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venerdì 3 agosto 2018

Individualismo contro Tradizione


Quando si esaminano le dinamiche religiose nell'Occidente cristiano, non ci si può esimere dal considerare tutti i cambiamenti culturali avvenuti in esso, cambiamenti che, in un modo o in un altro, hanno finito per condizionare la fede.

Non è, dunque, un inutile sforzo quello di esaminare il contesto che circonda il Cristianesimo perché non di rado la stessa catechesi cristiana lungo i tempi ha dovuto adattarsi a uomini diversi per sensibilità e cultura.

Nel volgere dell'ultimo secolo certi fenomeni si sono enormemente accelerati. Non mi riferisco solo alle scoperte scientifiche e tecnologiche, al modo di vestire, alle convenzioni sociali... Penso, più generalmente, all'emergere prepotente dell'individualismo, ossia all'affermazione individuale della persona. Se in una società tradizionale di un tempo un uomo aveva senso tanto in quanto era legato da vincoli di sangue, di etnia e di religione ad un gruppo ben preciso o a una grande famiglia, oggi un uomo si sente realizzato quando sente di essere “se stesso”, ossia quando è sciolto da quei vincoli che, al contrario, nel passato erano parte costitutiva e irrinunciabile della sua identità. In tal modo, la sua felicità non consiste nel giungere anche al sacrificio pur di contribuire alla felicità del gruppo nel quale si identifica, ma a svincolarsi da quel gruppo appena gli viene chiesto un suo contributo in termini di tempo, denaro e fatica.
Il divorzio della coppia, evento oramai rapidamente praticabile anche per motivi leggeri, rappresenta la concreta manifestazione di quanto sto dicendo.
Se l'individuo è più importante della coppia, di una grande famiglia o di un gruppo sociale, ad egual ragione è più importante di qualsiasi autorità poiché diviene, de facto, autorità per se stesso.

I legami che un uomo individualista può avere verso la società sono allora caratterizzati dal semplice vantaggio personale. Tutto è filtrato da questo individualismo che non lascia spazio per altre possibilità.

Se questo modo di vivere entra nella Chiesa o prima o poi ci saranno degli sconquassi. L'antica Tradizione cristiana non si è stabilita per dei semplici vantaggi individualistici, dal momento che richiede la spoliazione dell'uomo vecchio e la conformazione a Cristo. Conformarsi a Cristo non significa solo farsi lavorare dalla grazia, ossia dalla sua forza redentiva, ma seguirne gli insegnamenti poiché Egli è il Maestro, l'Autorità per eccellenza.

La mens cristiana faceva sì che nell'epoca medioevale l'artista potesse non firmasse le sue opere, che al più erano catalogate in una scuola, in uno stile. Non ne sentiva il bisogno perché non esisteva la mentalità odierna. La stessa teologia medioevale latina, per quanto fosse insegnata da maestri particolari, ritenuti affidabili e stimabili, si credeva aderente più possibile alle auctoritates e, se introduceva delle novità di metodo, aveva somma cura di motivarle in modo tale da renderle il più possibile in continuità con il passato.

Nella teologia bizantina c'era la stessa mentalità: Gregorio Palamas, che sembrava avesse introdotto delle novità, si difese lungamente appellandosi alla tradizione antica e alle autorità ascetiche di cui si sentiva autentico prosecutore. Pure i suoi accusatori si appellavano alle antiche autorità, non ad una migliore e originale loro comprensione.

Rispetto a quel tempo, attualmente si da un profondo valore alla coscienza individuale, una grande enfasi alla singola persona e all'originalità che essa può proporre. Il bisogno individuale diviene, dunque, legge.

Se la regola benedettina esorta il discepolo ad ascoltare “i precetti di tuo padre”, un possibile discepolo attuale rifiuterà sempre più l'educazione che, per lui, sarà equivocata come un'umiliazione alla sua spontaneità e alla sua voglia di vivere. Il “clero fai da te” che ci circonda sembra sia un chiaro segnale di tutto ciò e la fatica improba degli insegnanti nelle scuole ce lo testifica chiaramente.

La Chiesa, che lo voglia o no, eredita ancora ampiamente l'impostazione antica, quella delle auctoritates per intenderci, e la ritroviamo negli insegnamenti del passato e nella sua storia. La stessa Tradizione ha il suo valore proprio perché la si fa risalire a Cristo Maestro. Tutti gli insegnamenti che derivano dalla Tradizione e la formazione del culto cristiano trovano la loro autorevolezza perché sono stati composti da chi ha carismaticamente praticato e ben capito l'insegnamento di Cristo Maestro fino ad incarnarlo. Qui l'individualismo e le ragioni puramente umane non trovano spazio alcuno.

La Chiesa può mantenere quest'impostazione antica fintanto che in essa esiste una formazione reale, efficace e carismatica (in senso evangelico) dei suoi membri o, almeno, dei suoi membri più rappresentativi. Questo non significa che il clero, ad esempio, non debba sapere in che mondo vive ma che non deve assolutamente assumerne la mentalità.
Nel momento in cui ciò disgraziatamente avviene, nella Chiesa si stabilisce una vera e propria rivoluzione.

Recentemente Bergoglio ha manifestato il desiderio di cambiare l'insegnamento catechetico sulla pena di morte ritenendo quest'ultima sempre e comunque inammissibile. Viceversa, la tradizione cristiana sia in Oriente che in Occidente l'ha ritenuta possibile in determinati estremi casi.
Quello che in questo fatto si deve cogliere non è tanto il favore o meno alla pena di morte, la ragione o meno di Bergoglio, quanto il suo bisogno di affermare una decisione individuale (che, dati i tempi, trova pure ampio consenso altrui) contro una decisione tradizionale mantenuta dalle auctoritates (non ultima quella di san Paolo in Rom 13,4).

Qualcosa del genere si è visto nell'inserimento del nome di san Giuseppe nel Canone Romano da parte di papa Roncalli. Essendo costui personalmente devoto allo sposo della Madonna, decise di inserirne il nome nell'anafora romana. Fino a quel momento era impensabile che una persona, fosse pure un papa, potesse mettere mano all'anafora per un bisogno personale. Ciononostante, l'evento fu rapidamente giustificato ma non ci si avvide che rappresentava simbolicamente la crepa di una diga. Infatti quello che poi successe convalida quest'interpretazione ed è oramai storia: i più coraggiosi liturgisti cattolici presero iniziative sempre più ardite e trasformarono, non di rado stravolgendo, la liturgia stessa fino ad allora intangibile. Che lo facessero con “buone e studiate intenzioni” non toglie nulla al fatto che siamo dinnanzi a bisogni individuali che si contrappongono ad una stabile e immutabile Tradizione.

Gli stravolgimenti della teologia, della liturgia e dell'ethos ecclesiastico trovano la loro autentica radice nell'individualismo che, dunque, si pone agli antipodi della Tradizione e dell'obbedienza che normalmente le si tributava.

Non è difficile immaginare che, una volta introdotta la suddetta correzione nell'insegnamento catechetico, avvengano altri ritocchi per altri insegnamenti troppo lontani dalla mentalità individualistica secolare, perché ancora troppo legati ai dettami della rivelazione.

Anche qui, presi da considerazioni molto individualistiche e umane, non ci si avvederà che la meta finale di tale mentalità potrà scivolare nel radicarsi dello snaturamento della Chiesa, nella rottura della successione apostolica e nell'invalidamento di ogni sua forma sacramentale. In breve: nella fine secolare della Chiesa in quanto istituzione globale e nella sua sopravvivenza in sparuti e dispersi gruppi.

mercoledì 25 luglio 2018

L'eresia liturgica

L'altare maggiore della basilica di san Marco a Venezia, esempio di altare tradizionale latino

In questo blog mi sono concentrato sulla tradizione liturgica indicando per tradizione le basi fondamentali sulle quali si fondano tutte le liturgie cristiane antiche. 

Queste basi sono imprescindibili ancora oggi perché sono il “lessico elementare” attraverso il quale si comunica la trascendenza del culto, non a caso definito in Oriente “culto divino”.

Essendo imprescindibili, tali basi sono di fatto intangibili: nessuno può pensare di cambiarle, esattamente come nessun matematico può pensare, da un certo momento in poi, che 1+1 fa 3. 

Se il culto divino è trasmesso intatto, almeno nelle sue linee fondamentali, è in grado di trasmettere una sensazione trascendente, che definiamo comunemente come “sacra”. Il sacro, nella liturgia, non è un retaggio pagano da abolire, come si dice comunemente tra alcuni liturgisti e biblisti cattolici (influenzati in questo da una certa riflessione protestante), ma un elemento necessario e primordiale alla liturgia stessa. 

Perciò la liturgia è sostanzialmente un insieme di azioni ripetitive, ieratiche, composte, di espressioni solenni, di canti lontani dalle mode secolari. 

Per questo la liturgia si attua in luoghi appositamente dedicati e consacrati, quali sono le chiese. Nelle chiese il luogo più sacro per eccellenza è l’altare perché simboleggia Cristo. E poiché Cristo significa l’ “unto di Dio”, l’altare viene consacrato con l’unzione del sacro crisma e in esso sono deposte le reliquie dei martiri che confessarono la retta fede cristiana. La stessa pietra con cui è fatto l’altare rimanda alla pietra della retta fede in Cristo (vedi Mt 16, 18), pietra apostolica che fa una sola cosa con le reliquie dei martiri. 

Non a caso qualche liturgista cattolico nel periodo preconciliare scriveva che l’altare è un luogo così eccellente che su di esso, al di fuori della celebrazione, non dovrebbe essere lasciato nulla, per mostrare a tutti che è l’ara del sacrificio cristiano, il rimando simbolico a Cristo stesso, ragion per cui il celebrante lo bacia e, in Oriente, solo una persona ordinata può passargli davanti. 

È, viceversa, molto deprimente dover osservare che tali ovvietà, che dovrebbero essere insegnate al clero cattolico, paiono essere completamente assenti. Così quando è persa completamente la simbologia liturgica, quando la trascendenza del culto cristiano non è più creduta e quando si ha bandito dalla Chiesa il significato rettamente inteso della parola “sacro”, ogni assurdità è possibile. 

Cristo e anti (ossia ciò che sta davanti o che si oppone a) Cristo.


Non sono passati molti giorni, dacché le cronache riportavano un fatto dissacrante accaduto in Versilia, precisamente nella chiesa di Serravezza. Nella pieve di san Martino ad Azzano (Lucca) un artista, con il permesso del parroco, ha esposto su un altare un’opera artistica che ritrae il busto di due uomini che si baciano (vedi qui). 

Tralascio di commentare la scultura stessa, poiché è stato ampiamente fatto nel web. Quello che mi preme osservare è il permesso tranquillamente dato dal parroco, tale don Hermes Luppi, per il quale è necessaria accoglienza e tolleranza. Il consacrato, entusiasta di questa scultura in chiesa (vedi qui), fa presumere un pensiero ampiamente diffuso nel mondo cattolico: siccome questa scultura (o altre simili) rappresenta un atto d’amore, allora può benissimo stare in chiesa, esposta su un altare, visto che i cristiani confessano un Dio d’amore. 

Questo tipo di pensiero è eretico, nel senso che l’amore divino, che la Chiesa deve testimoniare, non è un amore umano ma un amore totalmente trascendente, per quanto possibile in certi momenti e con certi presupposti perfino agli uomini stessi (*)

Quindi il pensiero non confessato, che assai probabilmente ha mosso questo parroco, è perfettamente ariano, se così si può dire, ossia finisce per vedere in Dio (e quindi in Cristo) attributi puramente umani. 

Questo spiega perché sull’altare, che rappresenta simbolicamente Cristo, è stata deposta tale scultura che rappresenta tutt’altro che Cristo. 

L’amore umano - ammesso e non concesso che la scultura lo rappresenti e non rinvii invece ad un puro libertinismo come di fatto oggi avviene - per quanto cosa nobile non è minimamente accostabile all’amore divino (**)

Se questo fosse chiaro, e non lo è per nulla, basterebbe per evitare simili accadimenti. Invece, dal momento che avvengono, dobbiamo dedurre che in quei luoghi non si confessa affatto la fede antica in Cristo ma qualcosa che sicuramente non c’entra con essa e che di fatto l'ha sostituita. E quando le cose stanno così, è evidente che qualsiasi realtà religiosa che lo mostra non è certamente la Chiesa voluta da Cristo. 

Chi vuole capire capisca e ne tragga le logiche conseguenze.

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(*) Non sto qui a ricordare i molti trattati ascetici che ricordano questo punto, principalmente in Oriente, ma anche in Occidente se si tiene ad esempio conto degli scritti dei fondatori dell'ordine dei Carmelitani Scalzi. Quello che invece fa pensare è che tale punto non è affatto preso in seria considerazione in molta produzione teologico-sistematica occidentale, come se il pensiero e la prassi fossero cose sempre e necessariamente diverse. Ciò ha inevitabilmente finito per far scivolare la teologia in un puro umanesimo orizzontale, come ci è dato vedere oggi.

(**) Il lettore ponga attenzione a quest'osservazione che, di fatto, esprime la lontananza della teologia basso medioevale latina da quella bizantina. Per la prima, esiste un'analogia tra le realtà divine e quelle create per cui, in un certo senso, l'amore umano può rimandare a quello divino. La seconda, viceversa, rifiuta categoricamente ogni analogia tra la realtà increata (Dio e le sue caratteristiche) e la realtà creata (il creato, l'uomo e le sue caratteristiche) sottolineando la completa estraneità dell'una riguardo all'altra ma ammettendo la possibilità, per l'uomo, di vivere già qui qualcosa delle caratteristiche divine nella grazia che Cristo ha concesso alla Chiesa. L'analogia che, in Occidente, ha dominato la riflessione teologica ha oggi portato, certamente senza volerlo, ad una vera e propria sovrapposizione e sostituzione: il divino è di fatto assorbito nel solo umano, l'amore puramente umano diviene tout-court espressione del divino e porta alla totale eclissi del secondo. I presupposti teologici dell'Oriente, al contrario, impediscono radicalmente questo cortocircuito, nonostante per ignoranza o pura emulazione possano sporadicamente esistere fenomeni in parte apparentemente simili.
Così, dietro ad una scelta o una prassi, c'è sempre un pensiero, implicito o esplicito che sia, e le scelte operate da una teologia, per quanto possano sembrare astratte, hanno sempre, o prima o poi, delle pesanti ricadute pratiche che, all'inizio, possono anche non essere state intravviste o volute. D'altronde, chi costruisce una casa su un piano inclinato (magari perché obbligato a farlo) non vorrà mai che essa crolli ma è legge fisica che questo, presto o tardi, avvenga. Lo stesso si deve dire del pensiero cristiano, o della teologia che dir si voglia.

domenica 17 giugno 2018

Recensione: Guillaume Cuchet, Come il nostro mondo ha cessato d'essere cristiano. Anatomia di un collasso.


Guillaume Cuchet, Come il nostro mondo ha cessato d'essere cristiano. Anatomia di un collasso, Editions du Seuil, Parigi, 2018, 276 pp.

Molti autori hanno constatato, per mezzo secolo, il drastico calo del Cattolicesimo in Francia e, più ampiamente, in Europa e se ne sono preoccupati: Louis Bouyer in La decomposizione del Cattolicesimo (1968), Serge Bonnet, Gli scopi trasversali. Gli avatar del clericalismo della Quinta Repubblica (1973), Michel de Certeau e Jean-Marie Domenach, Il Cristianesimo deflagrato (1974), Paul Vigneron, Una storia contemporanea della crisi del clero francese (1976), Jean Delumeau, Il Cristianesimo sta per morire? (1977), Emile Poulat, L'era post-cristiana (1994), Mons. Simon, Verso una Francia pagana? (1999), Denis Pelletier, La crisi cattolica (2002), Daniele Hervieu-Léger, Cattolicesimo: la fine di un mondo (2003), Yves-Marie Hilaire, Le Chiese scompariranno? (2004), Denis Pelletier, La crisi cattolica. La religione, la società, la politica in Francia (1965-1978) (2005), Emmanuel Todd e Hervé Le Bras, Il mistero francese (2013), Yvon Tranvouez, La decomposizione della cristianità occidentale (2013).

In questo libro – che rovescia il titolo del libro di Paul Veyne, Quando il nostro mondo è diventato cristiano, per indicare l'inversione del processo di cui sono stati analizzati gli inizi – William Cuchet, docente di storia contemporanea presso l'Università di Parigi-Créteil, specializzato in storia del Cattolicesimo, propone di definire il momento in cui è iniziata tale decadenza e di determinarne le ragioni. Uno dei principali strumenti scientifici usati è l'analisi statistica. Uno dei criteri oggettivi da lui considerati è il tasso di pratica regolare domenicale nella popolazione francese, dal 27% nel 1952 all'1,8% nel 2017. Questo criterio può essere messo in discussione perché, secondo un articolo recente de La Croix, si può essere cattolici “praticanti” con altri impegni, ed è vero che in assenza di una tale pratica domenicale una cultura cristiana può durare un po', ma la perdita di contatto con la la vita liturgica può solo indebolirla gradualmente e portare alla sua scomparsa.

Il primo terzo del libro definisce l'adesione al Cattolicesimo quale emerge da una massa di dati statistici elaborati dal clero tra il 1945 e il 1965 e, in particolare, le statistiche accuratamente e regolarmente stabilite in un periodo più lungo (1880-1965) dal canonico Boulard, sociologo e autore di quattro volumi di materiali per la storia religiosa del popolo francese, XIX-XX secolo.
Secondo G. Cuchet, è negli anni '60, più precisamente nel 1965, che può essere datata la rottura che ha inaugurato il processo di decadenza del cattolicesimo in Francia. Tale rottura coincide con il Concilio Vaticano II, il che è paradossale, perché questo Concilio è stato progettato, da chi lo ha organizzato, come un aggiornamento per vivificare il Cattolicesimo davanti al mondo moderno. Ma, sottolinea l'autore che ha esaminato varie ipotesi, «non vediamo quale altro evento possa aver generato una simile reazione. Con la sua semplice esistenza, nella misura in cui improvvisamente ha reso possibile la riforma delle vecchie norme, il Concilio è stato sufficiente a scuoterle, soprattutto perché la riforma liturgica che riguardava la parte più visibile della religione per un gran numero, ha iniziato ad applicarsi già nel 1964».
Nella seconda metà del suo libro, l'autore analizza in modo preciso le cause, legate al Concilio, della rottura e del processo di decadenza che, a livello globale, continua ancora oggi.
Il Concilio ha causato una perdita di riferimento tra i fedeli. Il testo conciliare Dignitatis humanae, pubblicato nel 1965, sulla libertà religiosa, appariva «come una specie d'autorizzazione non ufficiale a fare affidamento al proprio giudizio per quanto riguarda il credo, il comportamento e la pratica, che contrastava fortemente con la situazione precedente». Ciò ha suscitato la triste osservazione di padre Louis Bouyer: «Ciascuno non crede più, si limita a praticare quanto lo riguarda».
Nel campo della pietà, osserva Cuchet, aspetti della riforma liturgica che potrebbero apparire secondari, ma che non lo erano affatto sul piano psicologico e antropologico, come l'abbandono del latino, la comunione nella mano, la relativizzazione degli antichi obblighi, hanno svolto un ruolo importante. Lo stesso per quanto riguarda le critiche alla comunione solenne, moltiplicate dal 1960 e in particolare dal 1965, la nuova pastorale del battesimo (dal 1966) e del matrimonio (nel 1969-1970), che tendevano ad aumentare il livello di accesso ai sacramenti richiedendo ai candidati più preparazione e impegni personali.

Nel campo delle credenze, è il fatto stesso della variazione del discorso ad aver contato. La variazione dell'insegnamento ufficiale rendeva scettici gli umili i quali deducevano che, se l'istituzione ieri aveva ingannato” dando per immutabile ciò che era cessato di esserlo, non si poteva aver l'assicurazione che non lo sarebbe stato nel futuro. Un'intera serie di antiche “verità” sono improvvisamente cadute nel dimenticatoio, come se il clero stesso avesse smesso di crederci o non sapesse cosa dirvi al riguardo, dopo averne parlato e ritenute per così tanto tempo essenziali.

Un altro ambito in cui la congiuntura ha destabilizzato i fedeli, nota l'autore, è quello dell'immagine della Chiesa, della sua struttura gerarchica e del sacerdozio. «La “crisi cattolica” degli anni 1965-1978 fu inizialmente una crisi del clero e dei praticanti cattolici. L'abbandono della tonaca (dal 1962) e dell'abito religioso, la politicizzazione (a sinistra) del clero, l'abbandono di sacerdoti, religiosi e suore, appariva a molti come un vero “tradimento dei chierici”, senza precedenti dopo la “spretizzazione” della Rivoluzione, che ha avuto gli stessi effetti destabilizzanti”»

D'altra parte, «il Concilio ha aperto la strada a quella che potrebbe essere definita un'uscita collettiva dalla pratica obbligatoria sotto pena di peccato mortale, che occupava un posto centrale nell'antico cattolicesimo. [...] Quest'antica cultura della pratica obbligatoria si esprimeva principalmente nell'area dei “comandamenti della Chiesa” che i bambini imparavano a memoria al catechismo e di cui si doveva verificarne il rispetto durante l'esame di coscienza preparatorio alla confessione», e che includeva il dovere di santificare le domeniche e le feste, di confessare i peccati e di comunicarsi almeno una volta all'anno, di digiunare il venerdì, in occasione di grandi feste e nei cosiddetti periodi quaresimali detti delle “Quattro Tempora”. Tutte queste esigenze sono state ammorbidite, al punto da scomparire, eccetto la comunione che è divenuta sistematica e fatta senz'alcuna preparazione, dal momento che la confessione e il digiuno sono praticamente scomparsi. L'ammorbidimento del digiuno eucaristico fu, tuttavia, compiuto in varie fasi preliminari: nel 1953, Pio XII decise, pur mantenendo l'obbligo del digiuno dalla mezzanotte prima della comunione, che l'assunzione dell'acqua non l'avrebbe più spezzato; nel 1957, il motu proprio Sacram communionem ridusse il digiuno a tre ore per il cibo solido e a un'ora per il liquido; nel 1964, Paolo VI decretò che sarebbe stata sufficiente un'ora in entrambi i casi, il che significa concretamente la scomparsa del digiuno eucaristico, poiché un'ora è il tempo impiegato per recarsi in chiesa e per la parte di messa prima della comunione.

Durante questo periodo conciliare e post-conciliare, «è sorprendente – osserva l'autore –, vedere quanto il clero abbia volontariamente rimosso il vecchio sistema di norme su cui aveva tanto penato per porlo in atto». Creando inevitabilmente nelle persone la sensazione di “aver cambiato la loro religione” e di provocare, in una parte, un'impressione di relativismo generalizzato.
L'autore dedica due interi capitoli alle cause della decadenza che gli sembrano fondamentali: la crisi del sacramento della penitenza e la crisi della predicazione degli ultimi fini.

1) Secondo G. Cuchet, «La crisi della confessione è uno degli aspetti più rivelatori e sorprendenti della “crisi cattolica” degli anni 1965-1978». «La desuetudine della confessione è di per sé un importante fatto sociologico e spirituale che gli storici e i sociologi probabilmente non hanno preso pienamente in considerazione. Niente di meno, in effetti, rispetto alla travolgente trasformazione del massiccio abbandono, nel giro di pochi anni, di una pratica che ha plasmato profondamente le mentalità cattoliche nel lungo periodo. Nel 1952, il 51% degli adulti cattolici dichiarava di confessarsi almeno una volta all'anno (a Pasqua com'era stato reso obbligatorio dal canone 21 del Concilio Lateranense IV del 1215); nel 1974 erano solo il 29% e nel 1983 il 14%. Secondo l'autore, il punto di rottura è intorno al 1965-1966, quando la confessione ha cessato d'essere presentata come il “sacramento della penitenza” ed è stata presentata come “sacramento della riconciliazione”. Questo fenomeno andava di pari passo a:

- la fine della “pratica obbligatoria” già menzionata, e ad una depenalizzazione dell'astensione della pratica religiosa, considerata in precedenza come un peccato perché in contrasto con i comandamenti della Chiesa presentati come doveri assoluti a cui ci si doveva sottomettere;

- alla perdita del senso del peccato nella coscienza di molti fedeli, ma anche tra il clero che ora temeva di evocare tale nozione, come quella sugli ultimi fini. L'autore osserva a tal riguardo: «Il clero ha cessato bruscamente di parlare di tutti questi argomenti delicati, come se avessero smesso di crederci, mentre allo stesso tempo trionfava nei loro discorsi una visione di Dio di tipo russoviano: il “Dio Amore” (e non più solo “d'amore”) degli anni 1960-1970. I sacerdoti hanno asfaltato la strada per il cielo, sintetizzava nei primi anni '70, un'anziana contadina bretone in un'intervista con il sociologo Fanch Élégoët. Una volta stretta e ripida, era ora un'autostrada praticata da quasi tutti. Recante dove, se non c'era più alcun peccato o inferno, neppure qualche peccato grave che avrebbe potuto privare del paradiso. L'utilità della confessione, nella sua definizione tradizionale, fu in realtà sempre meno evidente»;

- ad una disconnessione tra confessione e comunione. «Nel vecchio sistema, ci si confessava più di quanto ci si comunicava e la confessione era principalmente sentita come una sorta di purificazione rituale che condiziona l'accesso all'Eucaristia». Lo sviluppo della comunione frequente, accompagnata dalla perdita del senso del peccato, e dall'idea di alcuni membri del clero, influenzata dalla psicoanalisi, secondo la quale si doveva decolpevolizzare i fedeli e “liberarli dal confessionale”, ha avuto come effetto che i fedeli erano ora invitati alla comunione senza doversi confessare. La comunione si è così banalizzata, mentre la stessa opportunità di confessarsi praticamente non esisteva più. Le regolari confessioni individuali, furono sostituite dal 1974 da “celebrazioni penitenziali” celebrate una volta all'anno prima di Pasqua; in questi incontri, i fedeli non confessavano più nulla (l'autore li chiama “forme di penitenza senza confessione”) ma ricevevano un'assoluzione collettiva dopo aver ascoltato un vago discorso in cui la nozione di peccato veniva sempre più spesso raggirata. E quando la possibilità di confessarsi rimase in alcune parrocchie o più tardi fu ripristinata, “i fedeli non sapevano molto bene come confessarsi, o anche se fosse ancora utile farlo”.

2) L'ultimo capitolo è dedicato a una causa di decadenza che sembra ugualmente fondamentale all'autore: la crisi della predicazione degli “ultimi fini”; l'autore si chiede, nel titolo del capitolo, se ciò non significa in altri termini “la fine della salvezza”. L'autore nota che negli antichi catechismi e trattati teologici, un luogo importante era dato alla morte, al giudizio, e alle due destinazioni finali dell'Al di là, l'inferno e il paradiso. Preoccupati, già nel dicembre 1966, di vederli scomparire dall'insegnamento e dalla predicazione, i vescovi della Francia notarono: «Il peccato originale [...], così come gli ultimi fini e il Giudizio, sono punti della dottrina cattolica direttamente collegati alla salvezza in Gesù Cristo e la cui presentazione ai fedeli si rende davvero difficile per molti sacerdoti incaricati d'insegnarli. Non sappiamo come parlarne». Poco prima, il Cardinale Ottaviani, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, aveva notato che il peccato originale era quasi completamente scomparso dall'attuale predicazione. G. Cuchet sottolinea che non era solo un problema di presentazione del dogma, di ordine pastorale e pedagogico, ma che «in realtà, era davvero un problema di fede e di dottrina e un disagio condiviso tra clero e fedeli. Tutto accadde come se, all'improvviso, alla fine di un'intera opera di preparazione clandestina, parti intere dell'antica dottrina considerate finora essenziali, come il giudizio, l'inferno, il purgatorio, il diavolo, erano diventate incredibili per i fedeli e impensabili per i teologi». L'autore situa questa crisi (sebbene abbia avuto alcune avvisaglie di essa qualche tempo prima) negli anni '60, così come la crisi della confessione, osservando la sua stretta relazione con essa: «Il crollo della pratica della confessione segue una cronologia identica, in particolare la quasi sparizione in pochi anni, o anche pochi mesi, del gruppo una volta così consistente di quelli che si confessavano spesso. Il rapporto è diretto, se non esclusivo, con la cancellazione della nozione di peccato mortale (nel senso di un peccato degno di dannazione). Ma aveva anche implicazioni con altri sacramenti legati agli “ultimi fini”. Nel nuovo rito del battesimo, gli esorcismi sono stati significativamente ridotti (perché non sembra opportuno sottolineare il ruolo di Satana, al quale una parte del clero non crede più e che sembrano appartenere a una mitologia da cui bisogna liberare quei fedeli giudicati ingenui); e c'era pure una chiara censura al peccato originale, da cui [il battesimo] era incaricato di liberare per assicurare la vita eterna».
Per quanto riguarda sempre il battesimo, un'altra riforma provocava la disaffezione di molti fedeli dal dicembre del 1965, «una nuova pastorale del battesimo dove, se la prima preoccupazione fino a quel momento fu quella di battezzare i bambini il più presto possibile, qui, al contrario, si tende a ritardare la scadenza, in modo da coinvolgere maggiormente i genitori nella preparazione. Va aggiunto che un certo numero di religiosi scoraggiavano il battesimo dei bambini, con il pretesto che dev'essere un atto libero, volontario e pienamente cosciente, e sostenevano di aspettare a proporlo fino al momento dell'adolescenza.
Lo stesso concetto di condizioni per la salvezza è stato modificato da tutti questi fattori. «La vecchia ecclesiologia concentrica, con i suoi cerchi di probabilità decrescente di salvezza, non era affatto appropriata. Il Vaticano II è stato, da questo punto di vista, il teatro di una sorta di “notte del 4 agosto” dell'Aldilà che ha posto fine ai privilegi dei cattolici riguardo la salvezza. Ora, la Chiesa era concepibile più come uno strumento di salvezza per tutti, senza discriminazione o privilegio, anche se i fedeli abituati finora ad una teologia molto diversa rischiavano adesso di trovarsi un poco destabilizzati e d'interrogarsi, in queste condizioni, sui reali benefici della loro affiliazione».

Avvicinandosi alla sua conclusione, l'autore sottolinea pure gli effetti disastrosi della crisi degli anni '60 sulla coscienza dogmatica dei fedeli che, in qualche modo, è stata protestantizzata: «La consacrazione della libertà di coscienza da parte del Concilio è stata spesso interpretata nella Chiesa, inaspettatamente all'inizio, come una nuova libertà della coscienza cattolica, che l'autorizzava implicitamente a fare strame di dogmi e di pratiche obbligatorie. La nozione stessa di dogma (come credenza obbligatoria in coscienza) divenne quindi problematica. Quest'importante decisione del Concilio, assieme con il concetto di “gerarchia” delle verità, sembra aver funzionato nelle menti di molti come una sorta di depenalizzazione formale per il “credente fai da te” che contrastava fortemente con la situazione precedente, in cui le verità della fede dovevano essere prese in blocco e senza diritto d'inventario. C'era da aspettarsi che la più spiacevole tra loro, o la più contraria all'intuizione del senso comune, avrebbe pagato un prezzo come poi si è verificato».

Quali siano i fattori esterni che possono aver determinato il crollo del Cattolicesimo (mentalità moderna, pressione sociale, ecc.), i fattori interni sembrano determinanti, secondo l'autore di questo libro.
Lo stesso Cattolicesimo ha una pesante responsabilità nella scristianizzazione della Francia (e più in generale dell'Europa, perché un'analisi fatta negli altri paesi porta a conclusioni identiche). L'aggiornamento realizzato dal Concilio Vaticano II, che ha proposto di affrontare le sfide del mondo moderno, non ha fatto altro che adattarsi ad esso. Pensando di attirarlo, ha iniziato a seguirlo. Volendo essere ascoltato nel suo secolo, il Cattolicesimo si è secolarizzato. Temendo di affermare la propria identità si è relativizzato al punto che molti fedeli non trovano in lui i segni a cui erano abituati o che si aspettavano e non trovano più alcun interesse a cercare in esso quanto il mondo offre già loro in modo meno tortuoso.
La autorità cattoliche cercano di minimizzare il crollo descritto nel libro con vari argomenti (un gran numero di francesi rimangono cattolici e fanno battezzare i loro bambini; la pratica religiosa si misura con altri impegni rispetto all'assistenza alla messa, la quantità è stata rimpiazzata dalla qualità, ecc.). Ma tali argomenti stentano a convincere. Giovanni Paolo II è stato spesso presentato come colui che ha raddrizzato gli eccessi seguiti al Concilio Vaticano II, ma si deve ricordare che la pratica domenicale è scesa in Francia dal 14%, al momento della sua elezione, al 5% al momento della sua morte nel 2005. Se è vero che le comunità viventi nelle città possono illudere, (come potevano illudere le poche chiese aperte sotto il periodo comunista nei paesi dell'Est, sovraffollate a causa della chiusura di altre), così come lo spettacolare raduno dei giovani della JMJ, la campagna francese mostra la realtà di una desertificazione drammatica: moltiplicazione delle chiese in disuso (vale a dire non più usate concretamente come luogo di culto), con sacerdoti incaricati di 20 o anche 30 parrocchie, i quali celebrano ogni domenica una messa “regionale” ad un piccolo gruppo di fedeli per lo più anziani venuti, a volte, da diverse decine di chilometri, scomparsa delle sepolture celebrate dai sacerdoti per mancanza di celebranti, assenza di contatto tra sacerdoti e fedeli a causa della reciproca distanza e dell'indisponibilità del primo, più occupato dagli incontri che dalle visite pastorali ...

La triste evoluzione della Chiesa cattolica postconciliare descritta nel libro di G. Cuchet dovrebbe servire da monito per i prelati ortodossi che hanno sognato e continuano a sognare di chiedere alla Chiesa ortodossa un “grande concilio” simile a quello con cui la Chiesa cattolica ha voluto fare il suo aggiornamento, ma che ha avuto come effetto principale di provocare la sua disintegrazione interna e la drammatica emorragia di un gran numero di fedeli.

Jean-Claude Larchet




venerdì 18 maggio 2018

Intendere la Liturgia

«Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice “buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?”. I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede: “Ma cosa diavolo è l’acqua?”». 

Questa citazione, tratta da un discorso accademico al Kenyon College, è tutt’altro che banale. Chi vive immerso in una realtà è ben lungi dal rendersene conto. La cosa, evidentemente, riguarda anche il nostro modo di intendere il culto cristiano o la liturgia che dir si voglia. La nostra cultura occidentale è passata attraverso eventi culturali di non poca portata: rinascimento, illuminismo, romanticismo, giusto per citarne alcuni. 
Questi eventi hanno lasciato i loro segni in ogni campo (artistico, letterario, musicale, ecc.) ma, ancor prima, nel modo di pensare e intendere la realtà. 
Oggi non ne possiamo prescindere e ne siamo tutti più o meno influenzati, nel bene e nel male. Se qualcuno, più cosciente o semplicemente di un altro universo culturale, ci chiede “Com’è l’acqua?” o, in altri termini, “Perché vivete così?”, spesso non siamo in grado di dare una risposta e finiremo per pensare: “Ma che diavolo ci chiede costui?”. 

Tutto ciò riguarda direttamente anche la liturgia. Oggi il nostro modo di intenderla è prevalentemente razionale, intellettualistico. Se nella liturgia esiste qualche elemento che capiamo immediatamente lo riteniamo, altrimenti lo poniamo subito in secondo piano, in attesa di eliminarlo appena possibile. 

La storia delle continue riforme delle antiche liturgie occidentali prova in modo lampante questo procedimento che le ha lentamente scarnificate col risultato finale di alterarle in non pochi casi. In esse si vede che la vita religiosa dell’uomo si è lentamente spostata dal piano interiore, cardiaco, al piano esteriore, formale, puramente intellettuale. 

E non ci si può neppure scusare appellandoci ad una "antica nobile semplicità" alla quale i nuovi riti si sarebbero ispirati, perché nel nostro modo di intendere siamo riusciti ad oscurare sempre più il significato del simbolo, anticamente accessibile, sostituendolo con altro o intendendo lo stesso simbolo in modo assai diverso.

Conseguentemente, la liturgia da strumento fondamentale è divenuta di fatto accessoria. La sua importanza è per lo più affermata solo nei documenti o nella teoria perché nella pratica ci si smentisce palesemente avendo accorciato progressivamente la liturgia stessa con il passare del tempo. È come se in palestra ribadissero l'importanza degli esercizi ginnici e, contemporaneamente, li limitassero il più possibile.

D'altronde, vivere la preghiera e a fortiori la liturgia sull’unico piano intellettuale stanca, la fa sentire a noi estranea, la fa inevitabilmente decurtare e, alla fine, abolire. 
Quando, nella preghiera, l'occhio corre all'orologio, siamo alla frutta! 
È la fine che ha fatto la Liturgia Horarum, ossia il "breviario" di rito romano riformato dove una parte non trascurabile dello stesso clero non lo recita più. Detto "breviario" avrebbe fatto arrossire san Benedetto da Norcia, per quanto è... breve! Si pensava che pregare di meno servisse a pregare meglio; che illusione! La brevità non serve ad intrattenere uno spirito nel quale la preghiera rimbalza via e viene a noia perché la porta del cuore è costantemente sbarrata.

Nell’Oriente cristiano, laddove ancora si è conservato il modo di sentire tradizionale e antico, la liturgia stabilisce l’ingresso al Paradiso. Ad essa si partecipa facendo echeggiare, nella grazia divina, gli eventi liturgici nell’interiorità o nel cuore. Chi partecipa immerge i testi liturgici nella sua interiorità o nel suo cuore, come chi immergerebbe un biscotto nel latte. In questo modo c'è l'incontro e in un certo senso la fusione tra i due elementi.
Per giungere a fare ciò, come per fare veramente la cosiddetta “Preghiera del cuore” ci vuole un aiuto dall’Alto, è necessario che la preghiera passi dal piano puramente intellettuale a quello cardiaco nel quale si capisce la profonda differenza tra i due. 
Nel piano cardiaco la liturgia e la preghiera diventano come il respiro: necessari in ogni momento del giorno. Pregare non pesa più e, anzi, lo si ritiene di vitale importanza. 
Questo spiega perché tutte le antiche liturgie non si esauriscono in una mezz’oretta e spiega pure perché, per alcuni secoli, nella basilica del santo Sepolcro, la liturgia si eseguisse ininterrottamente, 24 ore al giorno. 
Parlare di "vita liturgica", ossia di un modo di vivere che trae ispirazione dalla liturgia e ad essa sempre vi ritorna, è puramente utopistico se non si ha bene in mente quanto sopra affermato.

Chiedere all’uomo odierno di avvicinarsi a Cristo, tentare di evangelizzarlo, è completamente inutile se non gli si mostra che bisogna travalicare il semplice approccio razionale, la ragione, per giungere nell’interiorità che ha bisogno di essere risvegliata dal suo torpore e prendere vita. Solo allora il seme gettato nei solchi della terra darà il suo frutto.

sabato 21 aprile 2018

Elogio all'abito monastico


Popolarmente corre il detto che “l'abito non fa il monaco”. Io sono un fermo assertore del contrario. Non entro in discussioni già fatte altrove e reiterate soprattutto dinnanzi all'allergia di certo clero moderno verso i segni del sacro. Tali discussioni hanno elementi da me ampiamente condivisi ma che, solitamente, si mantengono sulla superficie delle cose come il dovere di distinguere il sacerdote, di indicare un segno religioso in una società sempre più avulsa dalla fede, ecc.
Ciò che mi preme sottolineare è qualcosa di più profondo: l'abito non è solo il segno di una scelta personale ma una protezione e, di più, una casa. Chi veste un abito religioso è un po' come se vivesse custodito in una casa.
Nel caso dell'abito monastico occidentale, questa valenza è decisamente più forte. Il monaco anticamente era l'abitante delle caverne, quando faceva una scelta eremitica. Se viveva in forma cenobitica, ossia con altri confratelli, la sua caverna, il suo luogo di protezione, era la cella.
Il monaco non deve fuggire dalla sua cella e vagare ovunque come un'anima persa ma la deve abitare più frequentemente possibile, vi deve “marcire dentro” come diceva san Paisios del Monte Athos.
Questo perché la cella aiuta il monaco ad entrare nel luogo del suo cuore, ad interiorizzare la sua vita di preghiera e la sua vita stessa.
Quando, per doveri di stato, il monaco esce dalla sua cella o, se eremita, deve uscire dalla sua caverna, il luogo della sua protezione diviene l'abito, la coccolla, il cappuccio.
Ognuno di noi può capirlo, soprattutto nel periodo invernale, quando si indossano quei giubbotti che hanno cucito un ampio cappuccio contro il freddo e il vento. Il cappuccio protegge la testa e la immerge in un luogo piuttosto appartato, diviene la “piccola caverna” dove ognuno vive un po' intimamente.
Questo spiega perché, in certi momenti della preghiera corale, i monaci occidentali sollevavano il cappuccio quando stavano in coro. La funzione pratica antica era quella di interiorizzare la preghiera servendosi di tale mezzo.
Per lo stesso motivo i monaci più progrediti vivevano un periodo di eremitismo in una caverna che li isolava dai rumori esterni.
Si tratta, per dirla con linguaggio esicasta, di far scendere la preghiera nel cuore per darle forza e farla divenire vera.
Chi non capisce tutto ciò o vede la cosa romanticamente (che gran guaio il romanticismo in religione!) o pensa che “isolarsi dagli altri sia semplicemente indice di una malattia”, come ho letto, ahimé, in un discorso papale attuale.
Ma questi insegnamenti sono totalmente errati, è veleno allo stato puro!
Un monaco benedettino, Tommaso Leccisotti (1895-1982), amava dire che l'abito monastico detto coccolla, deriva a sua volta dal termine casula e quest'ultima significherebbe “piccola casa”. Il monaco, dunque, abita in una piccola casa.
Sulla scorta di idee simili perfino il Poverello di Assisi raccomandava ai suoi fratelli di vivere come se fossero in cella anche quando il dovere li chiamava a percorrere le vie del mondo. Ed è così che il beato Francesco assieme a frate Leone percorrevano le piazze delle città umilmente, con lo sguardo a terra e il cappuccio sollevato sulla testa.
Il monaco e, per extenso, il cristiano, devono proteggersi, essere nel mondo ma non del mondo e lo fanno con semplici mezzi a loro disposizione. Il fine è quello di mantenere il contatto con il Sorpannaturale il più possibile perché nel momento in cui giunge l'oblio ci si è chiusi al Cielo. Da quel momento in poi si avrà una logica avversione per lo stesso abito fino a dismetterlo completamente. E questa è, lo sappiamo!, storia dei nostri giorni.

martedì 13 marzo 2018

Islam e Cristianesimo



I post in un blog mi obbligano ad una trattazione piuttosto generale, con tutti i limiti che questo può comportare. Si prendano, dunque, queste considerazioni come uno stimolo, piuttosto che come una trattazione esauriente. La settimana scorsa mi si è avvicinato un giovane studioso di origine iraniana. È una persona silenziosa, precisa, con un sorriso antico, piuttosto raro a trovarsi dalle nostre parti. Si è intrattenuto con me per raccontarmi le percezioni che lui, mussulmano sciita, prova quando entra nelle moschee del suo paese. Ha sottolineato che un edificio religioso è costruito per delle finalità ben precise, per imprimere nelle persone che vi entrano una particolare sensazione: l’interno di una moschea senza alcuna raffigurazione umana e con decori geometrici (al più con intrecci di foglie e fiori) spinge la mente di chi la osserva a pensare di essere a contatto con qualcosa che va totalmente oltre l’umano. L’architettura funzionale ad un’esperienza o a una semplice educazione religiosa è qualcosa che è stato totalmente perso dalle nostre parti ma che era tradizionale almeno fino ad un certo periodo. In Dio, secondo il giovane studioso persiano, non può che esserci questa trascendenza assoluta, per cui la solennità delle moschee del suo paese deve determinare, in chi vi entra, la sensazione di sentirsi quasi “schiacciare” da questa maestosità divina che riempie di meraviglia. 

C’è chi dice che cristiani e mussulmani adorano lo stesso Dio. In realtà, dalle parole di questo gentile giovane comprendo la notevole distanza esistente tra il Dio rivelato in Gesù Cristo e il Dio che lui mi fa intravvedere. L’affermazione di Cristo: “Non vi ho chiamati servi […] ma amici […]” (cfr. Gv 15, 15) indica chiaramente tutta questa differenza. 

Il Dio rivelato in Cristo sposa, senza confusione, la nostra umanità con la divinità ed è per questo che san Paolo lo può definire “mediatore tra cielo e terra”. Tutto questo è inaudito per il Credo mussulmano e per il credo ebraico. Per questo in queste due religioni il misticismo, seppur esiste, non è mai maggioritario e, in alcuni casi, è considerato eretico. Il misticismo, infatti, va nella direzione di una prossimità tra il divino e l’umano, prossimità che in Cristo si è fatta addirittura persona. Il fondamento reale del Cristianesimo, dunque, non è un insieme di dottrine, di disposizioni legali e religiose ma, come più volte ripetuto, un’esperienza di Grazia resa possibile da Cristo stesso. Affermare che Cristo è contemporaneamente Dio e uomo non ha alcun senso se non si accompagna con una reale percezione di qualcos’Altro. In caso contrario si ricade nella legge e, come direbbe l’Apostolo, si diviene servi. Una religiosità che confessa solo a parole l’umano-divinità di Cristo non serve a nulla. 

Per rendere comprensibile il mio discorso, mi è sembrato utile aggiungervi un piccolo schema con il quale si può ben capire in quale situazione viviamo. Ognuno, poi, tragga le sue considerazioni.


venerdì 9 marzo 2018

Ideologia o realismo cristiano?


Ho diverse volte trattato quest’argomento. Ci ritorno volentieri perché ne vale sempre la pena. Inoltre è una magnifica cartina da tornasole per verificare su quale piano si vive veramente il Cristianesimo. 

Quandero ventenne alcuni sacerdoti ponevano a me e ai miei coetanei la domanda seguente: “Chi è Cristo per te, per la tua vita?”. 
È una domanda fondamentale davanti alla quale ci trovavamo spaesati, disarmati e, d’altronde, questi sacerdoti non ci rispondevano, non ci aiutavano a trovare un modo convincente per rispondere. Forse sotto sotto non lo sapevano neppure loro ...

Nei vangeli Cristo afferma di essere la “via, la verità e la vita”. Lui stesso che è il Logos, la Parola incarnata di Dio, secondo la rivelazione, è in realtà la Vita. Le sue parole sono “parole di vita eterna” perché cariche della forza vivificante della sua presenza. È tale forza vivificante della presenza divina che viene sperimentata nella vita cristiana. Quando si parla tradizionalmente di “vita di grazia”, significa che il credente è abilitato ad entrare in un modo di esistenza che non è quello ordinario. Attraverso questo modo di esistenza i martiri hanno potuto testimoniare la loro fede fino alla morte, rafforzati e assicurati da un’energia non umana. Parlare di Cristianesimo, dunque, significa riferirsi ad un evento che nasce da un incontro, nella fede, con una Persona la quale lascia il segno di sé nei cuori che La cercano, in chi assume con cuore ben disposto i Sacramenti, in chi Lo confessa nella giusta fede: 

Credi nel Figlio delluomo?”. Quegli rispose: “Chi è, Signore, perché io creda in lui?”. Gesù gli disse: “Tu lhai già visto; è colui che parla con te, è lui”. Egli disse: “Signore, io credo”. E ladorò (Gv 9, 35-38). 

Di certo la presenza di Cristo nella Chiesa e nel cuore del credente è qualcosa di discreto, non di eclatante. Ciononostante è tale da farsi riconoscere e questo è un dato di fatto che ha sempre accompagnato la storia della Chiesa stessa. Se tutto ciò non viene messo al suo giusto e centrale posto, poiché Cristo è una persona, è la Vita che nutre realmente la nostra vita, tutto diviene una questione di idee. 

Nel momento in cui, per una ragione o un’altra, la cosiddetta Grazia si oscura e non opera più, tutta l’attenzione si sposta sul piano di idee giuste che devono contrapporsi e combattere idee sbagliate.

A quel punto abbiamo il paradosso di persone idealisticamente ortodosse ma esistenzialmente opposte al Cristianesimo, gente che combatte per principi morali (ad es. la famiglia cosiddetta "tradizionale") ma che nella vita privata fa l’esatto contrario
Oggi tutto ciò è così diffuso che parlare nei termini soprastanti risulta quasi incomprensibile quand’anche non ampiamente risibile. Lo si constata prima di tutto da parte dei cosiddetti “credenti”. Per essi è letteralmente oscura la distinzione tra idee cristiane e Cristo. Al contrario, nell’epoca patristica era ben evidente la differenza tra i “vuoti discorsi” e il Verbo. I primi, se non collegati al secondo con una prassi autentica non servono a nulla, rimangono vuoti, anche se sono perfettamente ortodossi. Questo spiega la straordinaria diffusione del monachesimo nei primi secoli, monachesimo che era orientato alla prassi e allesperienza cristiana, al quale si sottomettevano volentieri i Padri. 

Perciò per essi la lotta per la verità non era una lotta per dei discorsi ortodossi, da contrapporsi a discorsi eretici, non era una questione di parole. La lotta per la verità era la lotta per lasciare aperta la via che conduce ad una reale esperienza del Verbo, nella Grazia. I discorsi sono solo dei mezzi che orientano o ostacolano quest’esperienza, degli umili servitori. 

A dire il vero, la verità cristiana, nella sua essenza, non è una questione di semplici termini tant’è che soprattutto nei primi secoli il linguaggio teologico era sfumato e una stessa parola, che in Egitto significava una cosa, ad Antiochia ne significava un’altra. Questo linguaggio flou è poi stato considerato primitivo perché impreciso, dinnanzi alla grande scolastica e agli sviluppi seguenti della teologia. Chi emette tale giudizio mostra un'incapacità valutativa: non capisce che, nei primi secoli, ciò che importava era giungere all’obiettivo-Cristo. I discorsi erano semplici vie per giungervi. Il linguaggio umano non dava particolare ansia ai Padri, al punto che giunsero ad affinarlo solo dopo secoli sulla spinta delle eresie. Questo dimostra ampiamente che la loro preoccupazione era un’altra.

Da essi comprendiamo che i termini, per quanto importanti, sono relativi nel senso che sono sottomessi a favorire l’incontro nella Grazia con Cristo. Il monachesimo stesso per secoli è stato il custode non di un’intelligenza ma di una sapienza cristiana, prima di conformarsi in gran parte ad un appiattimento generale, ad una filosofizzazione e idealizzazione del Cristianesimo, in cui era imperiosamente importante l’intelligenza stessa

Con l’inizio dell’era moderna c’è stata un’ulteriore svolta determinata dal sospetto per la vita mistica e per la spiritualità (**). Così il Cristianesimo è stato sempre più presentato popolarmente come un insieme di idee da credersi per ricevere un premio nell’eternità. L’incontro personale nella Grazia, si è appiattito a semplice vita morale, esercizio di virtù.

Di qui la lotta per le “idee giuste” e per la “giusta” pratica morale. Dando per scontato e ponendo in ombra l’aspetto interiore della vita cristiana, il baricentro si è inevitabilmente spostato su un aspetto puramente ideale quindi esteriore.

E giungiamo ai giorni nostri in cui si crede che gli antichi martiri cristiani sono morti per delle “idee giuste” senza avvedersi che, così pensando, non esiste più alcuna differenza tra il Cristianesimo e un partito politico (*). 

Nel solo novecento quante persone sono morte per delle “giuste idee” politiche, di destra o di sinistra? A questo punto il Cristianesimo viene fagocitato nell’idealismo e diviene una delle tante opzioni della storia.

Se poi all’idealismo si aggiunge pure lo psicologismo (con il popolare detto “è giusta la scelta che ci fa stare bene con noi stessi”), allora la frittata è fatta nel senso che si ha finito per annullare totalmente la rivelazione cristiana. 

Con l’idealismo ci si stacca senza avvedersene dall’esperienza nella Grazia e si riduce tutto ad una questione di idee. Con lo psicologismo ci si stacca pure dalle idee per approvare quanto ci fa stare psicologicamente bene (morale o meno che sia) dimenticando che lo stesso san Paolo trattava duramente e teneva in schiavitù il proprio corpo (1 Cor 9, 27). Si passa, così, da una oggettività ideale ma astratta (perché tende ad accantonare l’esperienza umana in Cristo) ad una soggettività psicologicamente reale.

L’idealismo e il moralismo sono uno stadio che contraddistingue diversi cosiddetti “tradizionalisti cattolici”, lo psicologismo è lo stadio che contraddistingue i cosiddetti “progressisti cattolici”. Posizioni che, come vediamo, sono entrambe in discesa, seppur ad un livello differente. 

Il Cristianesimo, in realtà, è ben altro!

_____________

(*) Su un blog tradizionalista cattolico, "Opportune importune", il responsabile, un improbabilissimo chierico ottuagenario con lo pseudonimo di Baronio, se ne esce dicendo che i martiri cristiani sono morti per delle idee cristiane, a differenza dei modernisti che non si sacrificherebbero di certo per le loro idee eretiche. Nessuno di chi legge ha il coraggio o la capacità di confutare tale enorme corbelleria.

(**) Ho più volte accennato a questo sospetto con il quale si tollera la spiritualità che, in ambiente clericale, tende ad essere vista come qualcosa di femmineo, di debole e risibile, non come qualcosa di realmente serio (come può essere per essi la riflessione filosofico-accademica sul fatto religioso). Inoltre, per tali ambienti la pratica spirituale è ritenuta qualcosa di soggettivo, qualcosa sul quale non si può assolutamente fondare l'unità della Chiesa (basata, per loro, su unici criteri oggettivi di espressione dogmatica e canonica). 
Al contrario, la pietra di fondamento della Chiesa, stabilita dalla confessione di Pietro, è basata sulla fede non quale espressione intellettuale (ai tempi di Cristo si era ben prima della cultura illuministica, rinascimentale e razionalistica) ma quale espressione di profonda adesione vitale-esperienziale alla persona di Cristo stesso.
L'unità che Cristo promette ai suoi discepoli non è un prodotto codificato dal diritto canonico o da una filosofia con presupposti teologici ma procede direttamente dall'unione con Lui ed Egli la predicò e dimostrò ben prima dell'avvento dei diritti canonici e degli affinati concetti teologici.
È incredibile come questi discorsi siano tutt'altro che comprensibili e, d'altronde, questo prova la totale lontananza di molte strutture ecclesiastiche attuali dalla Chiesa del Nuovo Testamento stabilita da Cristo.