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martedì 24 settembre 2013

La fede in Cristo e la Liturgia

Cristo Pantocrator:
la bellezza dell'arte religiosa non è fine se stessa è tesa a testimoniare la verità della fede

Si ripete continuamente che i nostri sono tempi di confusione religiosa. Anch'io lo credo, ma dalla confusione non se ne esce se non lo si vuole. Oggi più che mai molti dei cosiddetti “capi” della Cristianità non sono in grado di aiutare le persone, presi come sono da una mentalità sempre più secolarizzata. Dove rivolgersi? Verso la liturgia tradizionale la quale continua a dare la sua perenne testimonianza ed esortazione.

Uno dei legami più forti che ha la liturgia tradizionale è con la dottrina, una dottrina certa, definita, per nulla ambigua, in grado d'illuminare anche gli animi più confusi e di condannare senza possibilità di appello gli errori.

La liturgia, infatti, non è altro che la fede celebrata, il dogma divenuto poesia e canto da porgere al cuore dei fedeli. Chi la vive con attenzione non può non venirne illuminato, se è nell'oscurità dell'ignoranza, o abbeverato, se ha sete di verità.

La cosa fondamentale sulla quale insiste all'infinito la liturgia è l'assoluta centralità di Cristo nella storia della salvezza di tutto il genere umano. Ogni preghiera inizia e termina nel nome di Cristo riconosciuto quale unico mediatore tra il genere umano e Dio. Chi lo rifiuta, come un tempo gli ebrei che lo condannarono in croce, non trova nella liturgia tradizionale tentennamenti o parole dolci: viene esecrato. Un passo tratto dalla settimana santa bizantina c'illustra, con chiara forza, questo concetto:

“Al posto del bene che hai fatto, o Cristo, alla stirpe degli ebrei, essi ti hanno condannato alla croce, dandoti da bere aceto e fiele. Tu dunque, Signore, rendi loro secondo le loro opere, perché non hanno compreso la tua condiscendenza.
Non si contentarono del tradimento, o Cristo, i figli degli ebrei, ma scuotevano la testa schernendo e beffeggiando. Tu dunque, Signore, rendi loro secondo le loro opere, perché non hanno compreso la tua condiscendenza.
Né la terra che si scosse, né le rocce che si spezzarono convinsero gli ebrei, né il velo del tempio né la resurrezione dai morti. Tu dunque, Signore, rendi loro secondo le loro opere, perché non hanno compreso la tua condiscendenza” (Ufficio della santa Passione, Antifona 11).

Il testo non rimprovera un'etnìa in particolare, per quanto si rivolga agli ebrei del tempo di Cristo, ma chiunque non voglia credere in Cristo come unico mediatore tra cielo e terra e si volga ad altro. Ne è prova il fatto che è cantato in un'assemblea di cristiani perché essi intendano e non siano tentati di porsi sul piano di chi, rinnegando Cristo, si volge ad altre credenze.
La centralità e insostituibilità di Cristo, la sua unità in seno alla Trinità, sono condizioni indispensabili per la salvezza del singolo che, a giusta ragione, può così pregare:

“Unico Padre dell'Unico Figlio Unigenito, e Unica luce, riflesso dell'Unica luce, e tu che unicamente sei il santo Spirito dell'Unico Dio, essendo veramente Signore dal Signore; o Triade santa Monade salva me che proclamo la tua divinità!” (Doxastikon della nona ode del Mattutino del Giovedì prima della Domenica delle Palme).

Davanti alla fede in Cristo, ci sono state schiere di martiri che giunsero al disprezzo della propria vita, pur di mantenere intatto il credo della Chiesa. La liturgia bizantina li celebra continuamente. Ecco un esempio:

“Senza temere né fuoco, né spada né morte, avete mantenuto ferma la confessione che salva rinvigoriti da Cristo, o beati” (Mattutino del sabato della terza settimana di Quaresima).

In una sola frase si sottolinea che la confessione della vera fede genera la salvezza per la quale, opportunamente o inopportunamente, i martiri hanno dato testimonianza fino alla tragica conseguenza di versare il proprio sangue. Anche questo fatto, celebrato nella liturgia, diviene esortazione, parenesi e ricordo da non dimenticare ma, semmai, da imitare.

Nella pratica dei santi, all'ascesi si associa un vero e proprio “eros” per l'ortodossia della fede: essi sono nemici giurati di ogni comportamento compromissorio che possa alterare o minimamente corrompere la dottrina. La liturgia, che trasmette questa tradizione vitale, in tal senso, diviene più eloquente che mai:

“... Gioisci, sapiente Atanasio, tu che trai il nome dall'immortalità, tu che hai cacciato dal gregge di Cristo, come un lupo, Ario vaniloquente, colpendolo con la fionda elastica delle tue dottrine divinamente sapienti. Gioisci astro fulgidissimo, difensore della Sempre-Vergine, tu che con voce stentorea l'hai splendidamente proclamata Madre di Dio in mezzo al sacro sinodo di Efeso, e hai ridotto a nulla le chiacchiere di Nestorio, o beatissimo Cirillo....” (Doxastikon dei santi al Mattutino).

E ancora, rivolgendosi a san Giovanni Damasceno, polemico verso l'Islam allora nascente, la liturgia insegna che solo la vera fede glorifica Dio, non altre:

"Hai rovesciato con la tua sapienza le eresie, o beatissimo, o sapientissimo Giovanni, e hai donato alla Chiesa una dottrina ortodossa, perché rettamente definisca e glorifichi la Triade, Monade trisipostatica, in una sola sostanza" (Exapostilarion del santo al Mattutino).

Questa testimonianza donataci ancor oggi da una liturgia tradizionale (in questo caso quella bizantina) pare essere totalmente oscurata laddove la liturgia è stata appannata, umanisticizzata e manipolata e i pastori si sono corrotti alle dottrine mondane di un umanismo dolcificato e irenistico ma mortalmente letale per la fede. La fortuna di avere ancora oggi queste tradizioni vive, ci pone in mano un'arma con la quale, conoscendo il vero spirito della Chiesa, siamo in grado di proteggerci da quanto Chiesa non è ma la sta invadendo e sovvertendo dal suo interno. 

La dottrina di sempre si staglia nella sua solenne immobilità per insegnare e confermare nella fede chi lo desidera. Nessuna tenebra potrà cancellare tale luce, nessuna confusione delle menti potrà svigorire la forza di questa testimonianza.
Il mondo può tremare e crollare, gli ecclesiastici potranno inebriarsi al vino della mondanità ma le montagne della fede – trasmesseci dalla tradizione liturgica – sono ancora là. Non resta che raggiungerle.


giovedì 15 agosto 2013

Rito, ritualismo, aritualità; sacro, profano



Liturgia copta


In questo post affronto il significato di alcuni termini-chiave, sui quali si appoggia tutto il discorso che, sotto mille aspetti, stiamo facendo in questo blog.
Le parole sono importanti ed è essenziale cercare di stabilirne un valore preciso. Se non lo si fa è inevitabile l'incomprensione e l'equivoco.
Sotto certi aspetti in altri post ho già in parte stabilito il significato di tali termini. Lo voglio fare ancora cercando di perfezionarlo perché negli ultimi post abbiamo fatto un discorso molto importante legato, tutto sommato, a queste parole.

Rito
Il termine “rito”, almeno nel suo significato, non è legato al mondo cristiano essendogli ben precedente. Da sempre gli uomini hanno compreso che il rapporto collettivo con la divinità (qualunque esso sia) si può solo esprimere in modo rituale. Il rito, dunque, non è generalmente altro che un insieme di testi prefissati e di gesti prestabiliti indirizzati alla divinità, caratterizzati da una certa ieraticità. Nel rito si stabilisce un linguaggio simbolico che consiste nell'uso di elementi del mondo creato i quali rimandano al mondo celeste o divino. Ne risulta che è proprio del rito evocare la divinità e renderla in qualche modo presente, chiedendole favori. La figura del sacerdote, in questo contesto, s'identifica come quella di un intercessore, come una “cerniera” tra il mondo creato e quello increato o divino.
Quest'insieme di realtà, presenti nel mondo pagano e in quello ebraico, sono state assunte anche nel mondo cristiano. È stato come assumere un vocabolario preesistente ma per articolare un discorso nuovo rispetto a prima.
Coloro che parlano di una “paganizzazione” del Cristianesimo osservando quest'inevitabile fenomeno, non si rendono conto che, come noi non possiamo prescindere dal nostro vocabolario per trasmettere le nostre conoscenze (anche quelle nuove), così il Cristianesimo stesso non ha potuto né voluto prescindere dal “vocabolario rituale” per comunicare i suoi misteri salvifici, rivelati da Cristo, e oramai resi disponibili nell'azione liturgica. È proprio del rito trasmettere all'uomo quanto celebra, lavorando nella sua interiorità. Un rito vero deve, dunque, avere una forza spirituale, nascere da un'interiorità che l'assunta e irradiarsi su molte altre interiorità. La figura del sacerdote nel Cristianesimo, così, non riveste un mero compito d'intercessione, un'attività passiva o formale, ma diviene un irradiatore proiettando, non con la forza della pura ragione o di un solo discorso umano ma soprattutto attraverso le forme cultuali, un'energia tutta interiore che normalmente si denomina con il termine di “grazia” (1). Non è dunque un caso che per l'Oriente bizantino il numero dei sacramenti non sia stato mai precisato dal momento che l'irradiarsi della grazia nell'evento cultuale avviene in molteplici forme. Questo, però, non è da intendersi in senso magico ma in senso profondamente spirtuale in cui celebrante e assistenti assumono una forte dinamicità interiore: esiste, come si dice, una compenetrazione dell'umano e del divino dove Dio e l'uomo operano assieme in sinergia. Ecco perché è impossibile avere un approccio decente con la liturgia se non si ha una minima sensibilità e attenzione di ordine interiore.

Ritualismo
Il termine “ritualismo”, invece, si pone su un piano decisamente diverso. È l'esecuzione di atti e parole rituali, come se si stesse facendo un rito, ma spogliandolo completamente di prospettiva interiore. È come porre nelle vie dei cartelli stradali per sola “bella figura” o perché si crede che, così facendo, non ci saranno magicamente più incidenti. Normalmente sono ritualistiche tutte quelle comunità cristiane che cercano di fare rivivere un culto tradizionale slegandolo da tutti i suoi profondi significati. Ad esempio, ci sono alcuni, nel mondo cattolico, che pensano di ristabilire le antiche consuetudini liturgiche perché, così facendo, obbediscono meglio alle leggi della Chiesa. Ho presente casi concreti, gente molto aderente alle norme e ai canoni. Il fatto di obbedire esteriormente a delle leggi (anche giuste) non comporta necessariamente alcun lavoro di tipo interiore che la liturgia richiede per essere veramente tale. È dunque giusto definire queste comunità come tradizional-ISTE e non tradizionali perché esasperano alcuni lati di verità lasciando in ombra molti altri senza rendersi conto che, così, introducono un profondo squilibrio in nome di una tradizione mal interpretata. Se l'equilibrio antico non è più rispettato, l'efficacia liturgica non è più garantita. Una comunità tradizional-ISTA è dunque ritual-ISTA. Anche a livello di esperienza personale ho constatato due estremi in questo tipo di comunità: o l'indifferenza per la vita spirituale - per costoro sarebbe una “fumosa filosofia” (2) - o una vita spirituale concepita come “atto magico” e vissuta in modo massimalista e fanatico. Il fenomeno del ritualismo è trasversale a tutte le confessioni non essendo altro che l'esecuzione di un rito in modo formale (estetico o puramente emozionale) e senz'anima interiore. 

Aritualità
Sul versante opposto ci sono culti “arituali”, ossia contrari ad ogni forma di ritualità. Direi che, oggi, questi culti prevalgono nell'85% del Cattolicesimo. Il discorso che si fa in loro favore è pressapoco il seguente: “Quando Gesù Cristo ha istituito l'eucarestia l'ha fatto nel corso di una cena, in una sala da pranzo. Cos'ha questo in comune con un rito o un tempio? Lo ha fatto discorrendo con i discepoli, non facendo un rito” (3).
Ovviamente non si vuole notare la situazione completamente eccezionale in cui l'evento è avvenuto, come se in ogni messa ci siano esattamente le stesse condizioni dell'ultima Cena.

Di conseguenza chi sostiene questa linea disprezza ogni culto tradizionale e trasforma sempre più il rito (o quanto rimane di esso) in una forma cultuale “arituale”. La messa ha sempre più una forma dialogata, la divinità fa sempre più da “tapezzeria” o da pretesto per un incontro unicamente tra uomini, la cui attenzione si concentra sempre più tra loro stessi. Queste comunità cristiane finiscono per implodere letteralmente in loro stesse ma non se ne accorgono perché sono troppo chiuse nel loro mondo! Rinvengo questa forma patologica soprattutto all'interno di alcuni movimenti cattolici...
Chi subisce questa mentalità finirà inevitabilmente per dire: “il singolo fedele DEVE poter osservare l'altare, il sacerdote e i fedeli che lo circondano”. E così, se l'edificio ecclesiasico lo impedisce, si iniziano a mettere video a circuito chiuso un poco ovunque.
Questo bisogno (direi) malato e morboso di buttare l'occhio sempre al di fuori di sé, distoglie il singolo dal portare l'attenzione al suo cuore (dal quale tutto deve partire e arrivare), dove il culto liturgico deve necessariamente giungere.

Se lo sguardo inizia a vagare fuori di sé, disperdendo le energie dell'interiorità, avviene inevitabilmente un rovesciamento: la liturgia assume una forma “arituale”, dunque pian piano spettacolare. È quanto sta accadendo un po' ovunque.
Clero e laici, oramai disabituati al fatto che esiste un'interiorità da coltivare che è il centro, il trono della liturgia esteriore, puntano verso un culto sempre più spettacolare e “arituale”.

Come fare per ristabilire l'ordine? Personalmente penso che quest'85%, a meno che non abbia una particolare “folgorazione”, non cambierà. Chi è abituato a vivere zingarescamente, vagando di città in città, non potrà mai capire chi ha una casa e ci vive bene dentro, mantenendola pulita e accogliente. In tal modo, chi vive una liturgia che ha una forma non rituale e spettacolare, potrà capire molto difficilmente chi ha bisogno di un culto che si esprime in forma rituale e sacrale. Faccio un esempio per spiegarmi meglio. Se ad uno zingaro uno Stato offre un appartamento, (come accadde in Romania) succede che ci fa abitare i propri animali mentre riserva una tenda in giardino per sé e i propri familiari pur di poter continuare a vivere come prima. Lo stesso atteggiamento ha chi vuole una liturgia “arituale”: vuole vivere senza una regola precisa o ne stabilisce lui di volta in volta.
Ecco perché non possiamo avere un vero dialogo con queste persone e, in definitiva, non possiamo cambiarle!
In questo modo sia la forma “arituale” che quella “ritualistica” prescindono da un reale ed equilibrato lavoro spirituale forse perché, nella maggioranza dei casi, le persone che vanno a queste messe non ci credono affatto o lo credono in modo molto distorto, quindi antitradizionale.

Sacro e profano
“Sacro e profano” sono termini che, a detta dei biblisti contemporanei, il Cristianesimo ha bell'è che superato. La divisione stabilita da queste parole, essi sostengono, inserisce nel reale una dicotomia insanabile tipica del paganesimo. Sono gli dei pagani – essi ammettono – che non vogliono mescolarsi con il mondo degli uomini e lo osservano con sufficienza dalla loro sfera sacra. Il mondo profano, dunque umano, è dominato dalla materia che non ha nulla di buono ed elevato in sé ed oscura la realtà. “Sacro e profano”, aggiungono, rimanderebbero ad un mondo platonizzante. Se nel Cristianesimo fino a pochi decenni fa si ragionava ancora in questi termini, ora, con la riscoperta della prospettiva biblica, c'è un vero e proprio superamento. Siamo tornati ad una visione genuina! Il Dio che crea nella genesi afferma: “Tutto è buono” per cui non ha senso andare contro quanto Lui stesso ha stabilito, concludono questi biblisti. Ne consegue che "tutto è santo, non sacro, santificato dalla presenza di Dio"(4). 
Tra l'altro, è proprio per questo motivo che, in qualche gruppo cattolico, non si benedice mai il cibo ma si preferisce benedire Dio per il cibo; è la berakà ebraica che ritroviamo anche nell'offertorio della Messa rinnovata cattolica.

A livello di architettura ecclesiastica, l'applicazione di queste idee comporta l'assenza del presbiterio o l'assorbimento del presbiterio – o santuario – nella navata della chiesa. Se tutto è santo perché creare ambiti “sacri”? Di più: se “tutto è santo” perché celebrare in una chiesa? Ecco uno dei motivi per cui, appena si può e la situazione lo consente, si preferisce fare le messe allo stadio, in un campo montano o in riva al mare...

Se esaminiamo questo discorso prescindendo da ogni ulteriore riferimento (cosa che normalmente si fa) esiste indubbiamente una certa coerenza. Ma questo discorso patisce fin da subito di un grosso handicap: il Dio che, creando, dice “tutto è buono” lo dice … a partire da SE STESSO e riferendosi ad un uomo che è a sua immagine e somiglianza!
Solo un uomo che diviene “come Dio” può dire la medesima cosa. Solo Adamo prima della sua disobbedienza poteva dirlo. 
Ma ora chi è come Dio? I nostri "biblisti" tacciono....

Con la pienezza della rivelazione operata da Cristo, con l'istituzione della Chiesa e dei sacramenti, l'uomo è divenuto come Dio? Da quanto appare, l'umanità rimane sempre in una condizione molto fragile e decaduta, nonostante tutto.
Nell'oriente bizantino la santità è sempre associata alla partecipazione con la grazia divina e, quindi, alla “divinizzazione” dell'uomo. Ma l'uomo “divinizzato” o santificato, per quanto manifesti la verità del Cristianesimo, non è che una rarità, dinnanzi ad una moltitudine di persone in tutt'altro stato.
Se, ad esempio, gli uomini fossero tutti santi nessuno si scandalizzerebbe o si comporterebbe male in società. Nessuno avrebbe idee maliziose, neppure dinnanzi alla nudità del suo prossimo. Ma siccome non è così, è saggio assumere delle precauzioni. È saggio avere altri orientamenti. 

Diversamente si manifesterebbe un'assurda ingenuità, come se il mistero del male non fosse ben presente e radicato nel mondo, al punto che san Giovanni nel suo vangelo quando parla di "mondo" lo intende sempre come la realtà che ha rifiutato Dio perché aderente al male (5).

Perciò se il discorso “sacro-profano” non vale nel versante di Dio e del primo Adamo (e qui la Bibbia ha ragione) rimane assolutamente valido nel versante dell'uomo attuale, uomo fragile e decaduto, che osserva la realtà circostante proiettando in essa tutte le sue passioni disordinate. Il discorso “sacro-profano” vale come mezzo per educare la persona in una prospettiva spirituale. Se una chiesa è resa “sacra” come edificio, rispetto al mondo circostante non è perché quest'ultimo è necessariamente malvagio ma perché, proprio in essa, avvengono permanentemente delle azioni che collegano il mondo umano con quello divino, cosa che non avviene, da che ne so, in un parco pubblico, tanto per fare un esempio. Dio irradia la sua bontà nutriente ovunque ma l'uomo è in grado di fare da “ombrello”, trattenendo quest'irradiazione. È questo il principio del “profano” cristianamente e spiritualmente inteso. Il principio del “sacro”, invece, indica un'esposizione diretta alla presenza divina senza un'interferenza umana che lo impedisca ma, piuttosto, con una collaborazione attiva dell'uomo stesso.
Chi ha maturato in sé questo tipo di visione pratica – constatabile in ogni momento della storia umana – costruirà delle chiese con valore sacro, distinguerà i presbiteri dalle navate, utilizzerà i veli nella liturgia, userà canti consoni alla liturgia, ecc.

26 aprile 1478: congiura dei Pazzi nel duomo di Firenze
con l'uccisione di Giuliano De' Medici, fratello di Lorenzo.
Se in una chiesa latina un tempo avveniva un omicidio, il culto era immediatamente sospeso e il vescovo doveva procedere a ribenedirla, riprendendo, dunque, una parte del rito di consacrazione dell'edificio ecclesiastico. Oggi, da quanto so, tutto questo non avviene. Perché? Non è forse perché l'Occidente cristiano non crede più nel “sacro-profano”?

Anche il disuso dei termini “sacro-profano”, alla fine, si spiegano per una mancanza reale di prospettiva spirituale nella vita cristiana, esattamente come chi diffonde una liturgia ritualistica o arituale. Non ci si avvede che l'oscuramento della spiritualità, alla fine, porta alla negazione della verità del Cristianesimo, alla sua alterazione, trasformandolo definitivamente in qualcosa di puramente e logicamente umano. È quanto sta accadendo sotto i nostri occhi. A questo punto vale la pena domandarsi: "Il figlio dell'uomo quando tornerà troverà ancora la fede sulla terra?" (Lc 18, 8).


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NOTE

(1) Questo concetto ha un'importanza capitale! Nello stesso mondo non cristiano il rito non ha bisogno di spiegazioni e dialoghi. Si mostra come "fatto", "azione sacra" che agisce per la sua stessa forza sugli astanti. Nel Cristianesimo tradizionale è presente lo stesso concetto, tant'è vero che la cosiddetta "omelia" ancor oggi in Oriente è opzionale. Solo un sacerdote particolarmente versato nell'arte omiletica ha, normalmente, il permesso di farla. Gli altri lasciano "agire" l'evento liturgico. 
Che nel mondo cattolico molti abbiano iniziato a deviare, concependo la liturgia magicamente, lo capiamo dalla Riforma luterana in cui Marin Lutero riduce, esasperato, la liturgia a Sermone sulle letture, dunque ad un'esposizione puramente razionale della Scrittura, prescindendo dal mondo simbolico della liturgia stessa e da azioni e parole sacre con cui era stata trasmessa fino ad allora. Un eccesso ha determinato, per contrapposizione logica, un altro eccesso. Il concilio di Trento ha semplicemente fatto quadrato attorno alla tradizione liturgica cattolica conservata fino ad allora minacciando di anatema chi la alterasse. La mancanza di un profondo spirito liturgico portò ad una certa stagnazione da cui nacque il bisogno di fare qualcosa. 
Anche le "messe dialogate" nascquero da tale bisogno, ancor prima del Concilio Vaticano II ma manifestarono una mentalità nuova (la stessa, in fondo, del famoso riformatore tedesco). Questa mentalità ebbe la meglio nel mondo Cattolico. Se, orologio alla mano, osserviamo la distribuzione temporale della nuova liturgia cattolica, noteremo che il culto assorbe poco più del tempo rispetto all'omelia. In alcuni casi (in certi movimenti cattolici) è l'omelia a far da padrona sul culto. È andato smarrito il concetto che la liturgia è "azione sacra" e la si è ridotta a "spettegolamento religioso"!

2) Un anziano signore tradizionalista, legato ad una fraternità tradizionalista cattolica, affermò proprio questo e non era l'unico caso. Per lui la spiritualità non era che una filosofia, parole vuote che non corrispondevano a nulla di pratico. L'uomo in morte fu celebrato come autentico "testimone" cristiano ma forse perché aveva lasciato alla suddetta fraternità ... due miliardi di vecchie lire!

3) Si osservi che è lo stesso tipo di discorso con cui le comunità nate con la Riforma protestante motivano il loro culto.

4) È il discorso che, anni fa, mi faceva uno studente, ora divenuto biblista e insegnante nelle Università teologiche romane. La sicumera di questo prete - che da allora non è affatto cambiato - mi ha sempre molto colpito. In queste menti esiste un riduzionismo notevole e, d'altra parte, nel caso di questa persona siamo davanti ad un sacerdote decisamente molto secolarizzato. Se tutto è santo, non esiste alcun dovere da parte dell'uomo di esercitarsi asceticamente perché va bene così com'egli è. Se tutto è santo l'uomo non deve chiedere perdono a Dio ma, semmai, al suo prossimo, se non sa essere socialmente solidale (unico peccato concepibile). Devo constatare che molti tradizional-ISTI, proprio perché tali, hanno armi completamente spuntate dinnanzi alle provocazioni di questo clero secolarizzato che continuerà, così, la sua corsa da riduzionismo ad ulteriore riduzionismo mietendo vittime.

5) I biblisti cattolici attuali, però, hanno una forte ritrosia a dover ammettere questo al punto che preferiscono porre in ombra la constatazione giovannea che noi, per altro, sperimentiamo ogni giorno sotto varie forme e maniere. Il mondo, per questi ideologi, non è che pura bontà.

mercoledì 31 luglio 2013

Comprensione sensibile, razionale e mistica della Divina Liturgia



Il mondo cristiano di tradizione bizantina ha un modo differente di concepire la liturgia rispetto a quello cattolico-"latino".

Nel mondo ortodosso si crede che la Divina Liturgia (la messa) sia la manifestazione del Cielo sulla terra. È Dio stesso che, in qualche modo, s'irradia nel momento della celebrazione.

Se l'attore principale è Dio ne consegue che sacerdote e fedeli sono assolutamente subordinati: non ha senso che il prete "cerchi" i fedeli per farli partecipare meglio e che i fedeli "cerchino" il prete per essere da lui sostenuti, dal momento che entrambi sono rivolti al mistero che sta avvenendo: il Regno di Dio che viene (1). Non ha senso che gli occhi corrano qua o là, come se si stesse davanti ad uno spettacolo mondano perché è Dio che tocca gli astanti.

L'idea di aver una partecipazione attiva, secondo le modalità ideate nel mondo cattolico-"latino", non ha alcun motivo di esistere nel contesto bizantino. Le stesse disposizioni e apparati liturgici non servono per fare "spettacolo" o per appiccicare lo sguardo del fedele su di essi procurandogli emozioni romantiche o quant'altro ma sono un semplice rimando iconico alla gloria divina. 

Qui giova fare una distinzione assolutamente importante.

Nel post precedente ho accennato all'antropologia dei Padri della Chiesa. Per essi l'uomo è:
 
a) corpo (con i suoi cinque sensi),
b) psiche (con la sua razionalità),
c) spirito (con i sensi spirituali).

Queste tre parti formano l'intero uomo e l'uomo non è mai perfettamente tale fintanto che queste tre parti non funzionano tutte e non entrano in armonia tra loro. È compito della Chiesa (che ha questa conoscenza) renderlo  uomo completo.

Ne consegue che la liturgia stessa ha tre generi di comprensioni:

a) sensibile (coinvolgendo i cinque sensi)
b) razionale (coinvolgendo la mente)
c) mistica o spirituale (coinvolgendo i sensi spirituali).

Nel mondo cattolico-"latino" sono fortemente privilegiate le prime due mentre la terza oggi praticamente non esiste più (2). Questo non solo è indice di un'antropologia monca, se stiamo a quanto ci descrivono i Padri della Chiesa, ma indica che, dal punto di vista spirituale, questa realtà, di fatto, non funziona più: si è come "chiusa" al Cielo.

Procediamo alla descrizione delle tre conoscenze.

a)  La conoscenza sensibile della liturgia

Questa conoscenza avviene quando, nel momento della liturgia, si ammirano i suoi colori (nei paramenti, nelle icone, nell'armoniosità con cui è costruito il tempio); si gode della fragranza dei suoi profumi (il profumo dell'incenso, delle erbe e dei fiori usati in talune circostanze); si gustano i suoi sapori (il gusto dell'antìdoron, del pane inzuppato nel vino alla fine della Liturgia in certe solennità, della kolliva per la commemorazione dei defunti); si toccano i suoi oggetti sacri (con le labbra baciando le icone e le reliquie); si sentono i suoi canti che creano atmosfere particolari...

b) La conoscenza razionale della liturgia

Tale conoscenza si manifesta in diverse maniere, a seconda dell'età della persona. Ci può essere una conoscenza elementare (comprendente i significati dei testi liturgici) e una conoscenza più complessa (che illustra come si è formata la liturgia e che senso hanno certe pratiche). Generalmente questa conoscenza non deve schermare o negare le altre conoscenze essendo a servizio di una maggiore coscienza di quanto accade.

c) La conoscenza mistica o spirituale della liturgia

I Padri della Chiesa spesso hanno cercato di far capire che questo genere di conoscenza è la più alta, la più profonda e, direi, la più vera. Troviamo tutto ciò nelle mistagogie patristiche.
Questa conoscenza deriva da un intuito spirituale sviluppato fino a divenire un vero e proprio "occhio". Più l' "occhio" interiore è attivo ed è purificato più è in grado di percepire, attraverso il velo della materialità, la presenza vivente della Divinità. È un genere di conoscenza soprarazionale assai difficilmente comunicabile con i mezzi ordinari. Questo tipo di conoscenza è presente anche nella Scrittura quando l'agiografo, per manifestarla, inizia ad esprimersi con termini paradossali, razionalmente quasi assurdi e contraddittori. L'Oriente ha sempre confessato che la Divina Liturgia, rivela la presenza divina al punto da definirla come un "tremendo mistero". Il "tremendo" nasce proprio dalla sensazione di essere a contatto con qualcosa di totalmente al di fuori del naturale e dell'umano.

Queste tre conoscenze procedono, in un certo senso, in progressione. Ma il fatto che la terza conoscenza sia di ordine superiore, rispetto alle altre due, non significa che l'uso della razionalità debba essere abolito, poiché se non assolutizzata, la razionalità è spesso indispensabile. D'altronde essa è imprescindibile poiché riguarda il mondo naturale nel quale siamo sempre immersi. E la liturgia, pur avendo un profilo spirituale "soprannaturale", ha pure un profilo naturale poiché in questa vita viviamo sulla terra, non in Cielo.

Un ottimo equilibrio tra le tre conoscenze lo vediamo nei Padri più famosi: pur essendo uomini spirituali, esercitati nei monasteri e cultori della vita monastica, erano uomini di cultura, formati nelle migliori "università" dell'epoca.

Quando questo equilibrio si spezza (il che oggi purtroppo è la norma) abbiamo forme assurde e malate in cui, in nome della razionalità, si abolisce la spiritualità e la sua relativa conoscenza o, al contrario, in nome di un malinteso misticismo, si contrasta un corretto uso della razionalità. 

Qui bisogna ricordare che il più grande alfiere del monachesimo bizantino, Gregorio Palamas (1296-1359), pur non spingendo i suoi monaci alla conoscenza razionale (poiché per lui era sommamente importante quella spirituale), lasciava che i laici avessero una  conoscenza intellettuale, cosa che egli stesso, d'altronde, ebbe negli anni della sua gioventù, prima di divenire monaco.

Le applicazioni degli squilibri suaccennati si vedono subito nella liturgia quando, in nome della razionalità, si rende la chiesa un luogo freddo, totalmente chiuso alla trascendenza o, al contrario, in nome del misticismo e della spiritualità si vuole a tutti i costi tenere ignoranti i propri fedeli pure sui testi stessi che formano la liturgia. Davanti a questi squilibri non ci sono scusanti che tengano.

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(1) Proprio per questo la Divina Liturgia inizia sempre con le parole: "Benedetto il Regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo....".
(2) Un tempo per sottolineare l'aspetto trascendente dei sacramenti e della liturgia si parlava in termini di "grazia divina", cosa oggi quasi totalmente scomparsa.

lunedì 27 agosto 2012

Le campane



Le campane sono un mezzo utilizzato dalle chiese cristiane per richiamare l'attenzione a momenti particolari della giornata.
Indicano, innanzitutto, un fatto evidente: il Cristianesimo, come ogni altra religione, non è un fatto individualistico e privato ma sociale. Il fatto che il suono delle campane si diffonda in tutto lo spazio circostante, richiama ogni realtà a qualcosa di ben preciso che appartiene all'universo religioso, un universo non confinato, dunque, nel solo spazio della coscienza individuale.

Nei paesi in cui si confessa la laicità dello Stato e che, parallelamente, confessano la religione come fatto privato, la presenza del suono delle campane è un po' una "contraddizione", un segno che testimonia tutto un diverso ordine di cose, dal momento che non esiste luogo in cui questo suono non possa penetrare.

In conseguenza di ciò, oggi si nota il tentativo di alcuni d'imporre un limitato scampanio mentre, nella grande campagna francese, molti crescono senza avere mai sentito il suono frequente d'una campana od essere entrati in una chiesa.

Oltre ad annunciare la presenza o l'imminenza di una funzione liturgica, le campane ne marcano i momenti salienti. Succedeva, così, che le campane suonassero in corrispondenza dell'elevazione dell'ostia e del calice (nel rito latino) e che continuino a suonare all'inizio della grande Dossologia e del grande Ingresso (nel rito greco-bizantino) quando il pane e il vino sono portati in processione; che suonino nella grande dossologia al sabato santo nel rito latino (gloria in excelsis Deo) e che, parallelamente, suonino all'inizio di ogni grande dossologia verso la fine del mattutino nel rito bizantino.

Il suono delle campane annuncia, altresì, la Resurrezione di Cristo. 

Nei monasteri latini tradizionali, le campane segnano l'inizio del canto del breviario nelle varie ore liturgiche poiché la preghiera santifica lo scorrere del tempo e le campane stanno a ricordarlo particolarmente.

Nel famoso quadro l' "Angelus", si ritrova tale aspetto: una coppia di contadini, al suono delle campane, ferma il suo lavoro e recita la preghiera mariana. L'annuncio del tempo, prima ancora che indicare un'ora, indicava la santificazione della stessa. Certamente l'angelus non era come la preghiera liturgica delle ore, essendo solo un esercizio di pietà, ma voleva, in qualche modo, conservare ancora la santificazione di una particolare ora presso chi non era né chierico né monaco. Una pratica oramai totalmente dimenticata dalla massa della società.



A proposito di questo tema è stato scritto: 
"Le campane oltre il normale incarico di segnalare l'ora dei servizi religiosi, ebbero anche altri uffici congeneri, tuttora vivi nelle chiese [l'autore scriveva decenni fa' e questa pratica oramai è morta]; come quello di avvertire dell'agonia e morte di un fedele, perché si preghi per l'anima sua, costume di provenienza monastica; di scongiurare i temporali o meglio gli spiriti maligni che, secondo la credenza medioevale, ne sarebbero i suscitatori; di preannunciare la sera precedente il digiuno del dì successivo; di segnare l'ora del coprifuoco; di imprimere una nota di gioia nelle circostanze solenni della chiesa; ed altri ancora di carattere civile (l'orologio), ma sempre per un interesse collettivo". (Cfr. Mario Righetti, Storia Liturgica, I, Marietti, p. 484).

Le campane, come ogni altro elemento della chiesa, sono benedette e consacrate con una funzione particolare presieduta dal vescovo. In questo modo il loro suono non è considerato come ogni altro ma, in qualche modo, gli viene attribuito il valore di una "benedizione" che si diffonde su ovunque lo ascolti e lo accolga con animo ben disposto.

Il rito tradizionale latino di consacrazione delle campane (che in qualche modo ha elementi simili a quello bizantino) è stato descritto da Mario Righetti come segue:

"Il rituale della cerimonia, che di regola è demandato al vescovo, si trova già sostanzialmente abbozzato nel [rituale] gelasiano del secolo VIII, e poi meglio rifinito nel Pontificale romano-germanico, dal titolo Ordo ad signum ecclesiae benedicendum. Esso comporta tre elementi principali:

1) La lustrazione della campana con acqua miscelata di sale ed olio. 
L'olio più tardi (XIII secolo) venne omesso. La prima delle due formule relative enuncia in dettaglio gli scopi della benedizione, che non sono frutto di magia, ma effetto della virtù dello Spirito Santo:

Benedic, Domine, hanc aquam benedictione caelesti et assistat super eam virtus Spiritus sancti, ut cum hoc vasculum ad invitandos filios eclesiae preparatum, in ea fuerit tinctum, ubicumque sonnuerit ejus tintinnabulum, longe recedat virtus inimicorum... incursio turbinum... calamitas tempestatum... et credscat in eis devotionis augmentum ut festinanter ad piae matris Ecclesiae gremium, cantent tibi canticum novum in eclesia sanctorum, deferentes in sono praeconium tubae, modulationem psalterii...

Il pensiero della nota festiva che desta il suono della campana in chi ne ascolta la voce simbolica, ha suggerito a questo punto il canto dei sei salmi di Laudes: ps. 145-150. Nel frattempo il vescovo coll'acqua benedetta che ha confezionato, lava la campana entro e fuori, concludendo la lustrazione con una orazione a Dio, affinché al suono di quello strumento

... fideles invitentur ad praemium...; crescat in eis devotio fidei, procul pellantur omnes insidiae inimici... ventorum flabra fiant salubriter ac moderate suspensa, prosternat aereas potestas dextera tuae virtutis. Per.

2) Le unzioni sacre. 
Astersa la campana, viene consacrata col Crisma. Il rito è d'origine gallicana, e, dato l'oggetto, non si presenta certamente ben indovinato; ma ci voleva per completare l'analogia col battesimo. Il vescovo pratica undici unzioni; sette sulla superficie esterna della campana, quattro all'interno. Negli Ordines più antichi, come nel Gellonense, le ultime unzioni soltanto sono compiute col Crisma; le prime con altro olio sacro senza distinguere fra quello dei catecumeni o degli infermi. Attualmente è prescritto quest'ultimo. Il Pontificale romano al secolo XIII dà la formula dell'unzione: Consecretur ut sanctificetur, Domine, signum istud in honorem S. Mariae Matris Christi, vel sancti illius, in nomine P. et F. et S.S. Amen.

La formula accenna ad una intitolazione della campana; l'uso infatti di darle un nome sacro in occasione del suo battesimo, è già attestato nel sec. X. Il Baronio riferisce che pp Giovanni XIII, nel 961, fu il primo a imporre un nome ad una campana, quella di s. Giovanni in Laterano, facendovi iscrivere il nome Joannes.

Anche le unzioni hanno carattere apotropaico. Risulta dal sal. 28 Afferte Domino filii Dei..., prescritto durante la cerimonia, che afferma la potenza sovrana della voce di Dio su tutti gli elementi, ripetendone l'alto concetto in sette versetti successivi. Per questo, il Pontificale romano-germanico portava in rubrica: Quot vicibus in psalmis dicit: Vox Domini... totidem (episcopus) signa faciat cum chrismate...

3) Le fumigazioni d'incenso.
Unta la campana, il vescovo le sottopone un incensiere fumante, thimiamate, thure et myrra, in modo che i vapori profumati si raccolgano e tutto riempiano l'imbuto campanario. L'incenso vuol essere innanzitutto un atto in onore allo strumento, divenuto res sacra; ma in pari tempo continua la linea esorcistica che compenetra tutto il rito. La Schola, infatti, durante la fumigazione, esegue gli ultimi sette versetti del sal. 76 Voce mea ad Dominum clamavi... nei quali si riafferma l'idea della onnipotenza di Dio sugli elementi. Dal canto suo il vescovo nella colletta che segue, dopo aver richiamato la forza taumaturga di Gesù nel sedare la tempesta sul lago di Cafarnao, prega il Signore che dum huius vasculi sonitus transit per nubila, Ecclesiae tuae conventum manus servet angelica, fruges credentium, mentes et corpora, salvet protectione sempiterna.

La pericope evangelica circa la visita di Cristo alla casa di Marta e Maria in Betania, la cui lettura chiude tutto il rito, fu un'aggiunta di Durando; ma non se ne intende bene il significato. Al suo posto il Pontificale romano del secolo XIII metteva la recita delle Litanie dei Santi". (Crf. Ibid, V, pp. 523-525). 

Da quanto detto, risulta che la campana non è considerata come un oggetto funzionale ma, quasi, come una realtà vivente, come, d'altronde, l'intero tempio. Essa ha un nome, un rito simile a quello battesimale (ora inesistente in ambito latino) e le si attribuisce una forza che deriva dalla grazia divina.
E' esattamente questo che spiega l'atteggiamento devozionale nella liturgia bizantina di consacrazione delle campane di cui alleghiamo eloquente documentazione fotografica (patriarcato di Mosca). Un atteggiamento che l'Occidente cristiano ha praticamente dimenticato in seguito ad un vero e proprio rinsecchimento, in molti suoi ambiti, della sua stessa fede.














lunedì 30 gennaio 2012

Linguaggio verbale, linguaggio liturgico




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Riassunto:
come avviene nel linguaggio verbale, il linguaggio liturgico adopera elementi preesistenti e ne cambia il significato. Il mondo precedente non viene mai totalmente distrutto ma convertito sulla base di nuove esigenze e questo è inevitabile. L'altare cristiano, dunque, è sia ara sacrale del sacrificio della Nuova Alleanza, sia mensa del Regno. 

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Oggi, da parte di alcuni studiosi e diversi cristiani praticanti, si pensa che la Chiesa dei Padri, quindi quella dei primi secoli, abbia introdotto elementi di rottura sostanziale rispetto all'autentica e ideale "Chiesa delle origini". Conseguentemente, le Chiese storiche attuali esprimerebbero un "Cristianesimo corrotto".

Questo pensiero, largamente diffuso nel mondo protestante, oramai rappresenta più d'una tentazione all'interno delle  Chiese antiche. Il passo che segue ne è una chiara testimonianza:

"L'altro giorno Farnes davanti a cinquanta preti diceva: il sacerdozio nel Cristianesimo non esiste, i templi non esistono, gli altari non esistono. Per questo l‟unico altare del mondo tra tutte le religioni che ha tovaglie è il cristiano, perché non è un altare, è una mensa. Anche noi abbiamo fatto nell‟epoca della mescolanza con la religiosità altari di pietra monumentali, anche se poi gli mettevamo le tovagliette. Un altare non può avere tovaglie, perché l‟altare è per fare sacrifici di capre e di vacche” (Kiko Arguello, 1° SCR, p. 54).

Secondo la citazione, dunque, è esistita un'epoca nella quale vigeva la "religiosità naturale" con la quale si edificavano altari monumentali e templi. Ora, combattendo tale "religiosità" la Chiesa ha riscoperto l'altare cristiano che è solo una mensa, il tempio cristiano che sono solo i cristiani.


Riporto tale passo perché, nel suo intercalare, mostra quel modo ideologico tipico di chi tratta, senza conoscerle veramente, le questioni religiose.

Questo procedere per assurde e artificiali opposizioni crea una tale confusione che è necessario realmente partire da zero e fare delle considerazioni di base, offrendo un metodo con  considerazioni storiche.

1) Quando il Cristianesimo si diffuse, esistevano attorno a lui, molti altri culti; esisteva una cultura prevalente, quella ellenistica; esistevano usi e costumi di una società generalmente pagana.

2) La prima reazione fu quella della chiusura. Il Cristianesimo non voleva condividere quanto lo circondava ritenendolo  "ombra" o, addirittura, frutto demoniaco.

3) La seconda reazione, fu quella d'una prudente apertura con l'assunzione di elementi esterni ma purificati dal loro significato pagano.

Tutto ciò lo notiamo sin dagli inizi: san Pietro tendeva a privilegiare (e forse a chiudersi) nella chiesa dei giudei, san Paolo si apriva alla missione verso i pagani. Il suo discorso sull'Areopago è molto significativo, in tal senso.

Oltre a questa serie d'osservazioni, si deve tenere conto di altre semplici considerazioni: quando una persona abbraccia una fede estranea al suo luogo natìo (pensiamo, ad esempio, a quanti divengono buddisti in Italia) (1), non puo' prescindere da quanto ha imparato fino a poco prima.
Si trova nella condizione di dover adattare la sua lingua e la sua mentalità, alle esigenze della sua fede. E lo farà, evidentemente, cercando di conservare meglio possibile lo spirito religioso appreso.

I cristiani nell'impero romano hanno fatto esattamente questo. Quando hanno utilizzato il termine "logos" per indicare Cristo, non inventarono una parola nuova. Logos, infatti, è un termine lungamente utilizzato nella filosofia ellenistica. Essi presero questo termine (già presente in san Giovanni), e lo investirono d'un significato totalmente nuovo rispetto a quello pagano. Presero il termine, il significante, non lo rifiutarono, al punto d'averlo fatto divenire parte integrante della Rivelazione neotestamentaria: "In principio era il Logos e il Logos era presso Dio e il Logos era Dio" (Gv 1,1).

Qualcosa di analogo si deve dire nei riguardi dell'altare. La liturgia ha un suo linguaggio che, proprio come quello verbale, non s'inventa da zero ma si eredita da altri. Tale linguaggio viene adattato e modificato per obbedire ad esigenze religiose fondamentali.

Esempio di "altare" antitradizionale in una chiesa cattolica.
Qui il linguaggio sacro è distrutto a favore di una prospettiva naturalistica.
L'altare "ara del sacrificio" non esiste più. E' una soluzione che collide totalmente
con quelli che dovrebbero essere i riferimenti "normali" del tempio cristiano.
Tutto ciò riguarda pure l'altare cristiano. L'altare era presente sia nel paganesimo, sia nell'ebraismo. Il Cristianesimo, espandendosi e strutturandosi sempre meglio, prese tale "linguaggio" che lo precedeva e gli attribuì significati differenti. Non poteva davvero fare diversamente, proprio come un buddista italiano odierno non può ragionevolmente prescindere dalla sua lingua materna, se vuole comunicare con i suoi connazionali.

E fu così che,  nei riguardi dell'altare cristiano al significato di ara sacrificale dell'Agnello-Cristo (2), si sovrappose quello di mensa eucaristica (3).
Non un significato opposto all'altro, si badi bene!, ma un significato connesso e conseguente all'altro (4). 

Analogamente, la basilica pagana divenne il tempio cristiano, riutilizzando, evidentemente, elementi preesistenti al Cristianesimo stesso. Il tempio cristiano non ha lo stesso significato di quello pagano ma è pur sempre un tempio! L'elemento simbolico significante (il tempio) è stato preso e riutilizzato, non rifiutato! 


Il significato patristico dell'altare e del tempio cristiano, finirono per imporsi con un'autorità simile a quella con cui s'impose il significato di "Logos" nel nuovo testamento. E anche questo fu inevitabile ma non fu certo sentito in termini di rottura o di banale contrapposizione con il passato.

Le idee esposte nella citazione, dunque, oltre ad essere pacchianamente ideologiche, finiscono per andare contro la logica elementare e distorcere quanto storicamente si è verificato. Basta solo rifletterci un poco per capire che molte cose non vanno nel senso da loro esposto. Ci si stupisce, dunque, di come tali idee possano diffondersi ed essere accolte quando, in realtà, nel Cristianesimo le si dovrebbero semplicemente ridicolizzare e rifiutare.


Come il termine "Logos" è entrato nella Rivelazione biblica, pur essendo un termine prettamente culturale e legato ad un contesto ben preciso, così gli elementi simbolici della liturgia hanno assunto una pregnanza talmente profonda che solo l'ignoranza dei tempi attuali può permettersi di metterli in discussione. Tale ignoranza non è solo prodotta dall'essersi estromessi dal flusso religioso tradizionale, all'interno del quale certe cose erano scontate, ma dall'essersi estromessi dalla "logica" con la quale si costruisce un linguaggio e lo si diffonde. E questo è molto grave.


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1) Quest'esempio puramente indicativo ha un limite: nel caso del buddismo, ci troviamo davanti ad una religione già strutturata e ben definita nelle sue pratiche. Il Cristianesimo dei primordi, invece, doveva strutturare il suo culto e iniziare ad articolare un vocabolario teologico per confutare le eresie che, dall'inizio, tentavano di minarlo. Si trovava, dunque, davanti a pesanti difficoltà culturali. Ma questo spiega. a maggior ragione, il suo urgente bisogno d'assumere elementi dal mondo circostante quali "mattoni" per il suo edificio. In questo senso l'elemento ellenistico-romano divenne una base incancellabile al Cristianesimo stesso.



2) "Appena possibile la semplice mensa lignea, usata nelle case nei secoli della persecuzione, divenne l’altare marmoreo in tutto simile all’ara sia ebraica che pagana, ma eloquente per esprimere ciò che l’Eucarestia era in realtà, il Sacrificio di Cristo" Enrico Finotti, Alle radici dell'altare cristiano, Liturgia, culmen et fons, dicembre-gennaio 2011. Vedi http://www.zenit.org/article-25298?l=italian


3) "Al contempo tale ara monumentale e preziosa non abbandonò la mensa, ma la assunse in sé adattandosi ad accogliere i santi doni conviviali e rivestendosi con una candita tovaglia". Ibid.


4) La prima opposizione in questo campo la fece, epoca moderna, Marin Lutero.