistica – producendo quindi teologia – affermazioni ecclesiologiche mai sentite prima nella storia del pensiero ortodosso”.
Tuttavia, la tentazione persiste nelle discussioni ecclesiologiche interne ortodosse. L’attuale conflitto tra le affermazioni ecclesiologiche di studiosi e gerarchi all’interno del Patriarcato di Costantinopoli, che hanno suscitato forti reazioni con quelle di altri patriarcati e Chiese locali, è il caso più toccante in questione. Mettiamo interamente da parte, nella presente discussione, le questioni di territorialità e giurisdizione di alcune parti del mondo che sono coinvolte in gran parte della nostra attuale disputa inter-ortodossa. Mentre le questioni di territorio, giurisdizione canonica e sovranità dei patriarcati all’interno della comunione di tutte le Chiese locali sono, mi affretto a chiarire, punti del tutto legittimi e importanti di discussione ecclesiologica, per la nostra analisi attuale non sono rilevanti. Ciò che è rilevante è come, nel mezzo di quelle discussioni, sia stata strutturata un’ “ecclesiologia trinitaria” in extremis: quella in cui la cattiva applicazione delle relazioni della Trinità alle strutture di autorità della Chiesa ha raggiunto la “logica” conclusione alla quale conduce quest’analisi razionalistica e ha quindi prodotto asserzioni teologico-ecclesiologiche mai sentite nella storia del pensiero ortodosso. Qui non sto parlando dell’ormai famigerata affermazione del “primo senza uguali” (primus sine paribus) per la Sede di Costantinopoli e il suo occupante primaziale, recentemente affermata come un contrappeso al vecchio assioma del “primo tra uguali” (primus inter pares) [13], ma piuttosto dei principi ecclesiologici che sono stati asseriti per radicarlo e difenderlo: vale a dire che il “primato” trinitario del Padre, in relazione al Figlio e allo Spirito, è incarnato in un unico patriarcato (e, più esplicitamente, personalmente in un patriarca) in modo che esiste un’autorità unica che risiede ontologicamente in un individuo [14].
Monarchia nella Santissima Trinità
Per comprendere l’attrazione di questa logica in alcuni, è necessario comprendere i principi trinitari erroneamente fondati per sostenerla. Come per molte questioni finite male nelle discussioni teologiche lungo la storia, non sono i punti di partenza ad essere errati, ma quanto segue una volta partiti da questi. Nella presente questione, le confessioni trinitarie utilizzate per trattare tale visione ecclesiologica non sono errate; sono infatti le confessioni fondamentali di base del trinitarismo ortodosso. Ciò che rappresenta un disastroso errore è la loro errata applicazione in contesti in cui semplicemente non si possono applicare.
È fondamentale per l'auto-rivelazione dell'Unico Dio che Egli sia Padre, Figlio e Spirito - un mistero che chiamiamo Trinità e che secoli di riflessione teologica in costante precisazione giungono a descrivere specificamente come una Trinità di Persone, consustanziale, co-divina e coeterna, esistente in unità perfetta e inalterabile pur mantenendo, eternamente, le sue distinzioni personali indicate attraverso le loro relazioni. Il Figlio è eternamente distinto dal Padre attraverso la precisa realtà relazionale della sua filiazione: la sua "eterna generazione" che lo rende eternamente distinto dal Generatore. Allo stesso modo lo Spirito è eternamente distinto dal Padre dalla sua processione fuori da quest'Ultimo: Colui che è inviato sempre distinto da Colui che manda e, inoltre, distinto dal Figlio in quanto il rapporto di processione è distinto da quello di generazione. Ogni Persona è quindi distinta e inconfondibile con le altre, non per qualche distinzione di divinità, ontologia o persino economia (che sono tutte esplicitamente respinte), ma interamente per le loro relazioni distinguibili e non intercambiabili. All'interno di queste relazioni trinitarie, il tratto unico del Padre (che lo distingue eternamente dalla generazione del Figlio e dalla processione dello Spirito) è che Egli è la fonte (gr. arché) di tali relazioni. La “figliolanza” del Figlio è definita dal Suo essere Figlio del Padre; l’identità relazionale unica dello Spirito è definita dal Suo essere procedente dal Padre. L’identità relazionale unica del Padre, a sua volta, è precisamente che Egli è la fonte delle relazioni, e in effetti l’unica fonte – non in termini di priorità temporale (la stessa frase “eternamente generato”, che aveva così confuso Ario, è usata proprio per sradicare la possibilità di concepire un “prima” o un “dopo” nei termini di queste relazioni), ma piuttosto nel solo contesto della definizione relazionale [15]. Il Figlio è sempre il Figlio perché è sempre generato dal Padre; lo Spirito è sempre lo Spirito perché procede sempre dal Padre; e il Padre è sempre il Padre perché conferma sempre la filiazione e la processione delle altre due Persone come Padre, come unica “fonte” [16].
È fondamentale per l'auto-rivelazione dell'Unico Dio che Egli sia Padre, Figlio e Spirito - un mistero che chiamiamo Trinità e che secoli di riflessione teologica in costante precisazione giungono a descrivere specificamente come una Trinità di Persone, consustanziale, co-divina e coeterna, esistente in unità perfetta e inalterabile pur mantenendo, eternamente, le sue distinzioni personali indicate attraverso le loro relazioni. Il Figlio è eternamente distinto dal Padre attraverso la precisa realtà relazionale della sua filiazione: la sua "eterna generazione" che lo rende eternamente distinto dal Generatore. Allo stesso modo lo Spirito è eternamente distinto dal Padre dalla sua processione fuori da quest'Ultimo: Colui che è inviato sempre distinto da Colui che manda e, inoltre, distinto dal Figlio in quanto il rapporto di processione è distinto da quello di generazione. Ogni Persona è quindi distinta e inconfondibile con le altre, non per qualche distinzione di divinità, ontologia o persino economia (che sono tutte esplicitamente respinte), ma interamente per le loro relazioni distinguibili e non intercambiabili. All'interno di queste relazioni trinitarie, il tratto unico del Padre (che lo distingue eternamente dalla generazione del Figlio e dalla processione dello Spirito) è che Egli è la fonte (gr. arché) di tali relazioni. La “figliolanza” del Figlio è definita dal Suo essere Figlio del Padre; l’identità relazionale unica dello Spirito è definita dal Suo essere procedente dal Padre. L’identità relazionale unica del Padre, a sua volta, è precisamente che Egli è la fonte delle relazioni, e in effetti l’unica fonte – non in termini di priorità temporale (la stessa frase “eternamente generato”, che aveva così confuso Ario, è usata proprio per sradicare la possibilità di concepire un “prima” o un “dopo” nei termini di queste relazioni), ma piuttosto nel solo contesto della definizione relazionale [15]. Il Figlio è sempre il Figlio perché è sempre generato dal Padre; lo Spirito è sempre lo Spirito perché procede sempre dal Padre; e il Padre è sempre il Padre perché conferma sempre la filiazione e la processione delle altre due Persone come Padre, come unica “fonte” [16].
Così
il monarchicalismo trinitario del Padre (moné + arché:
“unica fonte”) diventa il mezzo standard per esprimere le
relazioni delle co-eterne, co-eguali Persone di Dio come Trinità
almeno dal tempo dei grandi Cappadoci.
Esiste
un certo numero di punti in questo linguaggio patristico tradizionale
della Trinità che dovrebbero essere notati nella nostra attuale
discussione. In primo luogo, la monarchia del Padre è
necessariamente sia comunitaria sia relazionale. Non ci può essere
Padre senza Figlio, né Colui che manda lo Spirito se non c’è
nessun Spirito che viene inviato [17].
La natura relazionale, piuttosto che ontologica, di queste identità
richiede la coesistenza e la co-eternità di tutte e tre. Allo stesso
modo, la co-eternità dell’identità del Padre come unico arché
delle loro relazioni, proprio perché è coeterna nella sua
relazionalità ma non nell’ontologia (poiché c’è solo una
realtà ontologica nella Trinità: c’è un solo Dio), significa che
non si può concepire alcuna superiorità divina del Padre. Se il
Padre non può essere il Padre senza il Figlio, allora anche se è il
Padre che è l’arché di quella relazione, la necessaria
co-eternità di entrambe le Persone, affinché una di esse sia
definita dalle loro relazioni, significa che i termini delle loro
identità relazionali non sono né precedenti né più grandi
dell’altro, anche se potremmo essere costretti dalle limitazioni
del linguaggio a parlare a volte di “precedenza” a livello logico
[18]. Il Figlio non è divino
perché ha ricevuto la divinità dal Padre (sarebbe un triunismo
ontologico, piuttosto che relazionale); ma allo stesso modo, il Padre
non possiede nulla per sé in quanto Padre, in virtù del fatto di
essere il solo arché delle loro relazioni, tranne la
caratteristica di essere fonte della relazione stessa. Il Padre non
possiede alcuna divinità precedente al Figlio o allo Spirito,
nessuna “autorità” precedente, niente d’indipendente se non il
suo unico attributo relazionale di essere, ipostaticamente, il
Generatore del Figlio e Colui che manda lo Spirito.
I problemi nel legare le relazioni della Trinità alle strutture ecclesiali
Dopo aver presentato questa essenziale descrizione del linguaggio classico trinitario patristico, possiamo analizzare meglio i problemi provenienti se la discussione delle relazioni trinitarie è applicata alle strutture della gerarchia e dell’autonomia della Chiesa. Come ho accennato in precedenza, è frequente la tentazione di vedere nella Trinità, come unità nella molteplicità delle tre Persone in un solo Dio, un conveniente parallelo da applicare alle relazioni degli uomini tra loro e alle strutture della Chiesa con altre strutture ecclesiastiche. Siamo sicuri che, se l’uomo è una creazione di Dio in quanto Trinità, allora è nella Trinità che troverà alcuni mezzi per riflettere su se stesso? E se la Chiesa è il Corpo di Dio, che è la Trinità, allora è sicuramente nella Trinità che troverà la definizione della sua vita e funzione interiore?
Ho già pure sottolineato che il problema più significativo emergente da questo ragionamento è che, nonostante la sua apparente attrattiva, non ha basi nella tradizione della Chiesa stessa. Secondo una categoria analitica, ciò dovrebbe essere sufficiente di per sé per scartare tale linea di ragionamento ecclesiologico nella mentalità di una Chiesa che confessa unicamente “quella fede che è stata creduta ovunque, sempre, da tutti” [19]. È pur tuttavia certo che, l’espressione e la riflessione della realtà teologica, oltre che ecclesiale, cambia certamente nel tempo; quindi l’indagine più approfondita deve vertere sulla compatibilità di nuove affermazioni con la visione teologica della Chiesa, non solo con le sue analisi storiche di tale visione.
“È noto che quando Cristo prega il Padre ‘che essi possano essere uno, come lo siamo noi’, non possiamo non ascoltare queste parole assieme a ciò per cui prega dopo ...”
Il
primo punto in cui scopriamo un’incompatibilità immediata è nella
stessa errata applicazione dell’espressione trinitaria alla Chiesa,
come se fosse il Corpo della Trinità e non il Corpo di Cristo.
Semplicemente non esiste alcun precedente nel pensiero ortodosso
all’affermazione dei nostri giorni (spesso implicita nella
verbosità ma esplicita nei contorni dell’ecclesiologia espressa
[20]) che la Chiesa è in qualche
modo una manifestazione strutturale delle relazioni trinitarie [21].
Sia San Paolo che le innumerevoli fonti patristiche che lo seguono,
affermano espressamente che la Chiesa è il Corpo, non della Trinità,
ma della seconda Persona della stessa; è in Cristo che l’umanità
ha accesso alla Trinità ed è attratta dall’unità della Trinità
– partecipando a quell’unità in, con e attraverso la sua
adozione in Cristo e mai come se essa stessa potesse manifestare le
relazioni divine di Padre, Figlio e Spirito. È noto che quando
Cristo prega il Padre, affinché i discepoli possano essere uno, come
lo siamo noi (Gv 17, 11, 22), un testo regolarmente usato per
sostenere un’impropria ecclesiologia “trinitaria”), non
possiamo non ascoltare queste parole assieme a ciò per cui prega
dopo: la vita di quegli uomini si innesterà totalmente nella sua
sofferenza, morte e missione, affinché siano tutti uno, come Tu,
Padre, sei in Me e io in Te, affinché anch’essi siano uno in noi
... Io in loro e Tu in Me, affinché anch’essi siano resi perfetti
in uno; e che il mondo possa sapere che mi hai mandato e che li hai
amati come mi hai amato (Gv 17,21, 23, enfasi aggiunta). Cristo prega
esplicitamente che l’unità ottenuta dai Suoi discepoli dovrebbe
essere un’immagine, non dell’eterna unità relazionale tra Padre,
Figlio e Spirito, ma precisamente ed enfaticamente l’immagine
dell’unità del Cristo incarnato con suo Padre. L’uomo non si
relazionerà mai al Padre come il Figlio si relaziona eternamente al
Padre (la proprietà della generazione eterna dal Padre non è mai
una proprietà della creatura [22]);
piuttosto, Cristo prega che ottengano unità in Lui, e in ciò
partecipino alla Sua figliolanza, ottenuta dal Padre attraverso lo
Spirito del Padre che Cristo, loro immagine e sacerdote, manda. È in
questa distinzione cruciale che scopriamo le fondamenta di troppe
cose storte in parte delle contemporanee discussioni.
La Chiesa come Corpo di Cristo (che, ancor più del significato del Corpo della seconda Persona della Divina Trinità nella sua realtà eterna, significa esplicitamente il Corpo della sua realtà incarnata come Cristo crocifisso e risorto), esige che i vari aspetti della struttura mondana della Chiesa trovino ugualmente la loro definizione non nelle relazioni trinitarie propriamente dette, ma più specificamente nell’identità personale del Figlio e come Egli – incarnato, morto e risorto – si relazione al Proprio Padre e allo Spirito del Padre. Uomini e donne sono innestati nella Chiesa, uniti nel Corpo, all’immagine del Figlio che ha innestato tutta l’umanità in se stesso prendendo carne e diventando uomo. La Chiesa è obbediente alla volontà del Padre, così come Cristo è stato perfettamente obbediente alla volontà di Suo Padre (cfr. Gv 12,49, 14,31). La Chiesa riceve lo Spirito Santo quando il Figlio chiede a Suo Padre di inviare quello Spirito (cfr. Gv 15,26); e riceve la buona volontà del Padre, ereditando il Regno, poiché è unita alla morte, risurrezione e ascensione del Figlio nella gloria.
È interamente nella persona del Figlio incarnato che la Chiesa trova la sua identità, esprimendo ciò in modo ancor più chiaro, di quanto evidentemente comporta la relazione del Figlio con il Padre e lo Spirito; ma in nessun momento trova la sua identità soggettiva espressa o nella Trinità ‘nel suo insieme’ (cioè nella somma articolata di tutte le relazioni trinitarie) o in nessuna delle altre Persone prese come sostanza della sua identità (in quanto tale essa non è mai il “Corpo del Padre” o il “Corpo dello Spirito”, non più di quanto sia il “Corpo della Trinità”).
Eppure è proprio in quel terreno che vaga il moderno concetto di ecclesiologia “trinitaria”. La centralizzazione del “primato” come tema ecclesiologico, menzionata in precedenza, ha richiesto una contemporanea enfasi sulla relazionalità (che prende come punto di partenza il termine greco koinonia, generalmente usato per descrivere le relazioni tra le Persone della Trinità e solitamente tradotto come “comunione”), al fine di dare sostanza alle definizioni di diverse strutture in cooperazione e organizzazione. Concentrarsi esclusivamente sulla Chiesa come Corpo di Cristo (come si trova nelle Scritture e nei Padri) offre ben poco spazio teologico per un’estesa considerazione di quest’idea, poiché è appena possibile parlare del Figlio relativamente a Se stesso in modi diversi (a meno che uno non sia abbastanza audace di vagare in una sorta di nestorianesimo ecclesiologico). Sembra essere per questo motivo che la discussione si è quindi spostata nelle discussioni del ventesimo secolo, proprio sulla Chiesa come manifestante relazionalmente, nelle sue varie strutture, la koinonia delle relazioni della Trinità – perché lì, almeno, si è in grado di tracciare parallelismi tra Persone concretamente distinte in relazione tra loro [23].
“La Chiesa come incarnazione strutturale delle relazioni trinitarie è un’invenzione del ventesimo secolo: ha poco a che vedere con il modo in cui la Chiesa ha percepito la sua identità nel corso della storia”.
Eppure, fare così è inventare un’ecclesiologia che non ha semplicemente precedenti nell’Ortodossia. La Chiesa come incarnazione strutturale delle relazioni trinitarie è un’invenzione del ventesimo secolo: ha poco a che vedere […] con il modo in cui la Chiesa ha percepito la sua identità nel corso della storia. Il disastro di ciò non è solo la separazione di tale discussione ecclesiologica odierna dall’intera tradizione cristiana, ma la generazione di problemi sostanziali non solo nella vita della Chiesa, ma anche, in modo quasi “retrospettivo”, sul modo in cui è confessata la natura di Dio in quanto Trinità. Quest’indebita moderna appropriazione ecclesiastica di concetti perverte retrospettivamente le confessioni teologiche più antiche e fondamentali del Cristianesimo su Dio.
Nel sostenere, ad esempio, che un patriarca può essere “primo senza eguali” perché la Chiesa, nell’immaginare la Trinità, immagina le relazioni del Padre, del Figlio e dello Spirito, dove il Padre è “l’unica fonte” di tali relazioni (e quindi l’unico patriarca che manifesta vicarialmente il Padre in questo miscuglio ecclesiale deve anche avere un ruolo unico come “unica fonte” dell’autorità degli altri patriarchi e patriarcati [24]) non solo introduce la straordinaria novità di concepire un gerarca come ecclesiale rappresentazione del Padre in relazione ai suoi fratelli gerarchi [25], ma dimostra che, così facendo, anche l’autentico monarchicalismo patristico dell’espressione trinitaria è stato modificato. Tutta l’enfasi del linguaggio trinitario relazionale, espressa così chiaramente da San Gregorio di Nissa e dagli altri Cappadoci tra una miriade di altri, è che il Padre non è la fonte di autorità nel Figlio o nello Spirito (né della divinità o del potere, o dell’eternità), e mentre è il solo arché delle loro relazioni, il fatto stesso della co-eternità di quelle relazioni significa che non c’è nulla di precedente nel Padre, nulla di sine paribus che possiede se non la sua identità personale di arché della filiazione relazionale del Figlio e processione dello Spirito. Non è “responsabile” della loro unità come attributo indipendente e autonomo (perché se essi non supportano la loro relazione eterna non c’è unità) [26]. Non è ontologicamente “il primo” in una gerarchia (la monarchia relazionale è totalmente distinta dalla gerarchia ontologica nelle discussioni teologiche) [27].
Affermare che un patriarca ha un’autorità, all’interno della comunione della gerarchia di tutte le Chiese locali, perché la Chiesa manifesta le relazioni della Trinità che sono personali e quindi devono essere legate a Persone concrete, e che in queste relazioni personali quella del Padre è l’unico arché, è un radicale fraintendimento del significato di questo concetto nei Padri della Chiesa. Non solo è errato l’intero parallelo tra la Chiesa e la Trinità, ma il concetto del Padre come, in qualche modo, base sostanziale per un concetto personale di primus sine paribus è pure errato. Se, in termini di relazioni delle Persone della Trinità, il Padre è “senza eguali”, non è più del Figlio e dello Spirito Santo che sono pure “senza eguali”: ognuno è una Persona che non può essere confusa con le altre. E proprio come il Padre non è “primo” ma “unico” (moné) [28], in quanto è la sola fonte dell’identità relazionale sia del Figlio che dello Spirito, allo stesso modo il Figlio è “unico”, non nell’essere fonte relazionale ma nell’essere figlio unico; e lo Spirito è “unico” nell’essere unico Spirito. L’identità del Padre come mone arché non è un primato, né una definizione gerarchica; se applicato alla gerarchia della Chiesa come paradigma significa concettualmente danneggiare entrambi.
Il correttivo: l’ecclesiologia cristologica
Si deve apportare una correzione a tale tendenza del pensiero ecclesiologico, poiché nella contemporanea “ecclesiologia trinitaria” non si vede solo quanto possano distorcersi le discussioni ecclesiologiche quando il pensiero trinitario viene applicato erroneamente all’identità strutturale della Chiesa (pervertendo la sua visione teologica), ma si vede pure il danno che ciò può causare in termini concreti alle relazioni inter-ortodosse. Il fenomeno moderno di questa nuova ecclesiologia, pur essendo espressa in documenti formali solo dal Patriarcato di Costantinopoli (ignorato silenziosamente da alcune altre Chiese locali, sebbene fortunatamente in diversi casi esplicitamente respinto da altre), si è tuttavia trovato in convegni dogmatici di studiosi e pastori di tutto il mondo ortodosso. Non dovrebbe essere un’autentica sorpresa che ciò coincida con l’avvento dello scisma e l’ampliamento della divisione tra le parti di quello stesso mondo.
“Il correttivo necessario a questo problema è riportare le discussioni ecclesiologiche su quella che è la loro base necessariamente fondamentale: la natura della Chiesa come Corpo dell’incarnato, crocifisso, risorto e glorificato Gesù Cristo”.
Per essere chiari: un’ecclesiologia che cerca di definire il primato e la sinodalità nelle questioni inter-ecclesiali dalla comunione relazionale delle Persone della Trinità fallirà sempre la prova dell’ortodossia. Non è storica, essendo un’innovazione relativamente recente; non è cattolica, essendo una tradizione che non rappresenta l’oikoumene della Chiesa nella sua manifestazione universale; e, soprattutto, è a-teologica, essendo un’applicazione errata di concetti trinitari in campi in cui non si applicano, sfigurando in tal modo sia quei campi sia la visione trinitaria di quanti operano tale errata applicazione.
Il correttivo necessario a questo problema è riportare le discussioni ecclesiologiche su quella che è la loro base necessariamente fondamentale: la natura della Chiesa come Corpo dell’incarnato, crocifisso, risorto e glorificato Gesù Cristo. È questo che Cristo stesso ha insegnato, gli Apostoli hanno predicato e i Padri hanno sostenuto, ed è questo che può riassestare le vacillazioni nella discussione moderna per testimoniare l’ortodossia.
In quanto Corpo del Figlio e Figlio incarnato, le strutture gerarchiche della Chiesa non sono definite dalle relazioni del Padre, del Figlio e dello Spirito, ma dalla relazione degli Apostoli con Cristo, il quale li ha chiamati dal mondo e uniti alla sua vita. Essendo innestati in Cristo, gli Apostoli non divennero così icone del Padre e dello Spirito, assieme al Figlio, nel modo in cui si relazionavano l’uno all’altro; piuttosto, si sono innestati personalmente nell’obbedienza del Figlio al Padre, attraverso la quale sono stati chiamati dalle diverse divisioni della loro umana provenienza (né ebrei né greci ... Gal 3, 28) all’unità in Cristo. Quest’identità cristologica della Chiesa significava quindi che la sua vita era legata alla vita della Trinità, proprio come il Figlio è “Uno della santa Trinità”, e quindi è tratta proprio dalle relazioni che il Figlio ha con suo Padre e con lo Spirito Santo; ma mai da una confusione di persone e relazioni personali e neppure da relazioni confuse e inappropriate del Figlio con le altre Persone della Trinità. Esattamente come l’identità del Figlio non è mai confusa equiparandola all’identità del Padre, così il Suo Corpo, la Chiesa, non confonde mai la sua identità identificandola erroneamente con il Padre o lo Spirito. La Chiesa e tutti i suoi membri sono assunti nella vita del Figlio incarnato; e questa esperienza di divenire, di entrare nella pienezza della Vita attraverso l’innesto nell’esistenza umana incarnata e glorificata del Figlio, è la caratteristica per eccellenza della sua identità. Coloro che “erano molti” sono “fatti un solo corpo” (cfr. 1 Cor 12, 12), e nella centralità dell’esperienza eucaristica della Chiesa, la trasformazione del pane e del vino, che subiscono un “divenire” nella loro santificazione nel vero Corpo e Sangue di Cristo, generano nell’uomo il divenire “uno in Cristo” (cfr. Rom 12,5) che crea dal vecchio un uomo nuovo e trasforma la morte in vita. Dovrebbe essere ovvio per noi che, in questo, il paradigma relazionale della Chiesa non può essere il modo in cui il Figlio si relaziona con il Padre o lo Spirito, poiché non vi è alcun “divenire” in quei rapporti eterni, come sempre accade nella realtà ecclesiale. Cristo non “diventa” uno con il Padre, ma la creazione santificata diventa uno in Cristo – ed è proprio qui, nella realtà incarnata del Figlio, che l’ecclesiologia trova la sua sostanza e identità relazionale [29].
NOTE
[1] Dichiarazione di Ravenna (più estesamente, “Conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa: comunione ecclesiale, conciliarità e autorità”, prodotta dalla Commissione congiunta a Ravenna, ottobre 2007), 5. Il testo integrale della dichiarazione è disponibile on-line (consultato il 29 ottobre 2019).
[2] Dichiarazione di Ravenna, 6.
[3] Tratto dal testo prodotto nella seconda riunione plenaria della Commissione congiunta, tenutasi a Monaco nel 1982, intitolata “Il mistero della Chiesa e dell’Eucaristia alla luce del mistero della Santissima Trinità” (qui citato dalla sezione III, 2). [↑]
[4] Pertanto, ad esempio, nella sezione 17 si chiederà la triplice organizzazione del primato conciliare, “In che modo gli elementi istituzionali della Chiesa esprimono e servono visibilmente il mistero della koinonia?”.
[5] Che le esprime allo stesso modo in molte delle sue opere, forse più succintamente nella sua Comunione e alterità (T&T Clark, 2006), da cui avremo occasione di citare, di seguito.
[6] Come professato nell’inno “O Figlio unigenito” (Ὁ Μονογενὴς Υἱὸς), attribuito tradizionalmente a sant’Atanasio il Grande o san Giustiniano, e incluso in ogni celebrazione delle Divine Liturgie sia di San Giovanni Crisostomo che di San Basilio il Grande, così pure in quella di san Giacomo.
[7] San Gregorio di Nazianzo, Lettera 101: A Cledonio.
[8] Ciò emerge nella forma del già citato Dialogo congiunto, iniziato nel 1980. Durante la sua convocazione iniziale (Rodi, 1980), l’obiettivo proposto del Dialogo era principalmente lo studio comune della sacramentologia e non erano menzionati né il “primato” né la “conciliarità” nella pubblicazione del suo Piano; la sua proposta piuttosto vaga del “rapporto tra i sacramenti e la struttura canonica della Chiesa” come tema d’indagine (Rodi, Piano IV, 4) ha fatto presagire quello che sarebbe divenuto un cambiamento distinto di prospettiva. Mentre lo studio dei sacramenti riguardava direttamente l’opera del Dialogo nei suoi primi sette anni (dalla sua iniziale riunione plenaria di lavoro a Monaco di Baviera, 1982, fino alla sua quarta a Valamo, 1988), dal 1990 in poi l’attenzione principale di tutte le riunioni plenarie del Dialogo sono state su questioni di ordine canonico-amministrativo all’interno della Chiesa, consolidandosi sempre più singolarmente attorno ai temi collegati a “Primato e sinodalità”, che sono stati i punti focali espliciti di metà delle sue dichiarazioni pubblicate (Balamand 1993, Ravenna 2007, Chieti 2016) ed è ancora una volta l’argomento di uno dei documenti proposti (come proposto per le sessioni del gruppo di lavoro nel 2017-18).
[9] Cfr. Sant’Ireneo di Lione, Smascheramento e confutazione della falsa gnosi (comunemente abbreviato in Contro le Eresie) 3, 3, 1-3, 4, 1.
[10] Un punto che Sant’Ireneo sottolinea per la preoccupazione della situazione italiana nella fine del II sec. e dintorni, in cui erano diffusi parecchie liste di letture alternative della Scrittura. Egli vede la Sede di Roma come portatrice di un’”autorità preminente” (potiorem principalitatem) nel confermare chiaramente “la tradizione degli Apostoli manifestata in tutto il mondo” (Rif. 3, 3, 2), e quindi un sicuro punto di riferimento per testimoniare le “prove” della verità della testimonianza apostolica (cfr. Rif. 3,4,1).
[11] Lo spazio lasciato ai temi ne qualifica l’importanza. Mentre tutta la vasta Refutazione in cinque volumi riguarda in qualche modo la giusta ecclesiologia (e il suo fondamento teologico) di fronte all’alterazione eretica, Sant’Ireneo dedica solo cinque paragrafi, di cui i due più lunghi sono semplicemente elenchi di successioni di nomi con occasionali aneddoti sugli individui presentati, alla questione dell’autorità strutturale tra le Chiese.
[12] Si veda quindi la sezione 16 del documento plenario della Commissione congiunta prodotto nel 2016 a Chieti, intitolato “Sinodalità e primato durante il primo millennio”, in cui si afferma: “In Occidente, il primato della sede di Roma è stato compreso, in particolare dal IV secolo in poi, con riferimento al ruolo di Pietro tra gli Apostoli. Il primato del vescovo di Roma tra i vescovi fu gradualmente interpretato come una sua prerogativa poiché successore di Pietro, il primo degli apostoli. Questa comprensione non fu adottata in Oriente, che aveva una diversa interpretazione delle Scritture e dei Padri su questo punto”.
[13] Esposto in modo più particolare in Elpidophoros (Lambriniadis), Primo senza eguali: una risposta al testo sul primato del patriarcato di Mosca (2013 [?]), Pubblicato sul sito web del Patriarcato di Costantinopoli (consultato il 30 ottobre 2019).
[14] Riguardo la mia confutazione diretta dell’affermazione errata ed eretica del “primo senza eguali”, vedi il mio testo “Primato e identità: una risposta al ‘Primo senza eguali’ e la tragedia dell’inadeguata ecclesiologia” (2018) disponibile on-line, che è una versione leggermente ampliata di un testo da me pubblicato in russo con il titolo ‘Первенство и личность’, in Церковь и время: научно-богословский и церковно-общественный журнал: Отдел внешних церковных связей Московского Патриархата 2015, 4 (73), pp. 52-89, disponibile a sua volta pure on-line.
[15] Ciò è spiegato a fondo nella classica esposizione di San Gregorio di Nissa, contenuta nella sua lettera Ad Ablabium, scritta nel 390 d.C.: “Pur confessando l’immutabilità della natura, non neghiamo la differenza di causa e causalità, con la quale da soli cogliamo la distinzione dell’una dall’altra. È credendo che l’una sia la causa e l’altra sia dalla causa […] Ma parlando di una “causa” e “da una causa”, non intendiamo attraverso questi nomi “natura” […] ma riveliamo la differenza nel modo di essere. […] Il principio di causa, quindi, distingue le ipostasi nella Santissima Trinità nell’adorare ciò che non è causato e l’altro che proviene dalla causa” (enfasi mia).
[16] Vedi San Gregorio di Nazianzo, Terza Orazione Teologica, per un excursus classico su questi punti; esp. 5-16.
[17] Un punto già sottolineato, in termini di relazione del Figlio con il Padre, da sant’Atanasio il Grande nelle sue Orazioni contro gli Ariani, 1, 11-16.
[18] Cfr. Sant’Atanasio, ibid., 1, 20: “Quando il Padre non si vide nella propria immagine [ad es. nel figlio]?”.
[19] San Vincenzo di Lerino, Commonitorium, 6.
[20] Un caratteritico esempio di ciò è dato dall’arcivescovo Elpidophoros che, pur mantenendo il linguaggio scritturistico del “Corpo di Cristo”, collega tuttavia tale espressione a un’esegesi sulle questioni ecclesiali che considera le relazioni divine della Trinità nel suo insieme, non di Cristo incarnato come Uno della Trinità quale fondamento. Così, ad esempio, nel suo Primo senza eguali: una risposta al testo sul primato del patriarcato di Mosca (2013) 1, par. 2: “Se la Chiesa è davvero il Corpo di Cristo e la rivelazione della vita trinitaria, non possiamo quindi parlare di differenze e distinzioni artificiali che frantumano l’unità del mistero della Chiesa, che inglobano le formulazioni teologiche (nel senso stretto del termine) e cristologiche allo stesso modo” – osservazioni fatte per introdurre un trattamento delle relazioni episcopali radicate nelle relazioni delle Persone della Trinità tra loro (specificamente impiegate per mettere in parallelo – disastrosamente – il Padre come unico e incomparabile arché delle altre Persone divine con un vescovo che detiene un’autorità unica e incomparabile tra gli altri vescovi). Questo concetto lo confuto direttamente nel mio Primato e identità, già sopra citato.
[21] I Padri parlano della Chiesa come “icona” della Trinità; vedi ad es. San Massimo il Confessore, Mystagogia (PG 91, 663D). Tuttavia, tale confessione che nella Chiesa è testimone di un’unità dell’umanità attraverso la sua comunione in Cristo, mediante la quale è unita al Padre e allo Spirito come Trinità, non diventa, nei Padri, una base per articolare l’amministrazione strutturale della vita della Chiesa o per fondare le relazioni tra i vescovi (o altri) nelle relazioni delle Persone divine.
[22] O, per dirla più scientificamente, la proprietà personale del Figlio di essere un’ipostasi relazionale dell’unica ousia di cui anche il Padre e lo Spirito sono ipostasi, non diventa mai una proprietà personale della creatura umana.
[23] Ciò è fatto in modo drammatico, ad esempio, dall’archimandrita Panteleimon (Manoussakis) in Orthodox Constructions of the West, ed. G.E. Demacopoulos e A. Papanikolau (New York, Fordham University Press, 2013), pp. 229-239. In questo testo l’autore, nel tentativo di spiegare il primato di un patriarca in relazione agli altri, lo fonda strutturalmente in riferimento alle relazioni eterne della Trinità: “Il mistero della Santissima Trinità ci pone di fronte, in modo eminente, alla dialettica tra l’Uno e i molti, tra l’identità e la differenza. È noto che ciò che salvaguarda l’unicità di Dio e impedisce alla dottrina della Santissima Trinità di cadere nel triteismo è la persona del Padre. La “monarchia del Padre” indica chiaramente che la coincidenza e la conferma dell’unità e della pluralità nella Santissima Trinità è esercitata da una persona, il Padre” (p. 235).
[24] Queste sono alcune tra le già citate disastrose affermazioni fatte dall’arcivescovo Elpidophoros nel suo testo (cfr. 2 [i]. par. 3), nonché dall’archimandrita Panteleimon (cfr. pp. 235 e ss.).
[25] Un’affermazione che è, tuttavia, costantemente presente nelle dichiarazioni dei nostri giorni emanate dal Patriarcato di Costantinopoli. Ciò viene spesso messo in relazione con il presunto ruolo di tale Sede a “protezione dell’unità” della Chiesa; quindi, ad esempio, l’arciv. Elpidophoros nel suo discorso d’intronizzazione dopo essere stato nominato nell’arcidiocesi greca d’America (22 giugno 2019) ha detto: “Ricordo con gratitudine” tra i primi “il mio arcivescovo e patriarca Bartolomeo, che porta il principale onere e la prima responsabilità dell’unità nella Chiesa” (discorso disponibile on-line, letto il 30 ottobre 2019). L’arciv. Elpidophoros, sta qui solo facendo eco ai temi che il Patriarca Bartolomeo usa regolarmente su se stesso. Vedi, ad esempio, le sue osservazioni conclusive sulla sinassi dei gerarchi del Patriarcato di Costantinopoli il 3 settembre 2018: “Il Patriarcato ecumenico – essendo responsabile della salvaguardia dell’unità, ma anche del coordinamento delle relazioni inter-ortodosse e delle iniziative pan-ortodosse – svolge questo sacro ministero nel mondo ortodosso, aderendo fedelmente agli incrollabili principi ecclesiologici e canonici della Tradizione dei nostri Padri”. (Ovviamente, non esistono canoni per comprovare questo; ciò a cui allude Bartolomeo sono dei canoni che in realtà si riferiscono alla taxis delle interrelazioni ordinate tra le Chiese locali e che conferiscono a Costantinopoli il ruolo di facilitare il processo di appello nelle decisioni contestate; ma nessuno di essi le assegna il ruolo di “salvaguardia dell’unità” o di coordinare le relazioni inter-ortodosse. Questi sono i ruoli che il Patriarcato di Costantinopoli si è autoappropriato). Quest’interpretazione del ruolo di facilitare gli appelli nel senso che il Patriarcato di Costantinopoli ha un’autorità canonica globale sulle altre Chiese locali, è una lettura errata. Vedi le osservazioni del Patriarca Bartolomeo nella sua dichiarazione di apertura nella stessa sinassi del settembre 2018, in cui afferma che “Il Patriarcato ecumenico ha la responsabilità di porre le cose in ordine ecclesiastico e canonico perché ha solo il privilegio canonico, nonché la preghiera e la benedizione della Chiesa e dei Concili ecumenici di adempiere a questo supremo ed eccezionale dovere di Madre nutritiva e generatrice di chiese”. Questo tipo di lettura profondamente imperfetta dell’autorità canonica non è in alcun luogo più evidente che negli scritti dell’Arcidiacono Giovanni (Chryssavgis), uno dei principali consiglieri teologici del Patriarca Bartolomeo. Mentre il suo recente libro Bartolomeo: Apostolo e visionario (Thomas Nelson, 2016) rientra più nel campo di un tomo celebrativo piuttosto che in quello di uno studio accademico, al suo interno fa tuttavia affermazioni tipicamente assolutiste (e altrettanto infondate) sull’autorità distintiva di ciò che chiama il “primate universale” (p. 66): ad es. “Come attuale occupante del primo trono della Chiesa ortodossa, Bartolomeo è incaricato di convocare e coordinare la sinergia della Chiesa ortodossa in tutto il mondo, per proteggere e preservare il principio dell’unità della Chiesa” (p. 147); e “Bartolomeo ha la vocazione e l’obbligo di guidare i suoi fratelli primati” (p. 149). Al contrario, in nessun canone sono attribuiti al Patriarca di Costantinopoli né la “conservazione del principio dell’unità della Chiesa” né la “guida dei suoi fratelli primati”.
[26] La precisione del linguaggio è qui essenziale. I Cappadoci, come tutti gli esempi patristici dell’adeguato monarchicalismo trinitario, confessano che il Padre, come unico arché delle relazioni, è quindi identificabile con l’unità delle Persone (il termine qui usato è ἕνωσις). Poiché si riferiscono alla relazione con Lui che le altre Persone manifestano le loro uniche identità; ma ciò è del tutto distinto da qualsiasi idea che il Padre, in modo determinante o indipendente, abbia una “responsabilità” deliberativa per l’origine o il mantenimento dell’unità divina. Nella formulazione di san Gregorio di Nazianzo, il Padre è l’ ἕνωσις in quanto “da Lui e per Lui gli altri [cioè le altre Persone] sono determinate (ἕνωσις δὲ, ὁ Πατὴρ, ἐξ οὖ, καὶ πρὸς ὄν ἀνάγεται τὰ ἑξῆς)”, Orazione 42, 15. Lo sottolineo perché gran parte degli odierni imprecisi discorsi sul primato costantinopolitano, il ruolo auto-percepito di tale Sede come “garante” o “responsabile” dell’unità dell’Ortodossia è deliberatamente parallelo al ruolo erroneamente interpretato dal Padre come motivo di unità nella Trinità – come se questa fosse una funzione deliberativa piuttosto che una vera confessione dell’identità relazionale. Giustamente compresa, l’identità del Padre come unico arché delle relazioni tra le Persone divine non ha alcuna influenza sull’autorità di una sede ecclesiale rispetto ad un’altra.
[27] Questo è un punto che il metropolita Giovanni (Zizioulas) confonde costantemente, quando legge san Gregorio Nazianzeno e altre fonti: vale a dire, fonde causalità relazionale temporale e identità ontologica. Ad esempio, afferma che “se il Padre è l’unico arché personale in Dio, la sua relazione con le altre due persone non potrebbe che essere descritta in termini causali. L’idea di arché implica un movimento e, come dice Gregorio Nazianzeno, la Trinità è un movimento dall’Uno ai Tre (“La monade si trasferì alla Triade”, scrive), il che suggerisce che l’Uno, che è il Padre, causa le altre due Persone ad essere distinte hypostases (enfasi nell’originale). Le poche parole di San Gregorio ivi citate provengono dalla sua Terza Orazione Teologica, 2; tuttavia, in quel testo San Gregorio è molto più attento del metropolita Giovanni e nota che questo “movimento” è una metafora inadeguata causata dalla limitazione del linguaggio umano (“Non so come nominarli, rimuovendo del tutto le cose visibili”), e quindi la causalità è contemporaneamente atemporale e riguarda esplicitamente il modo delle relazioni ipostatiche, non l’ontologia. Ciò, tuttavia, non fonda solidamente la lettura del metropolita Giovanni su San Gregorio o sugli altri Cappadoci: pur riconoscendo la natura atemporale di tale causalità e affermando giustamente che “La causalità, insistono i Cappadoci, ha luogo ... a livello ipostatico o personale, e non su quello di ousia”, tuttavia sostiene contemporaneamente (anche nella stessa pagina) che nella visione cappadoce della monarchia teologica ciò si riferisce all’ “origine ontologica personale” e, in particolare, che “l’unico arché ontologico nella Trinità è il Padre, che è in questo senso l’Unico Dio” (Zizioulas, Communion and Otherness [1980], p. 119).
[28] Tenendo presente che a volte i Padri impiegano il termine “primo” quando parlano della natura delle relazioni, ad esempio, del generatore e del generato, in ciò che essi stessi percepiscono come analogie inadeguate su quanto è una realtà atemporale nella Trinità (vedi ancora San Gregorio di Nazianzo, Terza Orazione Teologica, 2, già citata sopra nelle note), un senso di precedenza autorevole imputato al Padre per questo motivo è da loro completamente escluso.
[29] Il presente testo non è che un’introduzione ai problemi chiave dell’ecclesiologia trinitaria moderna. I contorni precisi di un'ecclesiologia cristologicamente più adeguata devono essere un seguito necessario da ciò che viene presentato qui. Speriamo di fornirli a tempo debito.
Tradotto da:
https://orthochristian.com/125600.html
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